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Autore: ContessaDeWinter    01/10/2013    3 recensioni
“Pensi valga la pena morire qui, ad Azkaban?”
“Cugino sei patetico.”
Era iniziata così, quella conversazione, con quelle parole ad un’ora imprecisata del pomeriggio (il pendolo aveva battuto le 18 non molto tempo prima, a dir la verità).
Era stata una giornata vuota, una come molte altre. La noia pronta a farsi sentire, come sempre.
“Morire è una cosa patetica?”

[Partecipante al contest "Tutti ad Azkaban!" indetto da Bellatrix_Black]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bellatrix Lestrange, I Malandrini, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Personal Hell

 
"Non c'è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che,
tremando sull'orlo di un precipizio, medita di gettarvisi."
(da Il genio della perversione, Edgar Allan Poe)
 
 
Sirius non ha più voce. Le corde vocali sono atrofizzate e doloranti, per il troppo urlare. E per quanto desideri continuare, non ha più forza per farlo. Ha sbraitato i loro nomi con così tanta enfasi da sentire il sapore ferroso e acidulo dell’amarezza, sul palato. I visi puliti dei suoi migliori amici gli baluginano davanti simili a visioni mistiche ma il rimorso e la sofferenza, che il giovane cova nel proprio petto, devastano i ricordi. Li rendono futili, illusori, vani.
Sirius sente di star crollando e cadere nel precipizio della sua mente non gli è mai sembrato tanto liberatorio. Si afferra la nuca per poi stringersela tra le mani, accovacciandosi per terra, in posizione fetale.
Sta ancora tremando (un brivido freddo gli attraversa il corpo, scuotendolo da dentro ininterrottamente) quando arriva la cena. Lo stomaco pare ribellarsi, incatenato al corpo, pur non essendo pieno: sono giorni che non tocca cibo, se non per quel sorso d’acqua sporca che persistono a portargli i carcerieri umani (assieme ad un tozzo di pane raffermo e stufato di carne, che lui assaggia raramente). A volte, però, quel liquido trasparente e non cristallino prende un’altra tonalità di colore: diventa rossastro, porpora. Quando succede, Sirius non può trattenere un urlo.
Rivede le proprie mani, sporche di sangue, e non c’è nulla che possa fare se non incolpare se stesso, per quanto innocente possa essere in realtà. Le immagini sono ancora davanti ai suoi occhi (Lily, James, il piccolo Harry, Remus in lacrime che silenziosamente gli chiede perché) e sente che non potrà sopravvivere a lungo, non in quel posto.
Non così, senza più certezze, non senza la sua vera famiglia.
Giace per terra, rinchiuso in una cella, tra la polvere e topi morti accanto a sé. L’odore di putrido e decomposizione invade l’aria, asfissiandolo. Si sente completamente assente, per la maggior parte delle ore diurne. Se ne resta fermo immobile a fissare un punto nel vuoto e concentra lì tutte le proprie energie psichiche.
Il sole non sorge mai, a est, o quantomeno lui non può osservare l’alba, ed i raggi si perdono nella coltre opprimente che la nebbia costituisce. La foschia circonda la torre di Azkaban, che si erge dall’oceano nero in tutta la sua imperiosità, rendendo l’aria satura di vapore acqueo, salsedine ed una apatia che Sirius non riesce a descrivere. Perché, oltre quell’universo fatto di uomini peccatori e criminali, non c’è nient’altro, se non il mare in tempesta, e questa prospettiva è devastante. Vorrebbe vedere il bagliore della luce e sentire il calore rassicurante sulla pelle, almeno qualche volta. Ma il cielo si rifiuta di svelare la sua parte più splendida (o, forse, è la Magia a far in modo che questo non avvenga? Proprio non lo sa).
Qualche volta pensa di non potercela fare, di non poter resistere. Di voler morire, abbandonare la vita e tutto ciò che essa implica (il dolore, la sofferenza, la solitudine, l’Amore) in modo tale da raggiungere quella parte di sé che è morta insieme a James e Lily. Quella parte di sé che è sfumata via nello sguardo amaro di Remus.
Del suo Remus.
Pensare a lui è come un colpo al cuore. Sirius è abbastanza intelligente da capire che basta il ricordo di Moony a farlo sentire peggio. Gli manca come l’aria, come l’ossigeno pulito che ad Azkaban non è presente. E per quanto tenti di lottare contro se stesso, per smettere di pensare a lui, la propria mente non risponde più ai comandi dell’anima.
E le memorie di un’altra vita (sembra davvero passata un’eternità) tornano a fargli compagnia, quando la notte si fa troppo buia e colma di agonia.
Rivede se stesso ad Hogwarts, felice e sorridente, e tutto sembra dover finire bene. La sala Grande colma di persone.
La Sala Comune.
Grifondoro.
La biblioteca dove Remus si rintanava spesso e volentieri.
Il Quidditch.
Snivellus.
La stamberga strillante.
La luna piena.
Il lago nero, dove si è dichiarato a Moony, dove lo ha baciato, dove hanno fatto l’amore. Dove si è sentito completo, per la prima volta in tutta la sua vita. Desidera tornare a quel momento. Venderebbe l’anima al diavolo, se fosse certo di poter rimanere stretto tra le braccia dell’altro almeno qualche minuto, sentire le sue dita passare tra i propri capelli e potergli sussurrare all’orecchio un ultimo “Ti amo”.
Ma poi la notte finisce e Sirius riapre gli occhi. Il mondo immaginario si sgretola, inesorabile. I sorrisi sfiorano e gli sguardi si tramutano. La propria felicità perde consistenza, sfracellandosi al suolo.
Resta solo con se stesso e non c’è nulla che possa salvarlo.
 
