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Autore: Obscenity    02/10/2013    0 recensioni
"Coltivava il seme della passione con dedizione studiando all'università, ma la pianta non germogliava denaro e ne soffriva la sete rendendo i rami fragili e le foglie secche."
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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“L'Arte è creazione; creazione è vita.
L' Arte è traduzione dell'anima; anima è vita.
L'Arte è emozione; emozione è vita.
L'Arte è colore, passione, amore e tutto ciò è vita.”
Con queste parole e tanto entusiasmo Mara descriveva la sua passione a chiunque ne fosse incuriosito. Non tutti sono in grado di apprezzare un vaso greco ricamato con disegni dorati adagiati su uno sfondo nero intenso, o le delicate sfumature d'azzurro, rosa e arancione di un tramonto immortalato su tela. Lei possedeva la sensibilità giusta per farlo. L'arte era tutto ciò che voleva sperimentare e vivere su questo mondo. Coltivava il seme della passione con dedizione studiando all'università, ma la pianta non germogliava denaro e ne soffriva la sete rendendo i rami fragili e le foglie secche.



Mara di notte ballava al palo, ma non era più lei.
Si faceva chiamare Diana, indossava una parrucca viola che le svolazzava sotto il mento e solleticava le guance, il rossetto intonato ad un doppio strato di trucco sopra le palpebre. I suoi occhi verdi coperti da un finto azzurro mare non le appartenevano più. 
Diana viveva di perizomi infilati tra le chiappe, ciglia finte, di luci accecanti e unghie lunghe. Ballava di notte muovendo il suo corpo ricoperto di brillantini dorati, sbattendo il sedere sul palo, raccoglieva mance con la bocca, mostrando il suo seno da giovane donna. Percepiva tutti gli occhi posati su di lei, ne sentiva il peso, come blocchi di cemento incatenati alle caviglie, al collo, alle spalline del reggiseno di pizzo rosso. E mentre si spalmava la panna attorno all'ombelico magro sussurrava: “smetterò, un giorno ce la farò, lo prometto”.
Diana viveva di tutto questo, goccioline di sudore sulla schiena, finti sorrisi e musica alta.
Viveva di un'arte che non condivideva.
Non era creazione, ma distruzione di tutto quello in cui aveva sempre creduto.
Non era traduzione della sua anima, ma un'errata interpretazione.
Non era emozione, ma vuoto totale.
Non era colore, passione o amore, perché non era vita.
La mattina tornava a casa poco prima dell'alba, si strascinava per vicoli stretti e stradine desolate, a testa bassa, con la parrucca storta sul capo, il mascara sciolto sul viso e il corpo abbandonato alla stanchezza.
Arrivava a casa infelice, pettinava i suoi lunghi capelli neri e poi si addormentava sognando l'arte che amava. Quando si svegliava pronunciava ancora le solite false parole: “solo stanotte, poi smetterò, promesso”. Ma tutte le notti ballava al palo, indossava perizomi e muoveva fianchi e sedere. Era una maledizione; più Mara amava ciò che faceva alla luce del giorno, più Diana di sera era costretta a fare ciò che odiava illuminata da lampade colorate. 
Diana conosceva la notte, il buio delle strade e l'odore di fumo nei pub; Mara la scultura, l'architettura antica e sapeva usare un pennello con al punta fine su una tavola di tela, ma quella notte soffrirono entrambe. 
Le strade erano spente, vuote e Mara era appena uscita dal locale dove lavorava. Immersa nei suoi pensieri, strusciava i piedi per terra, smuovendo i sassolini ai bordi dei marciapiedi. Ascoltava il rumore metallico delle pietrine che calciava sull'asfalto rovinato e poi aspettava l'eco dal fondo del vicolo. Il suo sguardo era rivolto verso il basso e non vedeva oltre quei sassolini che rotolavano a 
pochi metri da lei. Dominava il silenzio, ma nella testa le risuonavano i rumori forti del locale. Una sensazione di calma le regnava dentro. 
Svoltò l'angolo e una voce cupa si intromise nei suoi pensieri: “signorina!”. 
Alzò gli occhi dalla strada e intravide un uomo immerso nella penombra a pochi passi da lei.
“Signorina...”, ripeté pochi istanti dopo. L'uomo si avvicinò, ma Mara continuò a camminare, lo superò a passo svelto e in silenzio, come se, allontanandosi, sarebbe scomparso nel buio alle sue spalle.
“Io la conosco” insisteva lui. 
“No, lei non mi conosce”, rispose con voce tremolante.
“Ma certo, l'ho vista ballare molto bene”. Queste parole giunsero alle orecchie di Mara come se qualcuno le avesse sussurrate sul suo collo. Ancora una volta non disse nulla. 
“Non mi sbaglio, è lei, la ragazza che balla al palo”.
“Non è vero”, alzò la voce Mara, ma subito se ne pentì. Sentiva i passi pesanti  provenir da dietro, ma non riusciva a capire quanto fossero distanti dai suoi. 
“Lo so che è lei, vedo i capelli viola e riconosco anche come cammina”, le afferrò la mano tremolante e la tirò a se; “sono convinto che quel reggiseno di pizzo rosso appartenga a lei”.
Mara lo guardò fisso negli occhi, spaventata. Le mani grosse la tenevano stretta per le braccia, il viso era così vicino al suo che riuscì a percepirne la barba tagliente e l'alito caldo.
Mara si ritrovò di nuovo attaccata al palo quella notte, in perizoma, senza luci accecanti e musica alta.



Sono passati due anni e Mara non balla più al palo. 
È riuscita a mantenere una vecchia promessa fatta a se stessa ogni notte.
Ora esce di sera, appena dopo il tramonto, percorre ancora strade buie e vicoli desolati. Si fa chiamare Nina e vive di tacchi alti, vestiti corti e preservativi alla frutta. Affronta la notte e la mattina torna a casa stanca, bacia sua figlia sulla fronte, le sposta i capelli biondi dal viso e la osserva dormire. E mentre ascolta il suo respiro delicato promette ancora una volta di imparare a camminare con tacchi più alti, costringersi a sopportare meglio il freddo per poter indossare vestiti più corti e di guadagnare di più.

 

 

  
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