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Autore: Desmond    01/10/2013    2 recensioni
Questa storia è raccontata per fotografare il raccapriccio del razzismo, portato all’esasperazione nei campi di concentramento: chi, per sua “fortuna”, ne è uscito, non può dimenticare l’orrore vissuto nei lager. Questo racconto è tratto da una storia vera. Perché l’umanità, nel suo essere meschina, non dimentichi mai.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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Eravamo tutti lì, ammassati in quel vagone merci. Faceva freddo, molto freddo. Alcuni tra i più anziani erano morti congelati, avevo visto delle madri morire pur di dare ai propri figli qualche abito in più con cui coprirsi. Non ricordo da quanto fossimo in viaggio, il tempo sembrava non scorrere dentro a quel claustrofobico vagone. Ricordo ancora il giorno che eravamo stati scoperti, il 13 dicembre del 1944. Ci avevano portati subito in carcere, puntandoci addosso i loro fucili, e due giorni dopo ci avevano messi su quel treno. Da Gorzòv, nell’attuale voivodato di Lubusz, in Polonia, ad un campo di concentramento non meglio definito, diretto, nessuna fermata.
Quando arrivammo, scoprii che era il 18, dunque il viaggio era durato tre giorni. E in tre giorni i morti del mio vagone erano sulla quarantina, una cifra spaventosa, a dir poco. Ci fecero mettere tutti in fila, iniziarono a dividerci: uomini da una parte, donne dall’altra. Poi, si passò alla schedatura. Ci presentavamo uno ad uno ad un banchetto dietro al quale sedeva un uomo gracile con su una divisa nazista. Il freddo entrava nelle ossa, stavamo assiderando. Arrivò, il mio turno e, sollecitato da un fucile sulla schiena, mi avvicinai al tavolino.
«Nome?» chiese l’ufficiale.
«Dimitri Tchienkov» risposi con fermezza. La bocca del fucile fece più pressione sulla mia schiena.
«Età?» continuò.
«Ventiquattro anni, signore» replicai, e la pressione sulla mia schiena diminuì.
«D’ora in poi sarai il numero diciannove barra trentasei».
Venni accompagnato in uno stanzone buio, dove c’erano altri come me, seduti con desolazione su delle brande di legno. Sopra ad una di esse c’erano delle uniformi grigie. Un ragazzo mi si avvicinò e mi disse:
«Ciao, benvenuto. Io sono Andreij. Devi indossare una di quelle, altrimenti si arrabbiano».
«Da quanto tempo sei qui?» gli chiesi mentre iniziavo a cambiare i miei abiti.
Il ragazzo rimase un po’ a pensare.
«Quattro mesi, o giù di lì» rispose poi con un sorriso.
Sebbene fosse lì da mesi, sembrava non aver perso la voglia di vivere. Gli altri invece avevo facce stanche, distrutte dal lavoro, occhi privi d’ogni speranza, né nel presente né nel futuro.
La giornata di lavoro era terminata prima del mio arrivo, dunque cercai un posto dove dormire, e con mio grande piacere, occupai la branda accanto a quella di Andreij. Era giovane, aveva un paio d’anni meno di me, eppure era il più apprezzato dai bambini del mio casermone. Era come un padre per loro, un esempio da seguire. E così, cominciai anche io a curare i bambini. Li conobbi, erano una decina: Karl, Raphael, Jon, Christopher, Philip e altri di cui non ricordo il nome. In disparte ce n’era un altro, un bimbo gracile e piccolino, biondo e con gli occhi color ghiaccio.
«Chi è? Come mai sta in disparte?» chiesi a bassa voce ad Andreij.
«Lui è Dimitri, sta sempre un po’ da parte. Non ho capito ancora bene il motivo. L’unico momento in cui lo vedo più vivace è quando andiamo, ogni sera, a sentire la musica che esce dai saloni dei soldati» rispose accennando un sorriso. Osservai a lungo quel bambino, senza riuscire a decifrare quello sguardo perso nel vuoto.
Passò una guardia a portare qualche tozzo di pane e Andreij ne prese una manciata da donare ai bimbi. Per fortuna riuscii anch’io ad afferrarne uno. Mi raccolsi in silenzio, alzai gli occhi al cielo per ringraziare il Padre Eterno di quel dono. Il mio amico mi notò e mi interruppe.