Sirius ha paura.
La notte dorme poco, a malapena percepisce il rintocco dell’enorme pendolo posto all’entrata di Azkaban che scandisce le ore (come se fosse importante, il tempo, come se valesse ancora qualcosa per tutti loro che altro non sono se non feccia del mondo). Il suo rumore non è di conforto alcuno.
Il giovane Black ha imparato ad ignorare il magone che sente all’altezza del petto, che lo stringe e non lo lascia respirare, ogni volta che si concentra sui secondi passati in quell’inferno.
La mancanza di libertà è un male che non può sopportare, non senza scontrarsi col proprio cuore. Il mondo in cui ha vissuto, quello di cui faceva parte prima della strage, non esiste più e tale consapevolezza lo annienta.
Ma Sirius ha paura, continua ad avere paura e ne avrà per il resto dei suoi giorni.
Sirius ha paura di se stesso come di un nemico mortale. È terrorizzato dai pensieri che stanno incominciando a prendere vita, nel proprio cervello, e ciò lo destabilizza. Perché, stranamente, si sente diviso, frammentato in miliardi di parti difficili da ricomporre. E la sua mente gli suggerisce che non riuscirà a ritrovare se stesso, in quel caos.
Può tentare, provare a rimanere integro, cercando con razionalità la soluzione ai suoi problemi. Oppure può provare a lasciarsi completamente andare ed evitare di soccombere con tenacia. Ma, in entrambi i casi, Sirius è certo di una cosa.
Prima o poi, la ragione lo abbandonerà totalmente.
E la follia prenderà il sopravvento.
 
