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Autore: Katie Who    01/10/2013    0 recensioni
"In quegli occhi c’era l’universo, e proprio come in esso, un enorme buco nero al centro, ad inghiottire tutto. Perché lei finiva sempre lì? Perché nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad emergere da quella macchia nera? Poteva vederci il mondo in quegli occhi in cui ora si specchiavano i suoi. Chissà come appariva lei vista da lì. " - dal secondo capitolo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson , Molly Hooper, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve! E’ la mia prima ff su Sherlock. E’ ambientata dopo Reichenbach, di conseguenza se non lo avete ancora visto (Seriamente? Esiste qualcuno che non l’abbia visto? XD) prima di tutto fatelo, e poi non rovinatevi la sorpresa! Ho cercato il più possibile di non andate OOC, ma alla fine è stato un po’ inevitabile… Spero comunque che la storia vi piaccia, e soprattutto che non vi annoi. Era partita per essere una OS, ma man mano che scrivevo, mi sono resa conto che sarebbe stata eccessivamente lunga, quindi l’ho divisa in due capitoli. Faccio preventivamente ammenda per eventuali errori di tipo tecnico sulla parte medica, mi sono informata più che ho potuto, ma sicuramente qualche baggianata l’ho scritta comunque! Buona lettura, e se trovate delle imprecisioni, tempestatemi pure di correzioni, io ho cercato di controllare il più possibile, ma quattro, sei, otto dodici ecc… occhi sono sempre meglio dei miei soli due <3 

 



L’ultima volta che aveva trascorso con lui un periodo di tempo superiore ai cinque minuti, lo stava dichiarando morto.
Lo aveva pianto fino all’ultima lacrima nel suo corpo, gli aveva detto addio, l’aveva visto mentre lo seppellivano. Nonostante lei fosse l’unica a conoscere la verità dietro quel dramma, anzi, proprio per questo aveva dovuto essere ancora più attenta, ancora più scossa. Lei, innamorata di lui da praticamente sempre, cosa che,  grazie al pessimo carattere dell’uomo, era stata resa nota a tutti i conoscenti, presenti quel giorno al cimitero, non avrebbe dovuto esitare nemmeno un’ istante o tutto il piano sarebbe fallito. Sebbene, come spesso accadeva, il grande disegno dietro le azioni di Sherlock le sfuggisse, quando lui le chiese di farlo, non ebbe il minimo dubbio, nonostante fosse la meno brillante fra le sue conoscenza, lui aveva deciso che doveva essere lei la chiave di tutto. Le bastò immaginare che in quella bara, che lentamente sprofondava nel terreno, ci fosse davvero lui, per abbandonare il copione, ed essere semplicemente se stessa. Lo pianse veramente, di cuore, soffrendo di quel dolore che ti stringe il petto, con l’aria nei polmoni che brucia le vie respiratorie. La gola secca che fa male, come se vi si fossero aperte mille lacerazioni, e gli occhi che annegano nelle lacrime, pronti ad abbandonare la loro cavità, per accompagnarle fino al bianco fazzoletto.
 
Era passato più di un anno da quel giorno, e sebbene si fosse trattato di uno stratagemma, una parte di lei, quel lutto, lo aveva ancora legato intorno al cuore. Sherlock era tornato all’incirca da un paio di mesi, non gli ci erano voluti più di un paio di giorni per sistemare le cose, e lei invece, ancora si chiedeva come avesse fatto ad avere il perdono di Watson. Tutto è bene quel che finisce bene, dice il proverbio, ma stando alla sua esperienza era necessario apportare una piccola modifica: Tutto è bene quel che va secondo i piani di Sherlock.
In ogni caso, da allora, non aveva più avuto modo di passare con Sherlock del tempo, da soli. Non aveva potuto fargli nessuna domanda. O meglio, nessuna di quelle che veramente le interessavano. Arrivava in laboratorio sempre per o con dei cadaveri da esaminare, più raramente invece si limitava a richiederle delle analisi. Quando iniziò la sua carriera da patologa, non immaginava nemmeno lontanamente che sarebbe finita per diventare lo specialista personale di un consulente detective. Forse semplicemente perché, non esistono altri consulenti detective. Aveva rispolverato tutte le sue conoscenze mediche, e più di una notte l’aveva passata a riprendere in mano vecchi manuali. Con Sherlock, non si era mai sicuri di cosa avesse potuto avere bisogno, e lei non voleva farsi trovare impreparata. Questo era uno dei tanti problemi che intrattenere con lui un rapporto, le aveva creato. Avvertiva continuamente la sensazione di dover fare di più, di non essere mai abbastanza. Quando un anno prima le aveva chiesto aiuto, non aveva esitato nemmeno un istante, per quanto la cosa potesse essere folle, e lo era. Sherlock aveva valutato e soppesato attentamente ogni possibilità, ogni piccolo possibile imprevisto, ed aveva, inaspettatamente, deciso che lei, Molly Hooper faceva al caso suo. Era riuscita a scardinare qualcosa, non perché lo avesse raggiunto nel suo iperbolico mondo, ma al contrario, analizzandolo utilizzando i semplici strumenti che aveva. Lo aveva letto, come sempre era lui a fare con lei, aveva visto la tristezza, l’ansia e la preoccupazione che nascondeva. Solo una volta, in un’amicizia costellata di sgraziati, aspri e taglienti scivoloni da parte di lui, era riuscita a spostare dagli occhi cristallini del genio, il velo di ovvietà con cui era solito guardarla e giudicarla. Era riuscita a spannare il vetro che li separava, guadagnando qualche punto nell’immenso universo della mente di Sherlock, e diventando, forse, una stella leggermente più brillante dell’iniziale stima. Ma nonostante questo, nulla era cambiato da allora. Sentiva di avere un ruolo nella vita di Sherlock, di non esser invisibile o priva di valore, ma quel ruolo non le aveva ancora dato l’occasione, nemmeno di porgli la domanda più banale del mondo. “Come stai?”
