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Autore: dreamlikeview    03/10/2013    3 recensioni
Il Dottore, una ragazza, due cantanti, due studenti, un medico, un 'consulting detective', due agenti del Torchwood, un principe, un servitore mago, due maghi, un supereroe e una comune minaccia. Cosa spingerà questi personaggi ad incontrarsi? Come fermeranno la minaccia imminente? Riuscirà il Dottore a salvare la situazione?
[Crossover: Doctor Who, One Direction, Merlin, Torchwood, Glee, Sherlock, Harry Potter, Smallville]
[Larry, Merthur, Janto, Johnlock, Klaine]
Genere: Avventura, Comico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Doctor - 10, Jack Harkness, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Desclaimer: Nessuno dei personaggi citati mi appartiene, purtroppo. Non intendo offendere nessuno - come potrei, io li adoro tutti - e tutto ciò che ho scritto è stato fatto solo per il mio puro diletto, senza alcuno scopo di lucro, lo giuro, non guadagno nulla da questo. 
 
Credits: Alla mia Lu (che deve uscire dal mio cervello, a cui dedico tutti i pezzi Johnlock, perché mi ha contagiato lei con quella maledettissima serie tv) per il banner. Ma quanto è figo il Weeping Angel?
 
Avviso: Contiene fangirling.
Avviso2: Tutti i personaggi sono OOC, anche se ho cercato di rimanere quanto più IC ho potuto, spero di non aver cannato nulla. Ovviamente molte delle cose che dirò sono prese dalle varie serie, ma non tutto. Alcune cose, e teorie le ho inventate di sana pianta.

 
 
N.d.a è la prima storia che pubblico in questo fandom, spero che il tutto sia di gradimento di chi legge.
Ci 'vediamo' sotto per altri... diciamo, dettagli.
 
Allons-y!
P.s, giusto per restare in tema di DW, se cliccate sul Banner, vi porta ad un link di yt, con l'intro della serie tv. 



 
Era una giornata apparentemente normale.
Nessuno avrebbe mai immaginato cosa il destino avesse in mente per quindici persone, collegate in qualche modo dalla stessa cosa. Una cosa era certa, da quel giorno, niente sarebbe stato più lo stesso. Tutto sarebbe cambiato, mutato, lasciando spazio alla fantasia, all’assurdo, all’impossibile.
 
Londra, Inghilterra, ore 18.00
 
Il Dottore, così si faceva chiamare, era un uomo, o meglio un Time Lord, l’ultimo dei Signori del Tempo, caratterizzato da una chioma nera e dagli occhi scurissimi, era appena tornato dall’ennesimo viaggio con la sua ‘companion’, Donna Noble, la quale aveva chiesto lui di trascorrere qualche giorno con la sua famiglia. Dopo l’ultima avventura, quando avevano rischiato di essere uccisi dalle ‘ombre assassine’ - Vashta Nerada -  e di rimanere bloccati in una dimensione cerebrale, aveva bisogno di riposo. Il Dottore aveva acconsentito, dicendole che sarebbe andato a prenderla dopo qualche giorno. Si erano salutati con questa promessa in un parchetto, dove il TARDIS era atterrato, e il Dottore aveva preso la decisione di fermarsi per un po’ a Londra, prima di ripartire con il suo TARDIS.
Aveva lasciato da poco la cabina blu al parco, e passeggiava tranquillo per la città, quando si sentì chiamare da qualcuno. Chi poteva essere? Nessuno sapeva chi fosse, a meno che non l’avesse già incontrato, il suo pensiero andò prima a Rose, ma era impossibile fosse lei, era bloccata in quell’universo parallelo sigillato da lui stesso tempo prima. Magari era Martha, ma quella non era la sua voce, e non era nemmeno la voce di Donna.
Per la prima volta nella sua vita il Dottore non sapeva darsi una spiegazione.
C’era qualcuno che lo chiamava, ma lui non aveva idea di chi fosse.
Non fece in tempo a girarsi, perché ‘il qualcuno’ che l’aveva chiamato, gli stava tirando il braccio. Non era un tocco violento, era un tocco delicato, da ragazza. Chi l’aveva toccato non poteva avere più di diciotto anni, ne era sicuro, non rappresentava un pericolo, per questo si girò. I suoi occhi scuri intercettarono immediatamente una chioma biondastra, l’altezza della persona davanti a lui non era granché, gli arrivava più o meno sotto la spalla, e dovette abbassare la testa prima di incontrare un paio di occhioni azzurri che gli sorridevano felici.
“E tu chi sei?” – chiese immediatamente, guardando quella che sembrava essere una ragazza.
“Oh mio dio! Tu sei il Dottore!” – quello era decisamente un urlo – “sei tu! Oh mio dio, ti ho trovato!” – esclamò felice, quasi senza rendersi conto di chi avesse davanti. La sua espressione era del tipo ‘sogno o son desta?’
“Sono io… ma chi diavolo sei tu?” – chiese il Dottore, senza ancora capire cosa stesse accadendo in quel momento.
“Io? Sono una tua ammiratrice, so tutto di te!” – esultò alzando le braccia al cielo, guardando poi alle sue spalle – “dov’è Donna?” – chiese con i cosiddetti ‘occhi a cuoricino’, guardandosi intorno.
“Chi sei? Come fai a sapere di Donna?” – domandò ancora. Non si spiegava come fosse possibile un avvenimento simile.
“So tutto di te, te l’ho detto!” – esclamò ancora – “l’età si fa sentire, vero?”
“Cosa?” – non riusciva ancora a credere a ciò che stava accadendo – “cosa?!”
Non poteva davvero conoscere Donna, Rose e Martha, era impossibile.
“Sei un Time Lord, l’ultimo, hai novecentoquattro anni, vieni dal pianeta Gallifrey, nella costellazione di Kasterborous, viaggi con il TARDIS, Time And Relative Dimension In Space, hai salvato la Terra infinite volte, sei la decima rigenerazione di te stesso, e adori dire ‘allons-y’ prima di partire, solitamente.” – la ragazzina sorrise guardandolo, mentre il Dottore non si spiegava come un’umana così piccola potesse conoscere tutte quelle cose di lui. Era impossibile, a meno che non avesse viaggiato con lui.
“E cosa mi dici di Jack Harkness?” – alzò un sopracciglio guardandola interrogativo, cercando di metterla in difficoltà.
“Ha viaggiato con te, ti ha aiutato quanto il  Master voleva prendere il tuo posto, non può morire, e si dice che sia la leggendaria ‘Faccia di Boe’, inoltre dirige il Torchwood.” – rispose sicura, guardandolo con sfida, decisamente divertita.
“Non ci credo. Coordinate galattiche di Gallifrey.” – quella non poteva conoscerla. Era impossibile che la sapesse.
“Coordinate galattiche dieci-zero-undici-zero-zero per zero-due dal punto origine della galassia”
“Sontaran?” – insisté guardandola. Doveva esserci qualcosa di lui che non conosceva, tuttavia iniziava ad incuriosirsi.
“Non credi che somiglino a delle enormi patate?” – ridacchiò guardandolo – “volevano la terra per clonare se stessi negli umani, per creare altri di loro, e usarli per la guerra.” – spiegò annuendo a se stessa.
Era felice di sapere che fosse riuscita ad attirare la sua attenzione.
“Daleks?” – era una domanda stupida, ma volle provarci comunque. Non aveva nulla da perdere in fondo, anzi era divertente scoprire che ci fosse qualcuno che sapesse tutte quelle cose di lui.
“Tuoi nemici giurati. Non posso dirti ciò che faranno in futuro.” – rispose la ragazza sorridendo. Ormai era convinta che lui non potesse più dubitare di lei.
“Perché, lo sai?” – chiese incuriosito, ignaro di ciò che sarebbe davvero accaduto, i Daleks erano stati eliminati, rinchiusi nel nulla.
“Spoiler!”- esclamò divertita, guardando tutte le reazioni del Time Lord, che era un misto tra divertito e sconvolto, inoltre era esterrefatto. Non poteva credere alle sue orecchie, quella ragazza era qualcosa di simile ad un genio, conosceva troppe cose di lui, ed era preoccupante. Come poteva sapere anche le coordinate galattiche del suo pianeta, e sapere cosa avrebbero fatto i Daleks in futuro? Era poco più che una ragazzina, era bassina, e non era poi così grande, ed era… emozionata poteva percepirlo dal battito frenetiche che sentiva provenire dal suo cuore, e dal fremito delle mani, che energicamente si sfregavano tra di loro, era evidente che fosse nervosa.