«Ma sei pazzo? – chiese – se ti scoprono ti fucilano! Questo è un posto in cui è meglio evitare la religione. Se vuoi pregare, fai come me: ringrazia il Signore senza darlo a vedere» mi ammonì.
Seguii il suo consiglio e iniziai a mangiare.
Terminata la cena, Andreij mi annunciò che sarebbero andati di lì a poco sarebbero andati a sentire la musica.
«Ma non è proibito uscire dagli alloggi dopo la cena?» gli domandai perplesso.
«Sì, ed è per questo che lo facciamo di nascosto. Ma non ti preoccupare, non siamo mai stati scoperti, conosco i turni di ronda ed il posto in cui ci mettiamo è completamente privo di rischi» mi rassicurò.
Decisi di andare insieme a loro, incuriosito non solo dalla musica, ma anche da Dimitri. Quel piccolino col mio stesso nome catturava la mia attenzione. Giungemmo nel luogo dettomi da Andreij in pochi minuti. La musica si sentiva abbastanza bene, e tutto sommato non sembrava neanche di essere ancora in quell’odioso lager. Come mi aveva detto il mio amico, gli occhi di Dimitri si riempirono non appena le prime note arrivarono alle sue orecchie. Rimanemmo una mezzora, poi tornammo nello stanzone, perché i bambini cominciavano ad avere sonno.  
Andreij mise a dormire i bimbi, come un padre coi figli. Era una scena molto toccante, un barlume di speranza in mezzo a quell’ingiustizia. Prima di mettersi a letto, Dimitri mi si avvicinò e mi chiese timidamente:
«Signore, ti ho visto molto attento, mentre ascoltavamo le canzoni. Conosci la musica? M’insegni qualcosa?»
Lo guardai nei suoi occhi azzurri che sembravano infiammati dalla passione per la musica, poi gli risposi dolcemente:
«Certo, piccolo Dimitri. T’insegnerò quel che desideri. E non chiamarmi signore, chiamami Dimitri».
«Grazie sign…Dimitri – mi disse con un sorriso colmo di gioia – ho sempre voluto sapere la musica!».
Il giorno seguente la guardia passò presto a svegliare il casermone: era ora di andare al lavoro. I compiti erano duri, eravamo impiegati per la fabbrica di nuove armi da fuoco. Il mio compito era quello di trasportare con una carriola blocchi di ferro da fondere dal deposito alla fonderia. Quando arrivò l’ora di pranzo, era già completamente esausto, le gambe e le braccia mi dolevano e, benché fossimo in verno, la mia fronte era imperlata di sudore. Il pasto consisteva in un cucchiaio di sbobba pastosa e un tozzo di pane. Lo consumai avidamente dopo aver, tra me e me, ringraziato Dio. Poi ricominciò il lavoro. Verso metà pomeriggio, le mie gambe cedettero. Un soldato corse verso di me puntandomi una baionetta alle tempie. Mi rialzai spinto dalla paura e ripresi, se pur stremato, a trasportar ferro. La sera rientrai finalmente nello stanzone, che mi parve più accogliente di qualsiasi dimora. Feci quattro chiacchiere con Andreij, raccontandogli la mia spossante giornata, lui mi disse che, dal giorno seguente, anche lui sarebbe passato al trasporto, e che tutto sommato ne era contento, dato che passare dodici ore al giorno davanti ai forni per i metalli era per lui uno strazio. Ad un certo punto, sentii qualcuno che mi tirava la maglia, mi voltai e vidi i melanconici occhi azzurri del piccolo Dimitri. Ci sedemmo sulla mia branda ed iniziai a spiegargli le basi della teoria musicale. Il nostro discorso si interruppe quando entrò la guardia per la cena. Riuscii ad accaparrarmi solo un tozzo di pane, ma lo diedi al piccolo. Intanto continuammo a parlare di musica, lui mi ascoltava interessatissimo. Anche quella sera ci recammo ad ascoltare la musica, e Dimitri era ancor più contento, ora che ne sapeva un poco di più. Io ed il piccolo rimanemmo qualche minuto in più, ché insisteva tanto. Poi ci ritirammo come gli altri, e ci addormentammo.