Il grado di incomunicabilità che a volte si creava fra di loro, avrebbe dovuto essere studiato dalla NASA, come esempio di contatto fra razze provenienti da mondi diversi. Anzi molto probabilmente, se domani gli alieni fossero scesi sulla Terra, sarebbero riusciti a comunicare meglio di loro.
Era quasi una settimana che Sherlock non piombava nel laboratorio costringendola a dei non retribuiti, straordinari. La cosa era abbastanza strana, di solito, anche se non c’era nessun caso interessante,  si presentava con richieste al limite dell’assurdo, per degli, altrettanto assurdi, esperimenti. Rigorosamente realizzati in cucina. Il fatto che contasse i giorni in cui non lo vedeva, rientrava nella categorie di problemi che Molly evitava di affrontare. Quasi tutte, ovviamente, legate alla stessa persona. “Forse Londra non ha più bisogno del suo migliore, ed unico, consulente detective?” Pensò mentre con attenzione travasava un liquido giallino in un contenitore da analizzare al microscopio. Se fosse davvero stato quello il caso, sarebbe stato un peccato, perché, a lei, quelle sporadiche comparse illuminavano la vita. L’allarme sul telefono le ricordò che era ora di tornare a casa ed iniziò a sistemare le attrezzature, era pronta a trascorrere il suo primo weekend di riposo, da due mesi a questa parte. Grazie alla finta morte di Sherlock, era riuscita a fare devi veri straordinari, quelli pagati, e ad organizzare i turni così da ritagliarsi due giorni di pace assoluta. “Salvo emergenze…” aveva specificato in ufficio, e tutti sapevano che per emergenza, ovviamente s’intendeva: “Salvo ricomparsa di Sherlock Holmes.”
Prima di rincasare si fermò lungo la via a compare un po’ di frutta e verdura. Non era solita fare la spesa, la maggior parte delle volte, erano acquisti estemporanei, che non rientravano in un’ottica vera e propria di nutrimento. Si limitava a prendere alimenti base con cui poter creare qualcosa di commestibile. Quando viveva con i suoi genitori, la madre era molto attenta a ciò che le faceva mangiare, perché sin da piccola aveva sofferto di una lieve anemia. Nulla di grave o preoccupante, ma per evitare che fosse costretta a prendere dei farmaci, non ammetteva sgarri nella sua ferrea dieta. Da quando viveva da sola a Londra, ed il lavoro le lasciava a malapena il tempo di dormire, un pasto bilanciato era l’ultimo dei suoi pensieri, la sua dieta era costituita per un buon 70% da caffè e qualunque altra cosa contenesse caffeina e riuscisse a tenerla vigile a lungo. Si ricordava di dover mangiare un pasto vero, solo in quelle rare occasioni in cui aveva tempo per pensare a qualcos’altro, oltre i cadaveri, il sangue, le analisi di laboratorio, e Sherlock.
Il suo appartamento al secondo piano, era piccolo, ma ben distribuito. Una camera, un bagno ed una cucina aperta, comunicante con il salotto. C’erano diversi borsoni lasciati distrattamente in più angoli della casa, ed alcuni macchinari che aveva potuto prendere al lavoro quando, grazie ad una donazione, avevano rimodernato il laboratorio. Aprì il frigorifero per sistemare la spesa, e mentre appoggiava le zucchine nel cassetto in basso, con tanto di busta, non poté fare a meno di pensare che infondo non era poi tanto diverso da quello di Sherlock. Anche lei a volte portava il lavoro a casa, e nel ripiano più alto erano ben visibili una dozzina di fiale, dai diversi colori. Era più che sicura che, un giorno o l’altro, un colpo di sonno gliele avrebbe fatte usare come condimento. Finito di sistemare si diresse verso la camera, seminando cappotto, scarpe e borsa lungo il tragitto. Ciò di cui aveva bisogno era una doccia calda, ed un sonno profondo.
Il suo era un quartiere residenziale, che dopo le 23:00 veniva inghiottito da un silenzio quasi spettrale. Si riusciva a sentire il rumore di qualcuno che buttava la spazzatura anche a due vie di distanza. C’erano solo i taxi ad interrompere la pace, ma non erano poi così frequenti non essendo una zona centrale. Nel suo palazzo abitavano poche persone, quasi tutte come lei, con un lavoro massacrante dagli orari improbabili. Non ne conosceva quasi nessuno, complice anche il fatto che sul suo piano l’unico appartamento affittato fosse proprio il suo. Un’altra donna al posto suo, probabilmente si sarebbe sentita a disagio in quella situazione, ma lei era abituata a passare molto tempo in solitudine, o con gente morta, quindi la totale privacy di cui godeva non la destabilizzava affatto. Finita la doccia avvolse i capelli nell’asciugamano, continuando a frizionarli, indossò la sua tuta da casa, e con una ciotola di pop-corn si lasciò poco elegantemente crollare sul divano. Si addormentò poco dopo, lasciando la ciotola di pop-corn mezza piena appoggiata sul pavimento, nulla l’avrebbe costretta ad abbandonare quel caldo e comodo giaciglio. Nulla, di tutto quello che una mente come la sua poteva aver calcolato, e, come Sherlock le aveva fatto notare in qualche occasione, la sua immaginazione e capacità astrattiva non erano fra i suoi punti di forza. Insieme con la propensione al dialogo.