“Quindi, tu saresti?” – chiese addolcito, vedendola in difficoltà, probabilmente per essersi esposta troppo.
“C-Charlotte Ellis” – sorrise imbarazzata, sembrava che lo sguardo del Dottore l’avesse intimidita, facendole perdere tutta la spavalderia mostrata poco prima fosse svanita nel nulla.
“E dimmi Charlotte Ellis, come fai a sapere tutte queste cose di me?”
“Ti ammiro tantissimo.” – sorrise ancora imbarazzata, con un’altra luce negli occhi, con la luce di chi davvero ammirava qualcuno, lo sguardo fiero e ammaliatore della ragazza lasciava il Dottore quasi affascinato – “ho fatto ricerche, ho investigato un po’, e… diciamo che ho scoperto tante cose su di te. Ah, so che hai salvato la terra, lo scorso natale, la nave spaziale che stava per schiantarsi al suolo…”
“Ma come…?” – chiese ancora. Non si spiegava come una cosa del genere fosse possibile. Esistevano degli umani così intelligenti da capire, dedurre e indagare su tutta la vita del Dottore? Era inquietante, ma allo stesso tempo fantastica. – “è grandioso!” – esclamò prima che lei riuscisse a rispondere – “e cosa mi dici della biblioteca?”
“Quella infestata dai Vashta Nerada?”
“Oh cielo, conosci anche loro?”
“Le ombre assassine, certo!” – esclamò, felice che il Dottore non sembrasse più terrorizzato dalla mole di cose da lei conosciute, ma che invece ne fosse quasi contento – “siete appena tornati, no? Hai lasciato il TARDIS qui da qualche parte…”  - fece guardandosi intorno.
“Beh sì, l’ho lasciato in un parco qualche metro più in là.” – confermò il Dottore, apparendo pensieroso, per poi distendersi in un sorriso dolce e rassicurante – “ti andrebbe di vederlo?”
“I-Il tu-tuo T-TARDIS?” – chiese stupefatta.
“Sì, dai. Immagino che vorrai vederlo, sapendo tutte queste cose su di me.”
“Beh, sarebbe…” – si morse le labbra sorridendo, felice come non mai – “Fantastico!”
Il Dottore si lasciò andare in una risata divertita, e coinvolse anche la ragazza. Era così strano incontrare qualcuno che non si meravigliasse di com’era, che anzi, sapeva tutte quelle cose, e non era spaventata da ciò che sarebbe accaduto, anzi sembrava quasi eccitata per ciò che stava per mostrarle.
Com’era solito fare con le sue companions, le afferrò la mano e: “Corri!” – rise.
Lui era l’uomo che continuava a correre. Charlotte non se lo fece ripetere due volte, e lo seguì nella direzione indicatale correndo. Era emozionata, stava per vedere il TARDIS, la famosa macchina del tempo del Dottore, quella capace di portare avanti, indietro nel tempo, su altri pianeti, in altre galassie. Vedere quella era un sogno per chiunque, e lei stava per realizzarlo. Magari almeno per un giorno avrebbe detto addio alla sua noiosa vita, per un giorno avrebbe dimenticato i suoi incubi, e avrebbe vissuto qualcosa di diverso, e… forse avrebbe avuto una storia da scrivere. Magari, poi avrebbe chiesto al Dottore di poterla scrivere, non capitava tutti i giorni di andare a spasso con una delle persone più stimate e addirittura essere invitata ad entrare nel famoso TARDIS.
“E’ vero che apri il TARDIS schioccando le dita?”
“Certo che è vero! Anche se l’ho scoperto da poco.”
“Lo so, è stata River Song a dirtelo, vero?”
“Come fai a saperlo? Mi hai messo dei microchip addosso?”
“Ma no!” – rise – “non sono nemmeno un agente segreto, o del Torchwood, suvvia, Dottore!” – lo spintonò per una spalla, mentre correvano, e rise. Non si sentiva così allegra da tanto, troppo tempo, e per un giorno finalmente era felice, lo era davvero. Anche il Dottore la seguì nella risata, e una volta arrivati davanti ad una grande cabina blu, la ragazza rimase immobile, in silenzio.
Trattenne il fiato per lunghissimi istanti, quasi in contemplazione di quella meraviglia che aveva davanti.
Si udì uno schiocco di dita, poi la porta del TARDIS si aprì, e il Dottore la precedette, facendole strada, non appena fu dentro si guardò intorno estasiata. All’interno era più grande dell’esterno, il marroncino delle pareti risultava quasi arancione,  il cuore della macchina era azzurro e pompava sempre. I comandi poi erano fantastici, c’erano pannelli ovunque, era un sogno che diventava  realtà.
“E’ più grande all’interno, davvero! Oh mio dio, non ci credo!” – camminò per tutto il perimetro della macchina, guardando ogni dettaglio estasiata ed esaltata – “oh cielo, è tutto… tutto perfetto. E’ meraviglioso.” – il sorriso sul suo viso era la cosa più sincera che il Dottore avesse mai visto, non poteva credere di aver reso felice qualcuno in quel modo, era pazzesco – “grazie, grazie!” – prese la rincorsa e saltò letteralmente al collo del Time Lord, che preso alla sprovvista quasi non cadde, ma riuscì comunque a sostenerla ed abbracciarla.
“Ehi, figurati. Se ti rende così felice, è un piacere.” – sorrise teneramente guardandola. Era decisamente troppo piccola per conoscerlo così tanto. Non appena si rese conto di ciò che aveva fatto, Charlotte scese dalle braccia del Dottore e si guardò in giro imbarazzata. Mise una mano tra i capelli e cercò con essi di nascondere l’imbarazzo crescente dentro di lei, e soprattutto il rossore sulle sue guance. L’euforia del momento aveva messo da parte la sua enorme timidezza, ma l’attimo dopo questa aveva fatto capolino, lasciandola in uno stato di imbarazzo cronico.
“Io, ehm… grazie, ma devo…” – balbettò troppo intimidita dalla situazione, cercando di coprirsi il viso con i capelli, indicò la porta e fece per andare incontro ad essa. Primo giorno di vacanze, primo giorno in cui incontrava praticamente il suo ‘idolo’ e aveva appena fatto una figuraccia con lui. La mia solita sfiga, porca puttana.
Era quasi arrivata alla porta del TARDIS, ormai era arrossita all’inverosimile e i capelli non bastavano per contenere il rossore delle sue gote. Il Dottore era divertito e intenerito nello stesso tempo, non gli era mai capitato di incontrare qualcuno di tanto timido, ma anche tanto preparato, o spavaldo in alcuni momenti. Quella Charlotte era imprevedibile, un po’ come lui. Non poteva lasciarsi scappare quell’occasione, e magari quel periodo senza Donna sarebbe stato interessante. In fondo, cosa aveva da perdere?
Avrebbe continuato a viaggiare, cosa che faceva, e le cose nuove non lo spaventavano, anzi, lo incuriosivano ancor di più, per questo la raggiunse, e la fermò per un braccio. Lei rimase ferma, di spalle, tentando ancora di coprirsi il viso e di scappare, letteralmente, da quella situazione troppo imbarazzante per lei, doveva andare via, doveva sparire, magari il TARDIS aveva una levetta che permetteva alla terra di inghiottirla, o di perderla per lo spazio, l’importante era fuggire da quell’imbarazzo.
Che avrebbe pensato il Dottore di lei? Sicuramente che era un’impertinente, che si era lasciata andare, che non doveva farlo, perché insomma, poteva toccare lei, comune mortale, un Time Lord?
Si morse le labbra, attendendo le parole cattive che di sicuro il Dottore le avrebbe rivolto, in fondo, era abituata a sentirsele dire, non c’era niente di differente da una sua giornata tipo: faceva una brutta figura, veniva insultata con i peggiori appellativi, e poi lasciata sola nella vergogna e nell’umiliazione. Avrebbe fatto più male da parte del Dottore, ma non poteva avere tutto dalla vita, aveva già visto il TARDIS, era qualcosa di eccezionale.
“I-Io…” – sussurrò, pronta a giustificare il suo pessimo atteggiamento, pronta a tutto pur di non sentire quelle parole d’umiliazione da parte sua, del Dottore.
Strinse gli occhi, era troppo tardi per rimediare aveva fatto l’errore, ora ne pagava le conseguenze amaramente. Doveva solo essere forte come sempre e tutto sarebbe andato bene, ma…
“Ti va un viaggio con me?”
 