  •  
 
Fu allo stremo delle forze che la sentì.
Una voce. Lieve, sottile. Ma pur sempre una voce.
Sirius era steso come di consueto a terra, gli occhi chiusi sul presente ed aperti nel passato in uno di quei rari momenti di quiete e ricordi, col cibo dall’odore nauseabondo abbandonato di fianco a lui ed il bicchiere sporco colmo di acqua fredda.
Ci impiegò un poco a riaprire gli occhi, molto più del previsto. Lo fece di malavoglia, ancora intontito dalla dormiveglia rassicurante in cui era caduto ore prima.
Dopo essersi rimesso seduto ed aver sollevato definitivamente le palpebre, guardò il vuoto, aspettandosi la comparsa di qualcuno.
Per parecchi secondi non successe nulla. Sirius pensò di essersi immaginato tutto e se ne preoccupò: la labile linea tra sanità mentale e pazzia si stava affievolendo, poco a poco. E ne fu terrorizzato.
Ma poi la udì nuovamente. Una voce di donna. Poco distante da lui.
“Sirius Black!”
La risata non lasciò dubbi su chi fosse colei che lo stava tanto reclamando. Sirius, pur non vedendola, poté immaginare un ghigno sadico imbruttirle il viso, le labbra contratte in una smorfia distorta e contornate da sbavature di rossetto nero, gli occhi infossati ed ipnotici, la pelle cadaverica. L’aria di una che non ha nulla da perdere, perché la cosa più preziosa che possiede l’ha già smarrita: il senno.
“Sirius, cugino! Quanto tempo, non è vero?”
Il ragazzo si scostò dal muro al quale era appoggiato ed intravide un buco molto piccolo ma sufficiente a far parlare due carcerati di celle adiacenti.
“Non sei felice di vedermi? O, meglio, sentirmi?”
La sua voce era quella di sempre: un po’ distaccata, un po’ vanesia, un po’ frivola, un po’ iraconda.
“Cosa vuoi Bellatrix?” rispose il moro, all’ennesima domanda inutile.
Lei impiegò un po’ di tempo nel rispondere. Non che avesse fretta, Sirius, ma voleva evitare di intrattenersi con quella donna. Con quella Mangiamorte.
A tal pensiero, il moro serrò le palpebre.
“Io? Niente, cugino. Proprio niente. Qui dentro non puoi fare niente. Non puoi farmi niente.” Rise ancora.
“Ed allora – riprese la parola il giovane Black, sdraiandosi nuovamente a terra ed osservando la piccola finestrella sulla parete di fronte a lui, con malcelata insistenza – lasciami in pace. Voglio dormire.”
Il silenzio cadde tra di loro, imperioso e snervante come al solito. Sirius tentò di non prestarvi attenzione, di non ascoltarlo, perché se lo avesse fatto sarebbe definitivamente impazzito.
Fuori, la nebbia continuava ad essere fitta ed impenetrabile. Avvolgeva ogni cosa, senza lasciare spazi vuoti, diramandosi come fronde di un albero morto.
 
 
“Ti sei mai chiesta perché questo destino è toccato a noi?”
La domanda era sgorgata fuori dalla sua bocca come acqua da una sorgere. Non aveva riflettuto sulle implicazioni o sulla motivazioni che lo avessero spinto a pronunciarla ma, nonostante tutto, non se ne pentì.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sradicare quel silenzio alienante.
Il cielo si stava schiarendo, fuori dalla finestrella, per quanto possibile data la perenne foschia. Ma non era ancora arrivata l’alba. Sirius lo percepiva.
Le tenebre sono più scure prima del sorgere del sole.
“Pensi che la risposta a questa domanda ti farà sentire meglio, cugino?”
“No, affatto.”
La donna rise. “Non prendermi in giro: tu ci speri. – sospirò – Comunque non lo so, neppure io.”
Sirius abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate e sporche.
“Pensi che se fossimo nati in un’altra famiglia.. saremmo stati felici?”
Bellatrix esitò, prima di rispondere.
“Non sei felice di essere un Black?” indagò, curiosa.
“E’ solo un cognome. Perché dovrebbe significare qualcosa?” sussurrò il giovane, con una spavalderia che ormai non gli apparteneva più.
“Come puoi dire questo. Come puoi! I nostri antenati sono stati luminari del mondo magico. E tu, verme, osi insultarli?! Se fossi nata in un’altra famiglia.. Salazar! Non voglio nemmeno pensarci!”
Il tono alterato della cugina non servì a destarlo dall’apatia in cui era caduto. Tutto appariva inutile, agli occhi di Sirius, e le poche parole pronunciate da entrambi durante la nottata non erano altro che menzogne. Vane discussioni per far scorrere il tempo più velocemente.
“Non ho insultato nessuno, io. E, comunque, non hai risposto alla domanda. Sei felice, Bellatrix?”
Dovette aspettare parecchio e, per un momento, pensò anche che la donna non gli avrebbe mai risposto. Quel quesito era troppo personale, invadente, e sottintendeva una confidenza che loro due non avevano mai avuto (neppure fuori da quel posto).
“Sarò felice quando ci sarà giustizia, a questo mondo.”
Sirius sgranò gli occhi, stupido da tali parole. Non aveva mai pensato che Bellatrix potesse avere una qualche sorta di morale, a cui appellarsi.
Non dopo tutto il male che aveva commesso volontariamente.
Non dopo essere stata la carnefice di decine e decine di maghi e streghe.
“Tu parli di giustizia?”
“Credi non ne abbia il diritto?”
“Credo solo che tu non sappia cosa voglia dire.”
La donna rise di gusto.
“Purificare questo mondo dall’errore non è forse giustizia?”
“Di quale errore parli?”
“Di quello che anche tu hai commesso, cugino. – la sentì ghignare – Di quello che, al giorno d’oggi, tutti commettono. Perché la società è corrotta, nessuna parte di essa si salva se non coloro che riesco a vedere.
Sirius si spazientì. “Non so di cosa tu stia parlando, cugina.”
“Eppure dovresti saperlo molto bene, dato il giro di amicizie che solevi frequentare. Ma tu sei marcio dentro, ormai, nessuno potrà salvarti.”
“Di cosa stai parlando?!” urlò stancamente il giovane Black, voltandosi verso il muro dietro di sé in modo che potesse sentirlo meglio.
La bocca di Bellatrix Black in Lestrange non era degna di parlare di James, Lily o Remus.
“Del sangue, caro cugino, del sangue puro che ti scorre nelle vene. Che mi scorre nelle vene. Di quel sangue che tu reputi tanto inutile, privo di significato. Ma non immagini, minimamente, quanto esso valga.”
“Tu parli del nulla.*”
“No, io sto parlando della giustizia.”
Sirius scosse la testa.
Avrebbe dovuto immaginare che Bellatrix non fosse cambiata.
Le idee sono dure a morire.
“Hai un concetto distorto della Giustizia. Ma non sarò io a farti cambiare idea.”
“Non ci riusciresti.”
“Lo so.”
 