Fu un tonfo sordo e violento, a costringerla ad aprire gli occhi. Assonnata ed abbastanza spaventata, non riusciva ad individuare da dove potesse essere arrivato, “Probabilmente l’inquilino del piano di sopra è caduto dal letto”, pensò ironizzando mentre risistemava le coperte e si raggomitolava nel divano. Aveva richiuso gli occhi, e con la mente ricercava quel profondo silenzio che le avrebbe concesso di tornare fra le braccia di Morfeo. Fu proprio allora che riuscì a notare degli strani fruscii in prossimità della porta. Questa volta scatto a sedere sul divano, e prese il cellulare in una mano, pronta a chiamare la polizia. Si concentrò nuovamente, ma non vi furono altri rumori. Lentamente con i piedi nudi sulla moquette si avvicinò allo spioncino per accertarsi che non vi fosse nessuno. Si protese in avanti per osservare, ma sentì del bagnato sotto la pianta del piede. Si chinò dove la moquette si era scurita, per via del liquido, istintivamente guardò verso il soffitto per accertasi che non vi fossero perdite dal piano di sopra. I suoi dubbi furono immediatamente fugati, dal soffitto completamente asciutto, nessun segno di perdita. Tastò con la mano destra la moquette bagnata e il vederla tingersi di rosso le fece perdere un battito. Aprì istintivamente la porta, dimenticandosi di tutte le più banali misure di sicurezza, e non appena lo fece, una testa riccioluta crollò dentro il suo appartamento.
“Sherlock…”  - soffiò impietrita, vedendo l’uomo riverso a terra in un mare di sangue. Questo, per tutta risposta, tossì, incrementando ulteriormente il flusso di liquido scarlatto che gocciolava copiosamente sul pavimento. Nel più completo panico, Molly cercò di sollevarlo da terra – “Sherlock, aiutami, devo tirarti su, non posso farcela da sola!” – gli disse a pochi centimetri dal viso, inginocchiata in un lago di sangue. Lui era chiaramente ad un passo, dalla perdita totale dei sensi, ma fece quello sforzo e la aiutò ad alzarlo. Riuscì, con enorme sforzo a portarlo fino al  letto, dove lo appoggiò con poca grazia e gentilezza, a quell’azione seguì un rantolo di dolore e una smorfia piuttosto eloquente sul viso di lui. Molly non sapeva cosa fare, lo osservava incapace di  organizzare un pensiero ed un’azione. Doveva aiutarlo, doveva fare qualcosa, qualunque cosa. Immediatamente balenò nella sua testa l’immagine dei borsoni nel salotto, in alcuni di essi c’erano gli strumenti per le autopsie, e delle fiale di morfina. Si catapultò nella stanza rovesciando ogni cosa che incontrò sul suo passaggio, e nella disperata ricerca di ciò che serviva, chiuse anche la porta rimasta accidentalmente aperta. Aveva più di cinque borse piene di oggetti, in quel momento del tutto inutili, nella testa ripeteva come un mantra – “Guanti, disinfettante, ago, filo, morfina. Guanti, disinfettante, ago, filo, morfina.” - Non era questo ciò per cui si era laureata egregiamente in medicina. Lei lavorava su gente morta, scopriva cosa li aveva uccisi, esaminava lo stato dei loro organi interni, non doveva curarli. O peggio, tenerli in vita. Per fare qualcosa del genere, serve un equilibrio interiore che lei non aveva mai avuto, non avrebbe mai potuto convivere con le conseguenze di un suo errore, su un essere vivente. Avrebbe voluto chiamare l’ambulanza ed un medico per lui, ed uno psicologo per lei, ma pur non essendo pratica di certe situazioni era chiaro che aveva bisogno di cure immediate o non ce l’avrebbe fatta. Si era inginocchiata accanto al letto, aveva rovesciato tutto quello che c’era sul comodino per usarlo come piano di appoggio per gli strumenti.
“Andrà tutto bene, non ti preoccupare!” – disse più a se stessa che a lui. Lo liberò del pesante cappotto gettandolo dall’altro lato della camera e poco dopo anche della camicia, per quanto la situazione fosse grave, non poté fare a meno di pensare, che non era così che si era immaginata a spogliarlo. Ripulì velocemente la ferita, e quando ebbe modo di osservare la lacerazione capì subito che era stata causata da un’arma da taglio. Era profonda e lunga quasi 10 centimetri, probabilmente l’epilogo di uno scontro fisico. Pensa che se Sherlock era ridotto così, l’altro probabilmente non si trovava più in questo mondo, non l’aiutò a smorzare l’agitazione, “Watson la sistemerebbe in un attimo”, pensò mentre cercava di accertarsi che l’aorta addominale non fosse compromessa, e l’intestino lacerato. Dovette valutare ad occhio, perché non poteva aprirgli l’addome nel suo letto, non più di quanto già non lo fosse. Poteva occuparsene lei, si trattava di richiudere una ferita, cosa non molto diversa da ciò che faceva sui cadaveri dopo averli esaminati a fondo. Doveva farlo in fretta perché il sangue continuava ad uscire, e ne aveva già perso fin troppo. In tutto impiegò all’incirca 1 ora, le ci vollero ben 19 punti per richiudere completamente la ferita. Le sembrò di non aver respirato per tutto il tempo, quando si lasciò andare all’indietro sul pavimento. Inspirò a pieni polmoni, quell’aria intrisa di sangue, e riuscì finalmente a sciogliere la tensione nei muscoli. Si ritirò su per completare il lavoro, e solo allora si soffermò qualche istante a contemplare il viso dell’uomo a cui aveva salvato la vita. Lo vide addormentato, completamente abbandonato all’effetto della morfina, e con un’espressione migliore dell’ultima che gli aveva visto fare. La smorfia di dolore che aveva contratto ed increspato il suo bellissimo viso era sparita, erano tornati di nuovo quei lineamenti granitici, espressione naturale della sua superiorità. Abbandonò quello sguardo, di scatto, colta da un’improvvisa timidezza, come se anche nella su incoscienza lui potesse vederla ed allontanarla. Tornò a guardare la ferita, e l’immenso accumulo di garze con cui aveva cercato di bloccare il sangue. In quel momento la sua camera da letto sembrava il retrobottega di una macelleria. Coprì i punti con una lieve fasciatura, e riempiendosi le braccia di quante più cose possibili uscì dalla stanza.