221B Baker Street, Londra, Inghilterra, ore 20.30
 
Il “Consulting detective”, Sherlock Holmes, uomo alto, dai capelli scuri, leggermente mossi, gli occhi chiarissimi, e il viso sempre serio, camminava incessantemente per la stanza. Era annoiato, non c’erano casi che gli interessavano minimamente, e quell’incompetente di Jim Moriarty, era come svanito nel nulla. Si sentiva solo, annoiato e non voleva far altro che risolvere qualche caso, Lestrade non l’aveva chiamato per nessun consulto e lui era nella noia più totale. Persino John non c’era. Era uscito con una ragazza del tutto insignificante, perché poi doveva sempre uscire con qualcuna? Non poteva rimanere a casa ed aiutarlo a combattere la noia?
Nemmeno Mrs Hudson era d’aiuto, se ne stava sempre a preparare del tè e a fare pulizie. Che senso avevano le pulizie? Nessuno, non servivano a sviluppare l’intelletto di qualcuno.
Sbuffò per l’ennesima volta, e lanciò un coltellino nel muro di fronte a sé, in qualche modo doveva raggirare la noia, e quello era un metodo ottimo. Si crogiolò nella noia, fino a che uno squillo di telefono non lo fece sollevare, e correre a rispondere. Poteva essere Lestrade, o Moriarty che finalmente lo contattava, o John che aveva trovato qualcosa di più intelligente da fare che uscire con qualche sempliciotta conosciuta in giro per Londra.
Ma la delusione colse i suoi occhi, quando riconobbe la voce dall’altro capo del telefono: suo fratello, Mycroft.
“Cosa vuoi, Mycroft?” – chiese sprezzante al fratello.
“Sempre così gentile, vero fratellino?” – lo ribeccò il maggiore, con una punta di acidità nella voce.
“Vieni al sodo, ciò che mi proponi è sempre noioso, e voglio dirti di no.”
“Sparizioni misteriose per tutta Londra. Non sono stati trovati né corpi, né armi del delitto, è abbastanza interessante per te?” – chiese, facendo la sua proposta al fratello. Il detective non lo vide incrociare le dita sotto la sua scrivania.
Sherlock parve pensieroso. Certo, era intrigante, ed era una cosa che solo un cervello sviluppato come il suo poteva risolvere. Non era niente male, ma era un favore da fare a Mycroft, e lui non voleva fare favori al fratello.
Però forse… per quella volta… non si doveva risalire solo all’assassino, ma anche all’arma del delitto, e al ritrovamento dei corpi. Contorto, certo, ma affascinante. – “Sherlock, allora?” – era necessario che lui indagasse, era l’unico in grado di risolvere quel mistero.
“Sta’ zitto, sto pensando.” – sputò acidamente, zittendo il fratello, dall’altro lato del telefono sbuffò, e Sherlock continuò a riflettere. Una cosa del genere era un’impresa epica, magari anche se si trattava di suo fratello poteva farcela, era Sherlock Holmes, lui risolveva i casi in un battito di ciglia. Non poteva di certo tirarsi indietro, oh no. Non era da lui un comportamento così riprovevole, ma non era da lui nemmeno accettare un lavoro da parte di Mycroft, ma la noia era tanta, e John… dove diavolo è John?!
“D’accordo, accetto. Dimmi il luogo delle sparizioni.”
“Accanto all’Hyde Park, nei Kensington Gardens” – rispose prontamente Mycroft contento che suo fratello avesse accettato quel caso.
“Okay.” – fu l’ultima risposta dell’investigatore, prima di chiudere la telefonata, e inviare immediatamente al suo blogger, John Watson, un messaggio dicendogli di vedersi il più presto possibile – dopo pochi minuti – al parco per un nuovo caso. Finalmente, la noia era passata, lasciando spazio al brivido dell’indagine, e alla sua intelligenza, ovviamente. Afferrò il suo cappotto nero, indossò la sciarpa e chiamò un taxi uscendo di casa. Dopo mezz’ora, il Consulting detective arrivò al luogo indicatogli, intercettò i capelli biondi, un po’ più scuri del normale, di John, e senza preavvisi gli si avvicinò cogliendolo di sorpresa, un po’ doveva fargliela pagare per averlo lasciato solo nella noia, no?
“Sherlock!” – fece il dottore portandosi una mano al petto, dopo che il più alto ebbe fatto prendere lui un ‘colpo al cuore’. –“non sei divertente, allora, cosa c’è di nuovo?”
“Persone scomparse misteriosamente qui. Nessun corpo, nessun’arma, nessun assassino. Non senti il brivido dell’indagine?”
“Personalmente, sento solo i brividi per come sei arrivato tu, stai bene?” – rispose prontamente l’ex soldato, guardandolo torvo. L’aveva fatto arrivare fino a lì, e non c’era nemmeno un corpo da analizzare? Sherlock alzò gli occhi al cielo, quasi stizzito. Perché doveva aver a che fare con un uomo il cui intelletto era così basso rispetto al suo?
“Dev’essere rilassante e noioso trovarsi nel tuo cervello.” – scosse la testa – “allora, vedi qui ci sono delle impronte, probabilmente delle vittime, visto che non ce ne sono altre vicine, mi segui?” – aveva già trovato un indizio, com’era possibile? John non riusciva mai a spiegarselo, era semplicemente Sherlock.
“Sì, allora?” – lo assecondò il medico, cercando di capire anche lui quella situazione scomoda per tutti.
“Quindi una delle vittime non si è spostata da qui” – indicò le impronte quasi impercettibili, coperte da terra e fango – “ma non ci sono nemmeno le impronte dell’assassino, né di un corpo spostato.” – si portò una mano al mento, pensieroso. C’era sicuramente qualche dettaglio che gli sfuggiva, ma cosa?
Si trovavano nei Kensington Gardens, vicino Hyde Park. Cosa poteva esserci? A parte la stupidissima – per Sherlock – statua di Peter Pan non c’era nulla, assolutamente nulla, a parte quella nuova statua a forma di angelo.
Cos’avevano cambiato in quella parte del parco?
Perché ora c’era quella statua? Non che fosse un problema, ovvio, era solo una statua, non poteva far del male a nessuno. Un fruscio alle loro spalle, ma nessuno dei due lo udì.
“Magari sono solo scappati di casa, saranno stati ragazzini.” – tentò John, vedendo l’amico in difficoltà, ogni tanto cercava di rendersi utile nelle indagini, non era così sciocco come sosteneva Sherlock.
“No, non sono scappati, non si sono mossi di qui.” – lo contraddisse il detective, scuotendo la testa - “e poi, sono impronte grandi, sarà circa un quarantacinque, altezza media, uomo grassoccio, non oltre i trent’anni. Non è un ragazzino.” – spiegò all’altro, che sembrava sempre più confuso. Non si abituava mai al suo modo di fare.
“Ma come…?” – provò a chiedere John, ovviamente ignorato dall’altro.
“Shh, l’ho dedotto, ovviamente.” – individuò altre impronte – “bambina, venticinque di piede, scarpetta da ballerina. Non avrà avuto più di tre/quattro anni.” – non sentì la voce di John e si voltò a vedere dove fosse l’amico. Era svanito nel nulla. John Watson era sparito nel nulla dal punto in cui si trovava.
“John, non sono scherzi da fare questi, io sto lavorando!” – esclamò adirato, per poi analizzare il punto in cui fosse il medico. Solo impronte, sue impronte. Qualcosa non quadrava, c’era qualcosa che non quadrava, forse doveva guardare John per rendersi conto di ciò che fosse accaduto, ma non riusciva a dargli una spiegazione. C’era qualcosa, qualcosa che aveva fatto sparire John, sbatté gli occhi per un attimo, e poi non si rese più conto di dove fosse.
 
Cardiff, sede Torchwood, Galles, ore 21.00
 
I membri del Torchwood erano come al solito impegnati nelle loro mansioni. C’era il Capitano Jack Harkness, che vigilava la città, alla ricerca di qualche creatura vivente, fuggita dalla fessura, Ianto Jones, invece, era l’addetto al caffè, come al solito, anche se aiutava spesso gli altri due nella caccia agli alieni e infine Gwen Cooper, che sorvegliava uno dei computer, in caso ci fosse qualche movimento sospetto dalla fessura. Dopo la recente perdita di due membri della squadra, Owen Harper e Toshiko Sato, i tre si erano dati da fare per compensare la perdita, non avendo intenzione di rimpiazzarli. Erano troppo affezionati a quelle persone, per dire loro addio anche in quel modo.
Il Capitano tornò dopo un paio di ore di ronda, e dopo essere resuscitato una volta, a causa di una sparatoria avvenuta nel centro di Cardiff poco più in là, da lui stesso fermata.
Salutò con un delicato bacio a stampo il suo fidanzato, Ianto, e poi si mise al lavoro accanto alla ex-poliziotta, Gwen, alla ricerca di qualche evento paranormale. Era tutto tranquillo, troppo.
“Non credete anche voi che la fessura sia tranquilla?” – chiese Ianto, guardando il monitor, da cui non provenivano segnali di alcun genere.
“Già, Ianto ha ragione, c’è qualcosa che non va.” – confermò la donna, guardando i due compagni preoccupata, se stava accadendo qualcosa, era qualcosa di molto negativo, perché eventi del genere erano rari, e presagivano qualche catastrofe, quindi, perché la fessura era stranamente calma? Perché da lì non proveniva energia?
“Ah, non siate sciocchi, gli alieni si saranno presi un giorno di riposo!” – esclamò ironico Jack, guadagnandosi le occhiatacce torve da parte di Ianto e di Gwen, che odiavano quando faceva i suoi soliti commenti sarcastici, superficiali e stupidi.
“Jack, non essere stupido.” – lo ribeccò il ragazzo dai capelli scuri, guardandolo ancora torvo, se c’era una cosa che detestava in Jack, anche se lo amava dannatamente tanto, era quella superficialità, quel sentirsi superiore a tutti, che gli faceva saltare tutte le sinapsi del cervello, rendendolo davvero intrattabile.
“Vai a farmi un caffè, Ianto Jones.” – ordinò acidamente il capitano, senza degnare l’altro di uno sguardo, di lui, Ianto odiava quella piccola ostilità che fin dal primo momento li aveva uniti, eppure anche se lo celava, lo adorava. Era così timido ed impacciato, soprattutto quando portava i caffè, il suo modo di tenere i vassoi in mano, avrebbe fatto invidia anche al più adorabile dei ragazzini.
“Smettetela voi due.” – li sgridò la mora, mentre Ianto dovette muoversi ad andare a prendere il caffè per Jack, perché sebbene odiasse quando impartiva ordini, non poteva fare a meno di dirgli di sì.
Odio/amore, il sentimento che li accompagnava.
Frecciatine, ma anche momenti dolci, degni da carie per i denti.
Quando il moro tornò con il caffè, il castano, Jack, gli prese una mano avvicinandolo.
“Scusa, a volte il ‘potere’ mi dà alla testa” – borbottò, facendogli appoggiare la tazza su una scrivania e tirandolo sulle sue gambe, avvolgendogli i fianchi con le braccia, mentre l’altro portava le braccia dietro al suo collo.
“Sei uno stupido, lo so.” – sussurrò, sorridendo leggermente. La tensione era passata, magari Jack aveva ragione, magari per un giorno erano liberi dagli alieni e simili.
“Sì… solo a volte.” – sussurrò Jack a sua volta, strofinando il naso contro quello del moro, facendolo sorridere felice.
“Nah, diciamo sempre.” – ribeccò in un sussurro l’altro.
“Ehm, io vi lascio da soli, okay?” – urlò Gwen, senza ottenere risposta – “non distruggete l’ufficio, ciao!” – uscì da lì, ma i due non se ne accorsero minimamente, persi com’erano l’uno nello sguardo dell’altro.
“Sembriamo dei ragazzini, Jack” – Ianto si riprese da quel momento, e fece per alzarsi dalle gambe dell’altro, che però lo trattenne. Non voleva lasciarlo andare, non poteva. Era consapevole che prima o poi avrebbe dovuto lasciarlo andare, non poteva essere così egoista da trattenerlo a sé per tutto quel tempo, lui era immortale, non poteva morire, e avrebbe vissuto così tutta la vita, Ianto era mortale poteva morire da un momento all’altro, e meritava di vivere una storia normale, con qualcuno di normale, e non uno stronzo come lui, Jack ne era consapevole, ma era anche fottutamente egoista, e non voleva che Ianto andasse via da lui.
“Godiamocela, okay?” – fece accarezzandogli una guancia – “fino a che possiamo.” – suggerì dolcemente.
“Hai sempre ragione tu, Capitano Jack Harkness.” – gli diede ragione il moro, guardandolo con dolcezza e ammirazione.
“Lo so, Jones, Ianto Jones.” – disse seriamente il capitano, guardandolo con il sorriso stampato sulle labbra.
Il moro scoppiò a ridere, vedendo l’altro cimentarsi in una pessima imitazione della sua voce, della sera in cui si erano conosciuti. Oh, di certo non si aspettavano nulla di ciò che stava per accadergli, erano così persi l’uno negli occhi dell’altro, che non si erano accorti che Gwen fosse tornata velocemente. Riuscirono a scambiarsi un bacio leggero, prima di essere riportati alla realtà.
Gli alieni non avevano preso un giorno di riposo, come Jack aveva sperato.
“Ci sono state delle sparizioni misteriose in Inghilterra, oggi.” – disse la donna, guardando i due che finalmente si erano degnati di staccarsi, alzarsi e ricomporsi. – “e alcuni erano anche alieni.”
“Come alieni che scompaiono? Chi ci ruba il lavoro?” – chiese Jack, stupefatto dalla notizia.
“Non si sa, sono sparite tante persone, e non si è capito come sia possibile, una persona non poteva svanire nel nulla, no? Era impossibile, insomma. Da quando una persona svaniva così?
“Chiamo Rhys, gli dico di non uscire di casa.” – fece la donna, mentre i due compagni cercavano di individuare la fonte. Non trovarono nulla, la fessura era ferma, nessuno capiva cosa succedesse, nessuno si spiegava quel fenomeno, nemmeno gli agenti del Torchwood. Era grave, gravissimo. Non erano mai accaduti eventi del genere, e…
“Sembra che anche gli alieni siano spaventati dal fenomeno, che facciamo?” – chiese Ianto, preoccupato.
“Quello che farebbe il Dottore” – disse Jack, fiero di se stesso, e fiero della persona che aveva aiutato in quei giorni lontani – “capiamo il problema, e risolviamo.” – propose – “oppure chiediamo direttamente il suo aiuto.”
 