Le giornate seguenti trascorsero in modo analogo per più di una settimana. Quantomeno la compagnia di Andreij faceva pesare meno i carichi, e il pensiero di riveder gli occhi interessati e gioiosi di Dimitri mi rinfrancava sempre. Il 28 dicembre, arrivò nel campo una nuova figura. Un nuovo generale, accompagnato da un centinaio di soldati. Per noi non cambiava nulla sostanzialmente: medesime funzioni e stesse razioni di cibo. Quella sera ci recammo, come di consueto ad ascoltar musica. Ma quella sera il pianoforte non suonava. Mentre tornavamo al nostro casermone, venimmo scoperti, evidentemente la sorveglianza era aumentata. La sentinella ci osservò intensamente, poi ci lasciò rientrare con un sorriso beffardo disegnato sulle labbra. Sembrava che, in un certo senso, ci avesse perdonato la scappatella.
Il mattino seguente, usciti dallo stanzone, Andreij venne bloccato da un soldato.
«Sei fortunato, oggi fai la doccia» gli disse sogghignando. I bambini, che erano in ascolto, erano contenti per lui. Io avevo capito. La mia giornata lavorativa proseguì normalmente, ma quella sera Andreij non tornò. Lo avevano fatto morire in una camera a gas. Spiegai ai piccoli che quella notte non sarebbe tornato, perché era a colloquio con degli ufficiali, e, malgrado la mia voce fosse velata di tristezza, parve che mi avessero creduto.
Il giorno seguente avevo ipotizzato fosse il mio turno. Infatti, appena fuori dal casermone, venni prelevato da un tedesco. Non fece menzione della mia destinazione, che, con mio grande stupore, non era una camera a gas. Mi portò in un campo, l’erba era ghiacciata, in mezzo ad esso stavano in piedi due ufficiali. Uno era il nuovo generale, l’altro non lo avevo mai visto. Il mio accompagnatore si dileguò e di lì a poco arrivò un prigioniero come me (l’avevo intravisto un giorno, anche lui era incaricato del trasporto), ma sulla sua carriola non c’era del ferro oggi, c’erano dei bambini.
L’ufficiale sconosciuto mi ordinò di prenderne uno in braccio e di gettarlo in aria, descrivendo un’ampia parabola. Mio malgrado obbedii, minacciato da una pistola in testa. Lo lanciai secondo gli ordini. Proprio mentre era in aria, l’ufficiale gli sparò un colpo. Lo centrò sul volto, il bimbo cadde a terra morto. Il generale fece un gesto di stizza col braccio e sbuffò. Pensai che forse anche in quell’uomo, così crudele, fosse rimasto un briciolo di umanità. Quello borbottò ancora, poi tirò fuori dal taschino della giacca delle monete d’oro. No, non era rimasto scandalizzato dal crudele gesto del suo subordinato, aveva perso una scommessa. Quelle terribile barbarie proseguì per tutta la mattina, poi il pomeriggio e ancora la mattina seguente. Avevo lanciato a morte più di cento piccoli, mi sentivo un assassino. Lo scempiò non si fermò neanche quel pomeriggio e accadde quel che non volevo succedesse. Era quasi l’imbrunire, vidi arrivare il mio compagno, che portava nella sua carriola altri bambini, i miei bambini. Si misero rassegnati in fila, quasi senza timore. Rividi il melanconico sguardo di Dimitri e mi prese un tuffo al cuore. Avrei dovuto gettare anche lui, che era quasi un figlio per me. Nella linea si mise per ultimo. Il primo fu Raphael, poi Christopher. Io ero costretto a scaraventarli in aria, intanto piangevo a dirotto e avevo gli occhi gonfi. Lanciai Karl. Venne trapassato in petto. E anche lui cadde esanime, come dozzine e dozzine prima di lui. L’ultimo era Dimitri, ed era il suo turno.
Uno scoppio. Il generale e l’ufficiale corsero ad avvisare gli altri. Un carro armato apparve sul campo. Un soldato sbandierava un drappo rosso, con una falce ed un martello cuciti sopra. Lo scempio era terminato. Eravamo salvi, il piccolo Dimitri era salvo.
 
Il piccolo Dimitri diventò poi docente di matematica e musica all’università di Cracovia.
Io diventai padre e poi nonno. Tuttavia mai riuscii a tener in braccio né i miei figli né i miei nipoti. Il ricordo di quell’oscena barbarie brucia ancora dentro al mio petto, ogni sera piango, ripensando tutti i bimbi che avevo gettato a morte, dei quali mi sento tuttora carnefice, piango ricordando Andreij, perché seppe regalare ai suoi bimbi ed a me una speranza.
  
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