Tornò nel salotto, dove sembrava essere passato un ciclone, e guardò l’ora sull’orologio del forno, erano le 4:13. Prese una busta nera dove rovesciò le garze sporche di sangue, e poi armata di uno straccio, un secchio di acqua e detersivo, iniziò a ripulire la macchia di sangue, che aveva ormai innegabilmente macchiato il pianerottolo.  Era abbastanza esperta sul rimuovere macchie di sangue, da qualunque superficie, quindi lavò anche il cappotto e la camicia dell’uomo. Quando ebbe finito, ormai dalle finestre iniziava a trapelare un timido accenno di sole.  Aveva passato una nottata terribile, era stanca, ma soprattutto aveva ancora addosso lo spavento. Quando lo aveva dichiarato morto un anno prima, si era ripromessa che non lo avrebbe fatto mai più, si può dire addio a qualcuno una volta sola, e lui la sua, se l’era giocata così. Sherlock non sarebbe morto fra le sue mani, non davanti a lei, e soprattutto non in casa sua. Andò a sciacquarsi la faccia prima di ricominciare la sua veglia accanto al letto. Forse era solo il sonno, ma le sembrava che il respiro regolare dell’uomo, che gli gonfiava e sgonfiava l’addome, la stesse ipnotizzando. Lei e lui di nuovo soli in una stanza, e lui per la seconda volta, steso su letto ad un passo dalla, vera, morte. Evidentemente qualcuno doveva trovare la cosa estremamente divertente, perché Molly proprio non poteva crederci. Ci sono tanti tipi di coincidenze, ma questa ancora non l’aveva mai sentita. Si asciugò il viso e lasciò trascorrere altri lunghi e interminabili minuti d’osservazione prima di,  prendere dal secondo cassetto del comodino lo strumento di misurazione della pressione. Doveva fargli una trasfusione. Si accertò che la pressione il battito e la frequenza respiratoria lo permettessero, e iniziò a posizionare gli aghi. Non si era mai trovata a dover mettere in pratica quanto studiato in passato sull’argomento, ricordava le lezioni all’università, ma il tremore dalle mani non scemava. Senza contare che essendo leggermente anemica non era solita frequentare centri per la donazione. Per sua fortuna, o meglio, per la fortuna di Sherlock, possedeva il gruppo 0, quindi poteva donare a tutti.
Riuscì a trasferire all’incirca mezzo litro, forse qualcosa in più, si fermò solo quando la testa aveva iniziato a girarle tanto da appannarle la vista. Non poteva permettersi di svenire, né tantomeno di essere poco lucida. Si prese un paio di minuti per riacquistare forza e con un’andatura abbastanza incerta si trascinò fino in cucina dove, alla bene e meglio, ingurgitò un copioso bicchiere di acqua e zucchero, prima di abbandonarsi in poltrona. Prima che il sonno la conquistasse impostò la sveglia sul telefono, almeno per le prime 24 ore Sherlock aveva bisogno di essere monitorato con attenzione.
Quando il piccolo smartphone fece partire la suoneria per destarla nuovamente dal sonno, le sembrò di aver dormito per degli anni, anche se in verità erano solo 40 minuti. Indugiò qualche ulteriore secondo sulla poltrona, ma poi si alzò, causandosi un terribile giramento di testa. Erano le 8:17, e le sovvenne che forse avrebbe dovuto avvisare Watson e la Signora Hudson, che Sherlock era vivo, ed era da lei. Compose il numero che gelosamente conservava nella sua agenda, e la voce squillante della Signora Hudson, centrò esattamente l’emisfero della sua testa che ancora sentiva i postumi dell’improvvisata trasfusione.
“Pronto?” – disse la donna alla cornetta.
“Signora Hudson sono Molly Hooper, la scienziata de-” – rispose con la lingua impastata ed un tono da funerale.
“Molly, cara, so chi sei, non mi farai già così vecchia, vero?” – disse ridacchiando. – “Cosa c’è, qualcosa non va?” – chiese la donna.
Dalla voce della donna, e dalla sua calma zen,  Molly pensò che al 221B di Baker Street, quella nottata non era affatto stata simile alla sua. “No Signora tutto bene” – si affrettò a dire recuperando il suo tono professionale. Preferì non agitarla, parlandole di Sherlock. – “Cercavo il Dottor Watson.”
 “E’ uscito un attimo fa per delle commissioni, vuoi che gli riferisca qualcosa?” – rispose la donna. Per quanto si sforzasse di ripetere a quei due che non faceva loro da governante, si comportava esattamente come tale.  