Motorpoint Arena Cardiff, Galles, ore 22.00
 
La famosa boy-band angloirlandese, One Direction, era pronta per salire sul palco, quella sera, solo due membri sembravano piuttosto restii all’evento. Non che odiassero cantare, ma erano stanchi e volevano solo del tempo per loro stessi. Il tour andava avanti ormai da troppo tempo, e loro erano provati sia internamente che esternamente.
Internamente, a causa del doversi nascondere, del non poter rivelare chi fossero davvero, ed esternamente perché non dormivano da circa quarantotto ore, tra fan, giornalisti, paparazzi, interviste, prove, viaggi e simili.
Avevano bisogno di una pausa, non sapevano cosa ne pensassero gli altri membri, ma loro non ne potevano più, avevano bisogno di una pausa. Chi erano?
Harry Styles e Louis Tomlinson, il riccio e il castano, occhi verdi e occhi azzurri, altezza e bassezza, muscolature,e gracilità, sicurezza e insicurezza, sorriso acceso e sorriso spento, coloro che per tre anni avevano mostrato al mondo il loro amore, in modo indiretto, parlando con le canzoni, con gli sguardi, con i piccoli gesti, nascondendosi agli occhi dei meno aperti mentalmente, mostrando solo un lato di loro, forse quello peggiore, che non li rappresentava davvero, tatuandosi l’impossibile su braccia e petto, fingendo di amare chi non amavano, soffrendo.
Erano arrivati al punto limite della sopportazione.
Non ne potevano più, volevano solo un po’ di tempo per loro stessi, per guardare un film insieme, accoccolati nel grande lettone di casa loro, sotto un piumone magari, stretti l’uno nelle braccia dell’altro.
Bastò un solo sguardo perché si capissero.
Non avrebbero partecipato a quel concerto, ne andava della loro salute mentale. Forse era un torto verso le fan, ma loro… potevano aver contratto la febbre, e non essere pronti, no?
“Sei sicuro, Haz? Io… oddio, i ragazzi ci odieranno…” – chiese il più grande, ma più insicuro.
“No, Lou, non possono odiarci. Sono nostri amici, dai… solo una sera, non facciamo nulla di male.”
“Sì, ma…” – tentò di obiettare.
“Vuoi passare del tempo con me, sì o no?” – chiese sbottando Harry, pentendosi subito dopo, vedendo gli occhi del fidanzato velarsi di lacrime, e si affrettò ad abbracciarlo – “ne abbiamo bisogno, Lou, io sono stanco, non ce la faccio, e non voglio fingere di non amarti, soprattutto quando c’è la tua amata nel pubblico.”
“N-Non è colpa mia…” - sussurrò – “l’ho fatto per proteggere te…”
“Ma ora devo proteggerti io!” – esclamò il riccio, prendendogli il viso tra le mani – “ehi, stai cadendo a pezzi, e io non posso vederti ridotto in questo stato, capisci? Mi fa male, non voglio che tu stia male, amore mio.”
Louis si lasciò andare in un sorriso dolce, guardando negli occhi il fidanzato, perdendosi in essi. Ne valeva la pena perdere una sera, Liam, Zayn e Niall avrebbero cantato al posto loro.
Harry scrisse un bigliettino velocemente, gli altri tre erano intenti a parlare con il manager, e di soppiatto andarono alla porta sul retro del backstage, e furono investiti da urla disumane. Ecco, ora era più complicato scappare, inoltre la sicurezza era lì vicino.
“Amore, dobbiamo correre, sei pronto?” – chiese Harry in un soffio ad un preoccupatissimo Louis, che non sapeva cosa fare, non sapeva perché ascoltasse le idee strambe del riccio, ma lo amava e lo avrebbe seguito anche in capo al mondo. Per questo, annuì dando il suo consenso. Ne valeva davvero la pena. Il riccio intrecciò le loro dita, e urlò sovrastando le urla delle fan - “Adesso, corri!” – e Louis non se lo lasciò ripetere due volte, con la mano stretta quella di Harry, corse insieme a lui, raggiungendo in breve la sua auto. Lo fece entrare velocemente, cercando di non farsi vedere da nessuno, entrò anche lui e poi veloce, sgommò via da quel luogo che per loro era un inferno.
“Non ci posso credere, siamo scappati davvero!” – esultò Louis allacciandosi la cintura di sicurezza, guardando fiero il suo ragazzo. Era una sensazione meravigliosa, e… non poteva chiedere di meglio, non avrebbe mai potuto chiedere di meglio.
“Sì, siamo scappati, ci aspetterà una bella sgridata domani, ma…” – ingranò la marcia, e aumentò la velocità, cercando di allontanarsi più velocemente possibile dall’arena.
“… ma ne è valsa la pena.” – completò Louis, e mentre Harry si specchiava nei suoi occhi, entrambi capirono che non dovevano necessariamente essere visti da altri o dichiararsi per essere felici, a loro bastava semplicemente la presenza dell’altro accanto, tanto bastava per stare bene davvero.
“Ma cosa hai scritto sul biglietto?”
“Oh che tu avevi la febbre a trentanove, e io da bravo fidanzato ti ho riaccompagnato a casa, semplice, ma efficace.”
Louis si sporse verso di lui, lasciandogli un bacio delicato a fior di labbra.
“E allora io ti sposerò, Harry” – gli sussurrò sulle labbra, felice come mai – “perché fa rima” – finì ridendo, facendo ridere anche il suo fidanzato. Finalmente avevano un momento per loro stessi, finalmente potevano chiudersi in casa, e non uscire per almeno un paio di giorni, potevano riposare, e dormire profondamente, abbracciarsi, baciarsi quando volevano, e soprattutto non nascondersi da nessuno, in fondo, in casa loro erano liberi.
“Sto aspettando quel giorno con impazienza, Louis Tomlinson.” – il riccio ridacchiò rispondendo lievemente al bacio del fidanzato, senza staccare gli occhi dalla strada. Doveva essere prudente, non poteva metterlo in pericolo. Doveva proteggerlo, l’aveva promesso a se stesso quando l’aveva visto crollare davanti a lui, un anno prima, in lacrime a causa della sua ‘relazione’ con Taylor Swift. Da quel giorno, Harry si era ripromesso che l’avrebbe protetto da tutto e da tutti, a costo di tutto, anche della sua carriera. La sua priorità era Louis. Lo era da quando si era innamorato di lui, di quando l’aveva baciato la prima volta, e l’aveva stretto a sé così forte da far mancare ad entrambi il fiato, dannazione, quanto gli mancava quella sensazione paradisiaca.
Il fluttuare del suoi pensieri fu fermato dall’auto, che improvvisamente si fermò.
Benzina esaurita. Batté un pugno sul manubrio, e imprecò spalancando la porta. Non c’erano nemmeno benzinai nei dintorni. Che fortuna! – aprì la portiera di Louis e gli porse la mano. Il sorriso stampato sul viso.
“Corri con me?”
Louis scoppiò a ridere, accettando la sua mano. 
 
Hogwarts, Mondo Magico, ore 22.30.
 