 
“Pensi valga la pena di morire qui, ad Azkaban?”
“Cugino sei patetico.”
Era iniziata così, quella conversazione, con quelle parole ad un’ora imprecisata del pomeriggio ( il pendolo aveva battuto le 18 non molto tempo prima, a dir la verità).
Era stata una giornata vuota, una come molte altre. La noia pronta a farsi sentire, come sempre.
“Morire è una cosa patetica?”
“Uccidersi di propria sponte, sì. Uccidere per un valido motivo, no.”
“Stai paragonando il suicidio all’omicidio?”
Bellatrix non esitò. “Sì.”
“Perché?”
“Perché, in entrambi i casi, la Vita si distacca dal corpo, lo abbandona. Ed, allora, l’unica cosa che conta è la motivazione per cui ciò è accaduto.”
“Privarsi del dolore non è una motivazione sufficiente?”
La donna rise. “Il dolore è Vita. Dovresti saperlo, Sirius.”
Il giovane contrasse i muscoli delle braccia. Serrò le palpebre. James gli sorrise.
“Io so solo che non ce la faccio più.”
Silenzio. Bellatrix non infierì ulteriormente.
“Non è ancora il tuo momento, cugino, e non avresti comunque il coraggio di commettere un tale atto verso te stesso. Sei troppo buono.”
“Pensi lo avrò mai?”
“Il coraggio, dici? No, mai. Ma non devi preoccuparti di ciò: se ti può consolare, ci sarà qualche Mangiamorte pronto a farti fuori, se mai uscirai da qui.”
“E se fossi io, invece, ad uccidere lui?” Sirius esitò, prima di continuare. “Se fossi io ad uccidere te?”
La risata che proruppe dalle labbra di Bellatrix lo fece tremare.
Agghiacciante.
“No. Neppure questo riusciresti a fare. E quando esiterai, quando cederai al sentimentalismo che tanto vai professando ed agognando, io sarò lì. E la tua vita fluirà via da te.”
Quelle parole suonarono come un avvertimento.
Una condanna prescritta.
Sirius l’accettò.
“Me lo prometti, cugina?”
La donna sorrise all’oscurità.
Gli occhi brillanti di ferma determinazione e lacrime.
“Te lo giuro.”
 
 
Un lampo verde.
Urla feroci.
Una risata distorta, alienata, nel buio.
Perdersi. Lasciarmi andare.
Cadere.
“Ho ucciso Sirius Black!”
 
 
 
Fine.
 
 
  
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