“Solo di richiamarmi appena torna. La ringrazio Signora.” – la telefonata si concluse così, e Molly abbandonò il telefono sul pavimento, sfinita. Si sentì subito un po’ in colpa per non aver concesso qualche battuta in più alla Signora Hudson, ma non aveva le forze nemmeno per avere una decente conversazione telefonica. Cercò di trovare uno spazio nella sua mente, che non fosse occupato da immagini di Sherlock ricoperto di sangue, per appuntarvi di dover fare un piccolo pensiero alla Signora Hudosn, come scusa per il suo atteggiamento odierno. Quando sentì nuovamente avvampare l’esigenza di dormire, pensò che aveva immediato bisogno di zuccheri. Preparò velocemente una spremuta d’arancia e un uovo sodo. Tornò alla sua postazione con ancora in mano il bicchiere di spremuta, e se ne stette lì accanto al letto della camera, ad osservare Sherlock dormire. Non riusciva ad immaginare che espressione avrebbe avuto quando si sarebbe svegliato, né di che colore avrebbero scelto di essere, i suoi occhi, quel giorno.  Se mai avesse trovato il coraggio, senza balbettare, glielo avrebbe chiesto “Di che colore incredibile hai gli occhi?”, perché nulla in quell’uomo era meno, che fuori dall’ordinario. Sicuramente aveva sviluppato una strana perversione a forza di relazionarsi solo con i cadaveri, ma vederlo lì immobile, adagiato in un letto imbevuto di sangue, scosso soltanto dal suo stesso respiro, era di una sensualità imbarazzante. Notò che sulle gote sembrava essersi affacciato un lieve rossore, segno evidente che le sue condizioni stavano migliorando. Abbandonò, suo malgrado, l’ammirazione di quel corpo, per aprire leggermente la finestra  e far cambiare l’aria, ormai satura. Si infilò in bagno nella speranza di riuscire a darsi una parvenza umana, e soprattutto per togliersi di dosso il pigiama ancora sporco di sangue. Non aveva intenzione di truccarsi o altro, solo di non sembrare uno zombie. Prima di tornare a controllare le condizioni di Sherlock, finì di sistemare la casa, e abbozzò una lista di cose da compare per poter sfamare sia lui, quando si sarebbe svegliato, che lei. Appuntò velocemente i valori della pressione, e del battito sulla sua agenda, ormai convertita in cartella clinica, e poi filò giù in strada.
Erano più o meno le 11:00 di sabato mattina, e lei non aveva la più pallida idea di dove dovesse andare per procurarsi ciò di cui aveva bisogno. Il fatto che conoscesse così poco il suo quartiere negli orari in cui normalmente la gente lo vive di più, la fece riflettere su quanto la sua vita la alienasse dalla quotidianità che una donna come lei dovrebbe vivere. Avere a che fare con un personaggio come Sherlock Holmes, ti cambia la vita, ti rende più simile a lui di quanto chiunque possa davvero notare. Lui non smetteva mai di lavorare, e lei, come la Luna che brilla per la luce riflessa del Sole, faceva lo stesso, da anni. Non sapeva nemmeno dove andare a trovare un alimentari qualunque. Doveva anche sbrigarsi, l’idea di lasciarlo solo in casa troppo a lungo la preoccupava. Girò per qualche isolato, fino a quando non vide una signora, che stava chiaramente tornando da una sessione di spessa e non le chiese informazioni. Quando trovò il luogo che le era stato indicato, comprò così tante cose che fu costretta a prendere un taxi per tornare a casa.
Era stata via quasi un’ora, e era probabile che al suo ritorno Sherlock fosse sveglio. Entrò in casa cercando di fare meno rumore possibile, e dopo aver appoggiato le buste sul tavolo, andò a controllare il bell’addormentato. Immobile. Era esattamente nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Non riusciva a decidere se fosse un bene o un male. In tutto ciò Watson ancora non l’aveva richiamata, forse avrebbe dovuto specificare che lo contattava per una questione riguardante Sherlock, ma d’altra parte per cos’altro avrebbe dovuto cercarlo? Cominciò ad organizzare la spesa nel frigorifero, e lo sentì. Un respiro più profondo degli altri, deciso, quasi imperativo. Si voltò istintivamente. Ritornò sui suoi passi finché non fu davanti alla camera. Per qualche assurda ragione non riusciva ad entrare, restava lì nascosta dal muro, facendo capolino con la testa dallo stipite.
Sherlock aveva aperto gli occhi e si stava guardando intorno. Scrutava attentamente ogni centimetro della stanza, e sospirò ancora. Quando le sembrò che avesse finito il suo controllo, finalmente si decise ad entrare, non era sicura di cosa dovergli dire, sentiva solo il pianto pulsarle in gola come se volesse strangolarla. Gli occhi di lui erano brillanti come sempre, un po’ offuscati dalla morfina che ancora aveva in circolo, ma a giudicare dallo sguardo indagatore che le riservò, si era davvero svegliato.  Si sedette sulla sedia accanto al letto, e a quel punto parlò - “Sherlock… che cosa… Anzi no, per prima cosa, come ti senti? Come stai? Senti qualcosa di strano?” – troppe domande, troppo in fretta e le tremava la voce. Come risposta gli vide alzare un sopracciglio, socchiudere gli occhi ed inspirare profondamente - “Avrei bisogno di sedermi.”
Molly rimase un po’ perplessa, ma lo aiutò, come al solito, e nell’operazione le coperte scivolarono, lasciandogli il petto scoperto e la fasciatura ben visibile. La garza era macchiata di sangue, andava cambiata. Una volta avergli anche sistemato i cuscini per la testa, si risedette e tornò a guardarlo aspettando una risposta. “A giudicare dallo stato delle lenzuola e dal sanguinamento della ferita, direi che sono qui da non più di 12 ore.” – continuò lui. E come sempre le sue deduzioni erano corrette. La maggior parte delle loro conversazioni erano così, lui la leggeva come un libro aperto, spogliandola di ogni argomentazione utile per instaurare un discorso, e a lei non restava che tacere. “Sei uscita, forse a fare la spesa, hai le occhiaie, e gli occhi arrossati. Hai pianto, Molly Hooper?”