Era una sera come le altre nella Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.
Gli studenti erano ancora nella Sala Grande, perché il preside Silente aveva deciso di prolungare la cena, per permettere a tutti gli studenti di socializzare tra loro. Tutti tranne due.
All’appello, nessuno, a parte Silente stesso, si era reso conto dell’assenza di due persone, rispettivamente dalla tavola dei Serpeverde e dalla tavola dei Grifondoro. Draco Malfoy ed Harry Potter, infatti, erano andati via a metà cena, dopo essersi lanciati uno sguardo di sfida. Beh, il preside sapeva cosa stesse accadendo. Si erano radunati nel corridoio del terzo piano, circa a metà quasi vicino alla statua della Strega Orba, accanto alla quale c’erano diverse statue di angeli che si coprivano gli occhi. Nessuno aveva mai capito cosa ci facessero lì quelle, forse erano solo per bellezza.
I due ragazzi si fronteggiavano, le bacchette in mano, gli occhi infuocati.
“Sei sempre così buono, Potter. Non mi sorprendo che quello stupido di Silente ti abbia nelle sue grazie.” – sputò acidamente il biondino dagli occhi chiarissimi, guardando male il suo sfidante.
“E io non mi sorprendo del fatto che Voldemort ti voglia nelle sue schiere, Malfoy.” – rispose prontamente il ragazzo occhialuto, guardando in cagnesco il biondo di fronte a lui.
Nemici giurati fin dall’inizio della scuola, dopo che il ragazzo dai capelli scuri ebbe rifiutato la proposta d’amicizia del biondo. Fin da quel giorno, avevano deciso il loro schieramento, e quella sera si erano sfidati, per mettersi alla prova, per capire chi fosse il più forte: lo spietato Serpeverde, o il coraggioso Grifondoro?
La loro non era solo una prova di abilità magiche, era molto di più. Era una prova di conoscenza, abilità, intelligenza, un testa a testa a cui doveva essere data una fine, che non poteva continuare in eterno, soprattutto quell’anno, durante il quale molte cose sarebbero cambiate, durante quell’anno così disastroso, durante il quale già si preannunciava la grande guerra magica, a causa del Signore Oscuro, il mago più potente di tutti i tempi, dopo Silente, il mago temuto da tutti. Era una lotta tra bene contro male, due forze che finalmente si equiparavano, e si mettevano alla prova, testando il più forte tra due ragazzini che frequentavano ancora la scuola magica.
“Come osi pronunciare il nome del Signore Oscuro?”
“Oh… hai paura del suo nome?” – rise schernendolo.
“Quando ti avrò messo al tappeto non riderai più così tanto.”
Malfoy si guardò intorno. Qualcosa non andava quella notte, aveva un brutto presentimento, certo sfidarsi al corridoio del terzo piano era stata un’idea geniale, quell’anno non era stato utilizzato da nessuno, a causa di una sorta di superstizione sviluppatasi negli ultimi anni. Si diceva che chiunque passasse per quel corridoio svanisse misteriosamente, e probabilmente era facile capire dove andasse. Nella gobba della Strega Orba c’era il passaggio per Mielandia, e quindi Hogsmeade. Tutti gli studenti volevano usufruire di quello, ma quell’anno l’accesso ad esso era vietato. I professori volevano capire cosa scatenasse le sparizioni. In tre anni, erano spariti quindici ragazzi, che si erano aggirati in quei corridoi, dopo che i fratelli Weasley ebbero detto a molti studenti che quello era il passaggio per il paese che ogni studente di Hogwarts voleva visitare.
“Credi che io abbia paura?” – rise sprezzante, guardando l’avversario – “io non lo temo, io lo servo e lo venero. Ha scelto me, sai?” – si scoprì il braccio mostrando ad Harry il Marchio Nero dei Mangiamorte, quello che lo legava a Voldemort, e faceva di lui suo schiavo. Draco non aveva ancora capito che quello sarebbe stato solo l’inizio della sua rovina e non della sua gloria, era stupido e troppo giovane. O forse aveva paura, ma di certo davanti ad un Grifondoro non l’avrebbe mai ammesso, non era poi così stupido, non quanto Potter almeno.
“Quanto sei idiota.” – scosse la testa, puntandogli la bacchetta contro – “davvero credi che Voldemort ti premierà per questo?”
“Cosa vuoi saperne tu? Lo conosci?” – strillò Malfoy, agitando la bacchetta, senza però lasciare alcun incantesimo, a causa di un tremito alla mano, che lo bloccò immediatamente. Spalancò gli occhi, senza capire da cosa dipendesse. Stava tremando, davanti a quello stupido Sfregiato?
“Colpiscimi, avanti!” – urlò Potter. Se c’era una cosa in cui era bravo, era provocare gli avversari, chiunque aveva di fronte finiva per odiarlo e fargli molto male. E Malfoy non si lasciò scappare quell’occasione.
“STUPEFICIUM!” – urlò puntandogli la bacchetta contro. Potter non riuscì a proteggersi in tempo, che venne scaraventato all’indietro da un colpo potete, facendolo andare a sbattere contro il muro opposto. La botta fu dura, e dovette chiudere gli occhi per qualche istante, sembrò sul punto di svenire, ma si rialzò quasi subito.
“EXPELLIARMUS!” – urlò a sua volta Potter, cercando di disarmare Malfoy, senza risultati, il Serpeverde aveva alzato davanti a sé una barriera protettiva, e nessun incantesimo poteva toccarlo. Non riuscì, tuttavia, ad usare alcuna Maledizione Senza Perdono su di lui, forse non era ancora un Mangiamorte a tutti gli effetti, o era solo un ragazzino stupido. Voldemort avrebbe optato per la seconda scelta.
“Sei già al tappeto, Sfregiato?” – lo schermì ridendo – “EXPELLIARMUS!” – lo disarmò, afferrando la sua bacchetta. E allora rise. Rise perché aveva avuto la meglio, per una volta su di lui. Non aveva dimenticato l’umiliazione di qualche mese prima nei bagni, di come lo avesse messo al tappeto, e l’avesse praticamente in pugno.
Per un attimo, tutti e due chiusero gli occhi, Potter per aspettarsi di tutto, Malfoy per prendere un respiro ed essere lui l’artefice della prima disfatta di Potter, ma qualcosa non andò secondo i piani.
Quando riaprirono gli occhi, non erano più ad Hogwarts, si erano smaterializzati, ma dove?
Non conoscevano quella foresta, non erano mai stati lì. Era tutto strano, forse era la Foresta Proibita?
“Dove diavolo siamo? Che hai fatto, Malfoy?” – sbottò Harry, guardandolo in cagnesco, ora avrebbe anche avuto un richiamo dal preside, e lui non voleva deluderlo, non dopo che l’anno prima l’aveva abbandonato in quel modo.
“E lo chiedi a me, Potter? Cosa hai fatto tu!”
“Io niente, tu hai la mia bacchetta!” – urlò, e nel dirlo gli strappò la bacchetta dalle mani, guardandosi intorno. Erano vicino un lago, ma non era il Lago Nero, non erano ad Hogwarts, e da Hogwarts non ci si poteva smaterializzare.
“Per Merlin, dove siamo!?” – strillò Potter, mentre Malfoy a metà tra il terrorizzato e il divertito, rideva.
“Qualcuno mi ha chiamato?” – chiese una voce dietro le frasche, mentre si udì chiaramente qualcuno urlare a gran voce: “MERLIN!”
 
Smallville, Kansas, ore 23.00
 
Nella fattoria dei Kent, c’era fermento.
Clark e sua madre, avevano organizzato una grande festa, in onore del compleanno di Cloe Sullivan, la migliore amica del ragazzo. La fattoria era in fermento, c’era quasi tutta la città.
Per un giorno, persino i fantomatici mostri da meteorite avevano smesso di disturbare la quiete, che regnava sovrana, insieme all’allegria e alla spensieratezza.
Clark Kent, campagnolo, alto e muscoloso, capelli castani, occhi verdi, famoso per indossare sempre una casacca rossa, abbinata ad una t-shirt rossa, giocava a basket nel giardino di casa, ed era il capitano della squadra di football della sua scuola. Una vita normale, insomma, di facciata ovviamente. Clark nascondeva, forse, uno dei segreti più grandi che una persona potesse mai avere. Aveva degli strani poteri, che stava ancora apprendendo. Era forte, fortissimo, poteva sollevare tonnellate su tonnellate senza stancarsi o sudare, era veloce come un fulmine, poteva percorrere miglia e miglia in meno di un minuto, senza affaticarsi, aveva un superudito, che gli permetteva di ascoltare conversazioni a distanza di diversi chilometri, possedeva la vista a raggi-x, poteva quindi guardare attraverso gli oggetti, e il suo sguardo di fuoco infiammava tutto ciò che lo circondava, se non riusciva a controllarlo. Aveva un solo punto debole.
Non poteva entrare in contatto con una sostanza meteoritica verde, chiamata kryptonite, un solo frammento di quella e tutti i suoi poteri svanivano nel nulla, rendendolo umano, infatti un uomo simile sulla terra non era mai esistito. Clark proveniva dal pianeta Krypton, pianeta andato distrutto anni prima, quando Clark era stato inviato sulla terra, il suo arrivo aveva provocato la pioggia di meteoriti che aveva seminato morte, paura e variazioni genetiche in molte persone. La sostanza verde contenuta nei meteoriti, infatti, aveva la capacità di cambiare il patrimonio genetico di una persona, conferendole straordinari poteri, o provocandone la pazzia, fino – a volte – alla morte.
Ma quella sera, sembrava che il problema non sussistesse.
Clark, comunque, aveva tanti amici, certo, ma si sentiva ugualmente solo, era una sensazione strana da descrivere, perché sebbene ne avesse tanti, con nessuno poteva rivelarsi per ciò che era, eccetto il suo migliore amico Pete, a cui aveva dovuto raccontare la verità, perché era un peso troppo grande da portare da solo, era come un fardello, e lui da solo non riusciva più a sopportarlo, doveva mentire anche alla ragazza che amava, Lana, ogni volta che spariva per aiutare qualcuno, doveva trovare mille scuse, mentire… ma non quella sera, tutto stava andando per il verso giusto, niente avrebbe rovinato i piani di quei giovani quella notte, che si divertivano nel granaio dei Kent, e festeggiavano senza esagerare troppo, il compleanno di una cara amica.
Fino a che nell’aria non mutò qualcosa.
Clark se ne accorse subito, qualcosa, da qualche parte, andava per il verso sbagliato, poteva sentirlo, poteva sentire che da qualche parte nel mondo, qualcuno avesse bisogno di aiuto, era come un sesto senso che lui aveva, captava i pericoli a distanza, e da qualche parte, qualcuno era in pericolo.
“Ehi Clark, tutto okay?” – gli chiese immediatamente l’amico, notando qualcosa di strano nel suo sguardo. Pete era un ragazzo che sapeva cogliere al volo i cambiamenti espressivi di Clark, a volte riuscendo ad anticiparne anche le mosse. Erano così amici, che davvero niente avrebbe potuto disintegrare quel fortissimo legame che avevano.
“No, Pete, davvero. Non ho niente, solo una strana sensazione, sai quando credi che vada tutto troppo bene per essere reale? Ecco, quello che sento io ora.” – disse il castano guardando il ragazzo di fronte a lui.
“Goditi la serata, guarda Cloe com’è felice, non volevi questo?” – sorrise l’altro, facendone spuntare uno anche al suo amico, che annuì rilassandosi. Tuttavia la brutta sensazione non svanì, lasciandogli il senso di nervosismo e tensione addosso. Magari era solo tutta immaginazione, o tutta suggestione, dovuta ai troppi problemi causati dalla scuola, e dal segreto che custodiva. Non doveva preoccuparsi, e continuare a festeggiare, lo vede, ma stando all’erta, come se qualcuno o qualcosa dovesse arrivare da un  momento all’altro. Percepiva una richiesta d’aiuto lontana, molto lontana, dove nemmeno con la sua supervelocità sarebbe potuto arrivare. Doveva lasciar correre gli eventi, lasciare che tutto andasse per il verso prefissato. Non doveva intervenire, senza sapere nulla del problema.
Alla fine della festa, tutti andarono via, Cloe, entusiasta, abbracciò il ragazzo fino allo sfinimento, prima di lasciarsi accompagnare a casa dal signor Kent, mentre il figlio restava alla fattoria ad aiutare la madre nel sistemare.
“Clark, tesoro, hai qualcosa che ti turba?” – chiese Martha Kent, madre terrestre, adottiva di Clark.
“No… cioè, sono preoccupato. Ho una strana sensazione addosso, come se qualcuno avesse bisogno di me, ma io non potessi far niente per aiutarli” – sospirò il ragazzo, prima di correre velocemente, grazie alla sua super velocità, e togliere da mezzo tutte le cose sporche riporle in una busta nera, e posizionarla fuori la porta. – “ed è frustrante, mamma” – completò una volta fermo. La donna sorrise e si avvicinò al figlio, abbracciandolo forte, come solo una madre sapeva fare per tranquillizzare il proprio figlio.
“Andrà tutto bene, vedrai. Una bella dormita, e domani sarai in forma come sempre.” – gli sorrise rassicurante. Tuttavia le parole della donna non scalfirono il suo pensiero triste. Temeva davvero che da qualche parte nel mondo, qualcosa stesse andando male. Era suo compito fermare tutto, magari era Luthor senior che ne faceva un’altra delle sue, ma no, si sarebbe sentito ai telegiornali, tutti avrebbero saputo che qualcosa stava accadendo, invece no, tutto taceva. C’era qualcosa che non andava, ma i Luthor, apparentemente, non c’entravano nulla. Seguì, però, il consiglio di sua madre e andò a mettersi a letto, una volta sotto le coperte, poté pensare meglio.
Non c’erano stati pericoli a scuola, né in altri luoghi, quindi la kryptonite non c’entrava.
Allora cosa? Cos’era?
Si addormentò con quei pensieri nella testa, e la mattina dopo, quando accese la televisione, seppe cosa stesse accendo. Era allibito, non poteva crederci, era surreale, e la cosa per lui non doveva esserlo perché… lui veniva da un altro pianeta, insomma.
Non si sa ancora che fine abbiano fatto delle persone. Dalle principali città del mondo stanno sparendo misteriosamente delle persone, nessuno sa darsi una spiegazione, si spera che il criminale venga preso e arrestato.” – diceva la giornalista del telegiornale mattutino. Che fossero segnali alieni, quelli?
 
William McKinley High School, Lima, Ohio, ore 00.00
 
“Kurt, smettila di urlare, santo cielo!” – urlò Blaine, contro il suo ragazzo, che da un’ora a quella parte non faceva altro che andare fuori di testa per un motivo futile.
“No, non mi calmo, e non la smetto di urlare!” – strillò il ragazzo di fronte, Kurt, mentre l’altro alzava gli occhi al cielo, segno che stava per perdere la pazienza, odiava litigare con lui, ma quello voleva sempre e solo avere ragione, non poteva averla sempre e quella volta, non l’aveva per nulla.
Kurt Hummel, studente del William McKinley High School, ragazzo abbastanza alto, per niente muscoloso, capelli castani e profondi e intense occhi azzurri, litigava con il suo ragazzo Blaine Anderson, ex membro dei Warblers, ora studente dell’High School insieme al castano, poco più basso di Kurt, moro dagli occhi castani, carattere decisamente irritabile, almeno quella sera. Era un’ora che continuava ad insistere su una cosa strana che aveva notato per le strade di Lima, quel giorno. La scuola era chiusa, e lui ne aveva approfittato per una sessione di shopping con Rachel, ma da quando era tornato sosteneva cose assurde, e il moro non riusciva a calmarlo in nessun modo. Era irrequieto, e nemmeno gli abbracci riuscivano a calmarlo.
“Tu non capisci, io l’ho visto! Era… era… spaventoso. Okay, spaventoso?” – urlò sedendosi sul letto, mettendosi le mani nei capelli, per poi con esse coprirsi il viso, per trattenere le lacrime che minacciavano di uscire violentemente. Odiava quando non gli credevano, quando Blaine non gli credeva. Lui aveva solo paura, non poteva averne?
Aveva visto una cosa terribile, era logico che ne avesse, ma per tutti i suoi conoscenti sembrava essere uno stupido, un idiota visionario, e lo stava diventando anche per Blaine, umiliazione peggiore non poteva esserci.
“D-Devi c-credermi… o-okay?” – la voce tremava, segno che stava per scoppiare in lacrime.
Il moro sospirò e si addolcì. Adorava consolarlo e proteggerlo, ma quella volta stava esagerando, insomma… Kurt tremava e allora Blaine non riuscì più a mascherare sicurezza per tranquillizzarlo. Si avvicinò a lui, sedendosi accanto a lui e lo abbracciò, facendogli affondare il viso sul suo petto, come quando l’aveva consolato infinità di volte alla Dalton Accademy. Nel periodo in cui Kurt era stato alla Dalton, Blaine aveva imparato a capire quando poteva cercare di farlo ragionare, o quando era davvero terrorizzato, come in quel momento.
“Shh, va tutto bene, Kurt, ci sono io, okay?” – gli sussurrò cullandolo tra le braccia. Kurt era così, piccolo e indifeso. Doveva sempre essere protetto in qualunque caso, anche quando credeva di vedere cose che non esistevano.
“Credimi…” – sussurrò stringendo le braccia intorno ai suoi fianchi, stringendosi a lui e lasciandosi stringere forte.
“Ma come faccio…?” – chiese l’altro – “è impossibile, Kurt”
“M-ma ti dico che si è mossa, quella statua… oddio per un attimo, appena ho aperto gli occhi era ferma, ma l’ho vista era più avanti, si era spostata… Blaine, e l’attimo dopo non c’erano due persone… devi credermi!”
“Statue assassine, davvero?” – ridacchiò scuotendo la testa – “ti prego, Kurt.”
“Tu non l’hai visto! Prima aveva le mani sugli occhi, quando ho aperto gli occhi aveva le braccia aperte, e l’attimo dopo era di nuovo normale!” – spiegò velocemente, tremando il castano.
“Hai fumato?” – chiese allarmato, appoggiandogli una mano sulla fronte – “hai la febbre? Stai delirando?”
“Blaine, sono serio…” – mormorò terrorizzato guardandosi intorno.
“E’ uno shock, amore, davvero.” – gli spiegò pacatamente, senza farlo spaventare – “ultimamente sei stressato, probabilmente la tua mente ti ha giocato qualche brutto scherzo.” – gli baciò la fronte con fare dolce, facendolo distendere sul letto, e rimboccandogli le coperte. Ma Kurt tenne gli occhi aperti. Non voleva rischiare di chiuderli e vedere di nuovo quella statua, o qualsiasi altra cosa fosse. Blaine si stese accanto a lui, sistemandosi e abbracciandolo. – “dormi, chiudi gli occhi, e fai solo sogni belli, ti passerà.” – lo rassicurò baciandogli delicatamente le labbra – “è stanchezza, dormi.” – Kurt cedette e annuì, affondando il viso sul petto di Blaine, che lo accolse caldamente tra le braccia e intrecciò le gambe con le sue. Il castano alzò lo sguardo negli occhi dell’altro sorridendo, ora, anche se era ancora frenato dalla paura.
“Scusa… io, non vorrei darti tutti questi problemi” – borbottò contro il suo petto, stringendolo.
“Non mi dai problemi, Kurt, non dire scemenze.” – rise il moro stringendolo forte, cercando di farlo dormire. Kurt era ancora insicuro, quello che aveva visto era lì, ancora impresso nella sua mente. Una cosa tanto mostruosa non poteva essere un’allucinazione, e poi lui non faceva uso di droghe, come poteva averlo visto allora? Non era visionario, no.
“Perché non andiamo? Ti faccio vedere la statua… così mi dici cosa vedi?” – chiese, cercando un’ultima spiaggia a cui appoggiarsi, un’ultima possibilità, per essere un po’ più credibile. Temeva davvero di impazzire, ma lui l’aveva notato, seppur in modo impercettibile, quel momentaneo e repentino cambiamento che la statua aveva avuto. Non l’aveva sognato, non era stupido, e non usava allucinogeni, quindi era reale. Non è stress, insomma! – pensò irritato.
“Se può tranquillizzarti, va bene, andiamo.” – sospirò Blaine. Se significava poi riposare, e far smettere le paranoie di Kurt, allora andava bene, sarebbero andati a vedere questa famosa statua e la sua immobilità.
Indossarono velocemente degli abiti e Kurt guidò Blaine fino alla statua che l’aveva terrorizzato, non molto lontano dalla casa del ragazzo, comunque. Una volta di fronte ad essa, il moro la indicò, incredulo.
“E’ immobile.” – sbadigliò fissandola – “ora sei tranquillo?” – chiese dolcemente Blaine, cercando di dissuaderlo dal restare lì. Kurt chiuse gli occhi e poi li aprì, era ferma. Si stropicciò gli occhi, e riguardò la statua, non si era mossa, eppure quel pomeriggio si era mossa. Non era possibile… lui non era impazzito. Cosa diavolo gli stava succedendo? Aveva le visioni sul serio? No, rifiutava di accettare quella condizione, non era pazzo. La statua si era mossa, lui l’aveva visto.
“Si è mossa quando ho chiuso gli occhi, lo giuro!” – strillò guardandola e indicandola. Non era possibile, no… non avevano ragione gli altri. C’era qualcosa che non andava, era strano. Perché con Blaine non accadeva?
“Andiamo a dormire, forza.” – fece girandosi, facendo girare contemporaneamente Kurt afferrandogli una mano. Lo amava, era adorabile, ma quando lo faceva uscire di casa a mezzanotte passata solo per vedere una statua immobile in una strada, sostenendo che questa si fosse mossa… era insopportabile, soprattutto se lui, Blaine Anderson, aveva sonno, e non voleva più saperne di stare in piedi.  Nemmeno tre secondi dopo, la realtà svanì dalla loro vista. Tutto cambiò, la strada divenne erba, i palazzi divennero montagne, e tutto sembrò diverso.
Non si resero conto di cosa fosse accaduto.
Svennero prima di capire che erano stati… trasportati altrove.
 