No, non ancora, ma era davvero in procinto di farlo. Gli aveva fatto delle domande precise, aveva bisogno di sapere se stava bene, non le serviva un riassunto delle puntate precedenti, lei era dannatamente sveglia mentre se lo è quasi visto morire davanti. “No Sherlock, ma-“ – fu interrotta.
“Hai già chiamato Watson?” – disse lui incurante di averla interrotta – “Uhm… Probabilmente ci hai provato, ma lui non è qui, quindi non lo hai trovato.” – Era piuttosto in forma per essere uno sotto l’effetto di droghe, ed essere stato appena ricucito.
“Sherlock!” – intervenne stavolta con più decisione. – “Ho bisogno che tu mi dica se senti dolore da qualche parte, ed in secondo luogo, che tu mi dica cos’è successo.” – Mai era stata aggressiva con lui, ogni volta che gli parlava cercava sempre di trovare le giuste parole, per non farlo sentire infastidito dalla sua presenza. Stavolta la voce non le tremava, la preoccupazione, l’imbarazzo, ed il sonno avevano creato un mix letale pronto ad esplodere con violenza, se lui non avesse fatto esattamente ciò che chiedeva. E Sherlock, che leggeva il corpo delle persone con una precisione scientifica, probabilmente lo notò.
“Nessun dolore particolare, se escludiamo il fatto che ho un taglio di 10 centimetri sull’addome. Quello che è successo? Non credo che in questo caso una spiegazione dettagliata e precisa dell’accaduto sia…” – Si interruppe. Fu lei allora ad incalzarlo – “Sia cosa? Alla mia portata?” – lo vide inclinare la testa e storcere la bocca in una strana smorfia obliqua.
“Non era quello che intendevo.” – disse, miracolosamente evitando, di essere sgradevole come al solito. – “Limitiamoci all’ovvio. Mi sono tagliato. Anzi sono stato tagliato.” – In quei momenti invidiava Watson, lui era l’unico che riusciva a comunicare con Sherlock ad un livello intermedio. Non sul piano della sua incomprensibile genialità, ma nemmeno venendo trattato come un bambino. Lei non era ugualmente privilegiata e finiva col venir liquidata da risposte come quella. - “E come sei finito sul mio pianerottolo? Almeno questo puoi spiegarmelo?”
“E’ semplice, il lavoro non era stato terminato, quindi qualcun altro mi avrebbe cercato, ed avendo riportato una ferita grave non potevo tornare a casa. La tua era più vicina. Inoltre so che rispolveri regolarmente le tue conoscenze mediche, quindi quasi sicuramente avresti saputo cosa fare.” – Le stava srotolando in faccia tutte quelle cose, come se fossero normali ed ovvie. – “Mi dispiace per l’inconveniente, ma credo che dovrò restare per almeno un altro paio di giorni, appena Watson richiamerà, informalo che ho bisogno di un cambio, e soprattutto del pigiama e del violino.”
Era esterrefatta. E non provò nemmeno a nasconderlo. Si alzò senza proferire parola e andò a prendere le garze per rifare la medicazione. Arrogante, presuntuoso ed egoista. Non le venivano in mente altre parole per descriverlo.  L’umanità che tanto prepotentemente aveva dimostrato un anno prima, sembrava svanita nel nulla. Recuperò altre garze dal borsone nel salotto e andò a pulire nuovamente quella maledetta ferita. Ebbe nuovamente l’occasione di osservare ogni centimetro di quella pelle candida, il netto accostamento di colori in prossimità del taglio sembrava l’opera di un pittore moderno. I filo nero, intrecciava quella carni rosse e pulsanti, che sbiadivano veloci in un bianco latte, purissimo. Si accorse di aver soffermato troppo a lungo lo sguardo su di lui, quando lo vide fissarla interrogativo. Non era più addormentato, e lei doveva stare attenta. Entrambi erano a conoscenza dei suoi sentimenti, ma in nessun modo questo rendeva meno imbarazzante l’ovvietà dei suoi gesti. Rifare la fasciatura, le diede l’occasione per assaporare come sarebbe, poterlo stringere in un abbraccio. Sebbene lui restasse immobile, come un crocefisso, lei poteva circondargli la vita con le braccia. Mentre stava facendo fare l’ultimo giro alla garza, squillò il telefono, e dopo aver fermato la fasciatura, fece per alzarsi e rispondere, ma fu colta da un intenso capogiro, che le impedì di mantenere la posizione eretta. Fortunatamente era caduta sulle ginocchia  e non aveva perso i sensi, e prima che Sherlock potesse dire qualsiasi cosa, si affrettò ad uscire dalla stanza per rispondere.
Mentre Molly era impegnata al telefono Sherlock, si ricoprì. “Watson sarà qui fra poco.” – disse poco dopo lei, dalla sala. –“ Cucino qualcosa e poi vengo a cambiare le lenzuola, non muoverti dal letto.” Effettivamente era disteso in un letto completamente sporco di sangue. Dalla stanza si sentiva perfettamente tutto quello che accadeva in cucina e seguì con la mente tutti gli spostamenti ed i movimenti di Molly, ma non riuscì a capire cosa stesse cucinando. Le ricette erano una di quelle cose, che aveva deciso di non tenere nel suo personale hard disk.
Quando la donna tornò nella stanza, continuò ad evitare scrupolosamente ogni tipo di contatto visivo. Si limitò ad aiutarlo a spostarsi sulla sedia, prima di rifare il letto e portare in bagno lenzuola e coperte sporche. Quando ne riuscì, portava con sé la camicia di Sherlock perfettamente ripulita, e la appoggiò sul mobile, prima di scomparire nuovamente verso la cucina. Tornì indietro accompagnata da un vassoio, sopra il quale era sistemato quello che aveva tutta l’aria di essere un intruglio. Nonostante il porridge fosse un piatto da colazione, con delle piccole modifiche può adattarsi tranquillamente ad ogni pasto, e Molly, non avendo tempo da dedicare ad una vera e propria cucina, andava matta di queste scappatoie. Inoltre essendo facile da digerire, si prestava perfettamente per il tipo di cibo di cui in quel momento Sherlock necessitava. La variante salata era stata una scoperta recente,  dovuta a delle ricerche in internet, ma il risultato era più che soddisfacente.
“Non ho fame.” – disse l’uomo.
“Oh, non mi interessa.” – tagliò corto lei, infilando decisa il cucchiaio nel piatto sollevandolo con un po’ di cibo – “O lo mangi da solo, o ti imbocco io.” – A questa affermazione seguì un lungo minuto di silenzio, in cui entrambi dovettero realizzare e metabolizzare il fatto che, Molly Hooper, avesse appena messo a tacere Sherlock Holmes, con l’ausilio di un misero porridge. A quel punto, Sherlock le prese il cucchiaio dalle mani, ed iniziò a mangiare l’improbabile poltiglia. “L’abitudine a dover dosare al millilitro sostanze chimiche, ti avvantaggia in cucina.” – disse lui dopo il terzo o quarto boccone. L’aveva detto con il tono di voce che più di tutti Molly adorava. Basso, regolare e suadente, come se fosse cioccolata calda. Le si disegnò un sorriso sul viso, non capitava tutti i giorni che Sherlock le facesse un complimento. Mentre l’uomo finì di mangiare, pensò che fosse meglio non continuare a fissarlo imbambolata, e andò in bagno a cambiarsi e a prendere degli integratori. Quando il campanello suonò, era ancora davanti allo specchio a farsi la coda.
“Salve Dottor Watson.” – disse aprendo la porta – “Prego si accomodi.”
“Signorina Hooper.” – salutò lui, entrando nell’appartamento subito alla ricerca dell’amico.
“Lui è di là.” -  disse lei, vedendolo chiaramente scosso. Watson ringraziò con un sorriso, a differenza di Sherlock, era un uomo veramente empatico e sapeva trattare con la gente. Si era trovata immediatamente a suo agio con lui, e poi lo ammirava terribilmente per la sua capacità di comunicare e comprendere le esigenze e le stranezze del consulente detective. O forse le sembrava così visto il pessimo personaggio con cui era costretta a paragonarlo. Watson chiuse dietro di sé la porta della camera, chiaramente aveva bisogno di parlare con Sherlock senza che nessuno ascoltasse, ma ogni tanto qualche squarcio della loro conversazione riusciva a raggiungerla. Mentre i due uomini parlavano nella stanza, Molly fece un tè da offrire al collega, immaginando che ne avesse bisogno vista la corsa fatta per essere lì. Fissando il pentolino dell’acqua che tardava a bollire, si rese conto di aver usato quella cucina, più in quelle ultime 24 ore, che in tutti gli anni di vita in quella casa. “Sherlock ti cambia, la vita.” Lo aveva sempre pensato, e lo constatava sempre di più in ogni cosa, dalle piccole alle grandi. Quando Watson uscì dalla camera, sembrava molto più sereno di quando era entrato, ma allo stesso tempo, molto, molto spazientito. Cosa che era normale avendo a che fare con Sherlock.
“Signorina Hooper sono davvero spiacente per tutto il disturbo.” – le disse accettando la tazza di tè – “Deve essere stato traumatico quello che ha vissuto questa notte.” – Ecco, traumatico, descriveva particolarmente bene quello che era accaduto. Ed il fatto che finalmente potesse parlarne con qualcuno che trattasse la cosa con la giusta attenzione, la rassicurò.
“Si Dottor Watson, mi sono davvero spaventata.” – confessò, fissando la sua tazza di tè e stringendola con entrambe le mani. – “Ha visitato Sherlock? Ho cercato di fare del mio meglio, ma non è esattamente il mio campo quello dei… beh… vivi.” – concluse cercando di trovare approvazione nello sguardo dell’uomo.
“Ho controllato, la medicazione è riuscita perfettamente, eseguita davvero magistralmente.” – quelle parole la rincuorarono – “Ma mi levi una curiosità,  ha anche operato una trasfusione? Ho notato molti aghi sul comodino.” – ovviamente ad un occhio espero come quello di Watson non erano sfuggiti certi dettagli.
“Si, ho dovuto. Quando ho trovato Sherlock, aveva perso molto sangue, e l’emorragia è perdurata fino a che non ho ricucito l’intera ferita. Purtroppo il taglio era molto profondo e si estendeva su una superficie decisamente ampia. La perdita di sangue è stata ingente.” – spiegò lei con tutta la calma e la professionalità di cui era capace.
Watson annuì. “E’ una donatrice universale allora!” – disse l’uomo sorridendole – “Sherlock ha avuto davvero molta fortuna.”