Camelot, Regno dei Pendragon, mezzodì.
 
Il principe Arthur era fuori a caccia, insieme al suo personale servitore Merlin.
Ignorava ciò che accadesse a Camelot, il suo regno. La gente spariva dalle strade misteriosamente, e nessuno riusciva a capire come fosse possibile ciò. Accadeva principalmente di notte, ma il re Uther, re di Camelot, uomo burbero, parecchie volte odioso, capelli scuri e occhi chiari, nemico giurato della magia fin dalla nascita di suo figlio, e conseguente morte di sua moglie Igraine, aveva attribuito il fenomeno a fughe di stregoni, quindi a meno che non avessero fatto ritorno a Camelot, non ci sarebbero stati problemi, perché in quel periodo, dopo la fuga di Morgana, sua figlia illegittima, il re rasentava l’orlo della pazzia – e presto questa sarebbe sopraggiunta - ma in quel momento, egli aveva sottovalutato il problema, non sarebbe bastato aspettare che il fenomeno passasse perché era inarrestabile, sempre più gente spariva. Ma per lui era solo opera della magia, come qualsiasi sventura.
Il principe Arthur era fuori già da un paio di giorni, aveva chiesto al padre un periodo di riposo nel bosco per distendere i nervi, e aveva portato con sé il suo amico più fidato, Merlin, il suo servitore personale, nonché amico. Il re aveva acconsentito, poiché il principe si era dimostrato degno del suo titolo durante tutte le prove a cui era stato sottoposto, salvando spesso il regno – con l’aiuto indiretto di Merlin – destreggiandosi sempre al meglio, differenziandosi dagli altri cavalieri di Camelot. Lui e Merlin erano immersi nella natura, a contatto con essa. Si erano recati sulle rive di un lago, dal quale il principe non sapeva che Merlin l’avesse salvato.
Il servitore era seduto sotto un albero, teneva la testa appoggiata contro la corteccia di esso e tra le fronde dell’albero scrutava il cielo, mentre il principe si concedeva una nuotata nel lago. Ogni tanto, il giovane servo lanciava un’occhiata al suo signore, per assicurarsi che stesse bene e non si facesse male. Adorava guardarlo mentre si divertiva, mentre non pensava a nulla e si concedeva il suo meritato relax. Soprattutto, perché senza che lui corresse pericoli, Merlin poteva anche non mentire ed essere semplicemente se stesso.
Merlin, di Ealdor, giovane dai capelli neri e gli occhi azzurri, mingherlino, abbastanza alto, servitore e amico – anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso – di Arthur, era un mago, padroneggiava alla perfezione la Religione Antica ed era l’ultimo Signore dei Draghi. Con la magia aveva salvato la vita dell’erede al trono così tante volte che ormai ne aveva perso il conto, ma gli andava bene così, Arthur stava bene, il suo destino era proteggerlo, quindi finché lui stava bene, tutto era a posto, e nessun problema sussisteva, se nessuno scopriva la sua vera natura.
Il giovane principe, ragazzo muscoloso, abile con la spada, biondo dagli occhi azzurri, futuro re di Camelot, buono, gentile, ma anche altezzoso e, a volte, odioso, emerse dall’acqua, risalendo sull’erba.
“Wow!” – esclamò sorpreso – “l’acqua qui è fantastica! Dovresti venire anche tu.” – fece avvicinandosi a lui, lasciando gocciolare dell’acqua su di lui, bagnandolo interamente.
“No, non ne ho voglia, Arthur, smettetela!” – esclamò irritato il servitore, lasciandosi però scappare una risata divertita, contento che il suo principe si divertisse.
“Io dico che ne hai voglia.” – lo sfidò con lo sguardo il principe, mentre Merlin gli riservava un’occhiataccia piena di rimprovero e dissenso. – “e poi dammi del tu, siamo fuori da Camelot.”
“Tecnicamente siamo a Camelot, questi sono i  vostri territori…” – spiegò con nonchalance.
“Sì… come vuoi.” – lo afferrò per i fianchi, ed esile com’era il moro, per il biondo non fu difficile caricarselo sulla spalla, e correre verso la riva del lago e lanciarsi a peso morto tenendo saldamente Merlin tra le braccia, per non perderlo o rischiare di annegarlo. Da quando mi preoccupo per Merlin?
Lo lasciò andare per un attimo, e il servitore si ritrovò immerso totalmente nell’acqua dalla testa ai piedi, completamente bagnato, vestiti compresi, tirò fuori la testa dall’acqua e guardò in cagnesco il principe.
“Voi siete un asino!” – strillò – “un asino regale però.” – aggiunse borbottando, mentre il principe rideva, lo guardava quasi incantato, e gli appoggiava una mano sulla testa, scompigliandogli i capelli.
“Scusami” – rise – “ma dovevi vedere la tua faccia!” – gli strizzò le guance senza accorgersene – “sei adorabile!” – si lasciò scappare, facendo arrossire inconsapevolmente il moro, che non appena si accorse della sua temperatura più alta, prima che il principe aggiungesse altro, o lo prendesse in giro, si spinse con la testa sotto, e cercò di raffreddarsi, ma non riuscì a non sorridere. Adorava quei momenti con lui, in cui non lo insultava e gli sorrideva.
Arthur vedendolo andare sotto, e non riemergere, si preoccupò e immerse la testa per trovarlo e tirarlo fuori, non appena lo vide a pochi metri da lui, lo afferrò e lo tirò su, guardandolo preoccupato.
“Ti senti bene? Sei andato giù!” – chiese allarmato, qualcosa lo spingeva a preoccuparsi sempre per quel ragazzo, e non sapeva cosa fosse, fatto stava che si preoccupava sempre troppo per il suo ‘stupido’ servitore. Lo aveva dimostrato quella volta, quando aveva rischiato la vita, perché Merlin aveva bevuto il vino avvelenato al posto suo.
“Sto bene” – tossicchiò – “volevo solo… rinfrescare le idee!”
Arthur lo guardò male e lo spinse verso la riva. Ma era possibile che quel maledetto ragazzo ogni volta che c’era qualche problema, qualche preoccupazione, avesse sempre la battuta pronta? Arthur non riusciva a spiegarselo, eppure, Merlin l’aveva anche cambiato, in meglio. Se in quel periodo della sua vita era più altruista verso il prossimo lo doveva a Merlin, che quel giorno al mercato lo aveva insultato, e poi gli aveva salvato la vita, diventando così suo servo, e poi amico. Il loro rapporto era un po’ così, odio e amore.
Merlin aveva salvato la vita ad Arthur innumerevoli volte, e anche il principe aveva salvato la sua vita qualche volta.
“Torniamo a riva, forza.” – ordinò perentorio – “hai schiarito abbastanza le idee.”
Merlin obbedì senza ribattere, e risalì rabbrividendo a contatto con il venticello che prima era piacevole, e in quel momento diventava fastidioso e pungente.
Ho già detto che odio Arthur?
Il principe, uscito anche lui, appena notò Merlin rabbrividire, prese la stola che avevano portato e l’appoggiò sulle spalle del giovane mago, che lo ringraziò con lo sguardo. Lui si distese la sole, godendosi i benefici calori dei raggi.
“Sai?” – fece improvvisamente il principe guardandolo aprendo un solo occhio – “pensavo di andare a caccia dopo, che ne dici?” – chiese.
“Facciamo quello che volete, è la vostra… gita?”
Arthur rise forte, scuotendo la testa, mentre a Merlin sfuggiva uno starnuto forte.
“Non ammalarti ora! Togliti quei vestiti bagnati, indossa i miei, metti i suoi ad asciugare, e non ribattere” – ordinò, mentre lo sguardo di Merlin variava dal sorpreso allo stranito, all’incredulo.
Cosa prendeva ad Arthur?
Perché tutta quella gentilezza nei suoi confronti?
In imbarazzo, il giovane servo si tolse i vestiti che a causa di Arthur si erano bagnati tutti, e indossò i suoi. Gli stavano incredibilmente grandi e non poteva non arrossire, era… imbarazzato, dannazione.
Ho già detto che odio Arthur?
“Sei adorabile, lo sai?” – sorrise Arthur guardandolo con… era dolcezza quella?
Cosa diavolo stava succedendo quella mattina? Perché Arthur era dolce e gentile con lui? E perché poi lo trattava così bene? Perché doveva fargli saltare il cuore nel petto? Forse non è vero che lo odio, non così tanto almeno.