“Si beh, non mi definirei esattamente una donatrice, ma era un’emergenza e non potevo non farlo.” – disse ricambiando il sorriso. Istintivamente verso la camera, dalla quale non proveniva alcun rumore.
“Gli ho portato il computer, starà buono per un po’.” – sentenziò Watson, come se parlasse di un bambino. – “Signorina Hooper, io vorrei potermi fermare, ed aiutarla, ma purtroppo a Baker Street ci sono affari che richiedono la mia presenza.” – disse il Dottore, alzandosi e riprendendo il cappotto – “Mi rendo conto di chiederle un sacrificio notevole, ma potrebbe… prendersi cura di lui?”
“Ma certo-” – nuovamente un giramento di testa, e, se non ci fossero stati i pronti riflessi di Watson a sostenerla, ci sarebbe stata anche un’altra caduta sul pavimento.
“Signorina Hooper, sta bene?” – le chiese aiutandola a stendersi sul divano.
“Si, non si preoccupi, sono solo debole per la trasfusione.” – rispose con un filo di voce.
“Mi dica il più precisamente possibile quanto sangue ha tolto, e cosa ha mangiato dopo.” – disse velocemente Watson iniziando a sentirle il battito.
“All’incirca mezzo litro… forse qualcosa in più.” – spiegò lei, tenendosi una mano sulla fronte – “Ma ho fatto colazione dopo…”
“Allora tutta questa debolezza non è normale.” – chissà perché di tutto quello che il dottor Watson stava dicendo lei riusciva solo a pensare a quanto fosse strano darsi del lei.
“Mi chiami, Molly” – gli disse.
“Come? Ah si… Ok Molly, mi dica, prende per caso dei farmaci che ha dimenticato a causa del trambusto?” – Il Dottor Watson era davvero un bravo medico. Apprensivo preciso e meticoloso. Ma tutta questa attenzione verso una sua collega, la punse nel vivo del suo unico vanto: la professionalità. Molly si mise a sedere sul divano, tenendosi la testa con le mani. Le girava ancora, ma Londra iniziava a rallentare.
“Dottor Watson… Se fossi stata sotto un qualunque tipo di cura farmacologica, non avrei mai eseguito una trasfusione su un soggetto debole come lo era Sherlock poche ore fa. Non avrei mai contaminato il suo sistema, già gravemente provato, con sostanze chimiche di cui non avrei potuto prevedere le reazioni.” – disse, senza prendere fiato nemmeno una volta.
Watson si sedé sulla poltrona, conscio di aver supposto una sbadataggine, che da una professionista di quel calibro era impensabile. “Resta comunque insolita la sua debolezza, dottoressa.” – concluse l’uomo con un tono meno perentorio del precedente.
“Dottore, sono leggermente anemica, evidentemente ho esagerato nella trasfusione, ma-”
“Ha fatto una trasfusione essendo anemica?!?!” – il tono del Dottor Watson si alzò di un’ottava, rimbombando con violenza nel cranio di Molly. – “Dobbiamo immediatamente controllare i suoi valori di emoglobina, potrebbe aver bisogno lei di una trasfusione. Ma cosa le è saltato in mente?”
“Va tutto bene, la mia anemia non è un problema, con un po’ di riposo tornerò come nuova.” – concluse lasciandosi nuovamente andare giù nel divano.
“Riposo che non avrà se Sherlock rimarrà qui da lei.” – aggiunse con una nota di sarcasmo l’uomo.
Su questo aveva ragione. Sherlock era faticoso da sostenere. Onestamente di tutte le persone, doversi prendere cura di quella con cui era più difficile comunicare, non era il massimo. Ma purtroppo sia lei che Watson sapevano che non era il caso che si muovesse, almeno non in questi primi giorni.
“Dottor Watson, ha detto di avere delle cose da sbrigare a casa, vada pure e non si preoccupi.” – lo rassicurò lei – “Mi prenderò cura di Sherlock.”
“E di se stessa.” – aggiunse Watson aiutandola ad alzarsi dal divano - “Lasci che l’accompagni a letto.” – a quelle parole Molly sussultò. A quanto ricordava in casa sua esisteva un solo letto, ed era quello dove stava Sherlock. Avvampò ancor prima di rendersene conto. – “Non si preoccupi Sherlock è innocuo, e può rimanere nella stessa posizione per giorni. Non le darà alcun fastidio.” – s’affrettò ad aggiungere Watson, intercettando il lieve tremore che attraversò il corpo della donna.
“Come se il problema fosse quello.” Pensò Molly.
“Posso restare sul divano, in realtà io dormo sempre sul divano.” – cercò di dire la donna.
“Dottoressa Hooper. Anzi, Molly. Sono già abbastanza preoccupato, per Sherlock, la prego, mi faccia il favore, vada a riposarsi a letto.” – non c’era alcuna possibilità di replica e lasciò che il Dottor Watson la prendesse sotto braccio accompagnandola fino in stanza. Sherlock era completamente immerso in qualche ricerca al computer, e non sembrò nemmeno accorgersi del loro ingresso. Non batté ciglio, nemmeno quando lei si sdraiò nel letto, al suo fianco.
“Sherlock, io sto tornando a casa, torno domani, Molly ha bisogno di riposare, non essere…”- si interruppe un istante – “beh non essere come sei di solito!” – concluse chiudendo la porta e poi uscendo dall’abitazione. Era di nuovo sola con lui, anche se in realtà Sherlock sembrava essere in un altro mondo. Fissava da più di dieci minuti una pagina sulle metro di Londra, ma non sembrava che la stesse leggendo. Si sistemò un po’ meglio nel letto facendo attenzione a non sfiorare l’altro nemmeno per errore. 

 
   
 
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