Beh, che Merlin avesse un debole – che non aveva mai ammesso - per Arthur si era sempre saputo, persino il Grande Drago l’aveva capito, solo il diretto interessato no, che era troppo preso da Ginevra; ma non quella mattina, in cui sembrava preso da lui, sembrava un’altra persona. E Merlin non sapeva se esserne contento o meno. Insomma, da un lato, sì ne era contento, Arthur lo trattava come una persona e non come un semplice servo… ma dall’altro lato era indeciso, avrebbe dovuto rivelargli della sua magia? Forse sì. Era giusto, al diavolo, Arthur l’avrebbe aiutato a nascondersi meglio, doveva dirglielo, doveva essere sincero con lui, non poteva più mentirgli, non in quel modo, almeno.
Quando il principe aprì un'altra stola sull’erba e prese il cestino da picnic, Merlin non riuscì a non arrossire ancora di più, si sedette accanto a lui, restando però in imbarazzo. Sorrise timidamente al principe, che ricambio con solarità.
“Merlin che non ha parole, devo sentirmi offeso o incredibilmente fortunato?” – chiese divertito.
“Oh, voi non vi libererete mai della mia voce.” – rise il giovane mago sciogliendosi un po’ – “potete giurarci, asino regale.” – lo schernì ridendo ancora, sapendo che ormai Arthur non si offendeva più per quell’affettuoso nomignolo.
“Mi mancava la tua voce, è così che mi piaci.” – disse infatti il principe con il sorriso sulle labbra, che non lo lasciava.
Merlin deglutì a vuoto, spostando lo sguardo sugli alberi dietro di loro, che erano incredibilmente più interessanti, non di Arthur, cosa poteva esserci di più interessante di lui? Ma erano decisamente più interessanti dell’imbarazzo che provava in quel momento, davanti a lui e alla figuraccia che stava facendo.
“Ti ho zittito di nuovo?” – chiese passandogli un piatto – uno di quello delle cucine regali – dove il principe depositò sopra qualcosa che somigliava a del formaggio, ma… molto schiacciato? Merlin scoppiò a ridere.
“Quello cos’è? Pasticcio di formaggio?” – chiese, mentre Arthur recuperava un po’ della sua arroganza e gli lanciava contro dei fili d’erba, facendo ridere ancora il mago, che non capiva bene cosa stesse accadendo.
Tra chiacchiere, schizzi d’acqua, scambi di vestiti – Arthur aveva indossato quelli di Merlin e gli andavano esageratamente piccoli, per questo avevano dovuto fare di nuovo a cambio – decisero di andare a caccia, così per divertimento, Arthur amava la caccia, ma Merlin la detestava, per lui uccidere povere creature era… inumano.
Merlin aveva una strana sensazione, come se qualcosa stesse per accadere, aveva la sensazione che qualcuno stesse per turbare la quiete tra lui ed Arthur, quella che finalmente avevano meritato, e sfruttato. Catturarono un paio di conigli e tornarono al lago, dove si distesero sul prato. Le stelle iniziavano a spuntare in cielo, dopo quella giornata bellissima vissuta insieme. Ne avevano ancora un’altra, ed erano sicuri che sarebbe stata altrettanto bellissima.
La luna era apparsa in cielo, e Merlin ne era affascinato.
Era uno spettacolo meraviglioso, tanto quanto il ragazzo che aveva accanto. Voltò il viso verso quello di Arthur, intento a guardare il cielo. Il suo volto illuminato dalla luna pareva quello di un dio. I suoi lineamenti marcati da uomo, ma delicati da principe erano messi in risalto dal bagliore lunare, i suoi capelli dorati riflettevano ancor di più  la loro luminescenza, e i suoi occhi – oh, i suoi occhi – alla luce della luna sembravano due diamanti.
“Oh…” – si lasciò sfuggire Merlin, assorto nei suoi pensieri.
Arthur si voltò immediatamente verso di lui, e lo guardò negli occhi. Si morse le labbra, sorridendo appena. Quel ragazzo non era un semplice servitore, se n’era accorto da un po’, ma allora cosa rappresentava per lui? 
Perché si sentiva così… attratto da lui?
Perché non riusciva a capire cosa fosse quello che sentiva?
Amore? No, lui amava Ginevra, vero?
Perché ora i loro visi erano vicini?
Perché stava appoggiando la mano sulla sua guancia?
Gli occhi di Merlin parevano delle pietre preziose, più preziose di quelle della corona, la sua guancia era così morbida… più morbida di quella di una dama, le sue labbra… le sue labbra era così invitanti…
“Merlin…” – sussurrò sulle sue labbra, un sussurro roco e gutturale, che fece vibrare l’aria, e rabbrividire il servitore.
“Arthur…” – sussurrò l’altro, socchiudendo le palpebre, la voce era delicata, dolce, come quella di una fanciulla.
Era quello il momento? Stavano per farlo?
Stavano per scambiarsi un bacio?
Ma era… possibile?
Era fattibile?
“Oh, Merlin…” – i nasi si sfioravano, le fronti quasi in contatto, una mano di Arthur andò su quella appoggiata sul terreno di Merlin, che non la ritrasse, bensì intrecciò le dita con le sue.
“Arthur, oh…” – sentiva il suo respiro contro il proprio, sentiva lo stomaco contorcersi e non per la fame.
Ormai erano vicinissimi, ormai nessuno poteva fermarli.
Merlin non si accorse come, né perché intorno a loro tanti piccoli lumini di fuoco avevano iniziato a danzare, e ne Arthur era affascinato. Non disse niente, aveva sempre sospettato che lui fosse un mago, aspettava la sua confessione, ma quello bastava. Era tutto ciò di cui aveva bisogno.
Finse di non aver capito, di non aver visto, tutto pur di non far smettere quella danza meravigliosa che vedeva intorno a sé, tutto ciò che quel sentimento che circolava tra di loro era in grado di creare.
Tutto era immobile, a parte loro due, i loro cuori palpitanti e le fiammelle che danzavano intorno a loro.
“Per Merlin, dove siamo!?” – urlò qualcuno da dietro le frasche chiamando chiaramente il giovane mago, e in quel momento tutto cessò. Le fiammelle si spensero, Merlin scattò in piedi, mentre Arthur restava per terra.
“Merlin, torna qui…” – sussurrò il principe, mentre il giovane mago si allontanava, chiedendosi chi l’avesse chiamato, seguì con l’udito le imprecazioni e…
“Qualcuno mi ha chiamato?” – chiese giustamente, guardando i due tipi che non aveva mai visto in vita sua, comparsi dal nulla e: “MERLIN!” – urlò Arthur, seguendolo. 


 
To be continued...

 

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Hello everyboy!
Diciamo che questa... cosa è frutto di quest'anno passato a guardare serie tv. Tra DW, Torchwood, Merlin, Sherlock e Glee non so chi mi faccia più male. (Smallville è finito ormai, ma resta tra i miei preferiti, anche se non ho potuto mettere tutte le serie tv che seguo, ho seguito e tutto.)
Allora chi mi conosce - sono conosciuta nel fandom degli One Direction, non linciatemi, vi prego - per le mie immense e lunghissime Larry. E questa era partita come una Merthur/Larry... ma io ovviamente dovevo complicarmi la vita aggiungendo tutto il resto, maledetto Dottore, è lui che mi ha rovinato (no scherzo) but, who cares? Comunque sia... qui incontriamo i personaggi principali, alcuni di essi per ovvi motivi (non sono OTP principali) saranno un po' side, ma enjoy! Diciamo che comunque da OS - perchè io scrivo solo OS - è venuto fuori questo mostro di crossover, di sessanta pagine, di cui queste sono solo le prime 11, circa, dove conosciamo tutti i personaggi presenti in questa fanfiction. E... sì, ci sono anche LORO, quindi evitate di battere le palpebre, lo dico per voi. Anyway, scusate gli inglesismi, diciamo così, come Time Lord, Weeping Angels e 'Consulting detective', seguendo le serie in lingua originale avevo problemi a farmi piacere come suonassero in italiano. 
Chiariamoci, ora sembro una pazza, perchè ho paura di postare in un nuovo fandom e quindi compatitemi e sopportatemi.
Diciamo che in linea di massima non saranno più di sei capitoli, o cinque, I don't know.
E spero vivamente vi sia piaciuto, vi piaccia e lo faccia in futuro.
Ho finito il noioso e lungo spazio autrice, i prossimi non saranno così, giuro. Era solo per farvi capire il livello di idiozia della sottoscritta e presentarmi in modo decente. Ah, le regole della buona eduzione prevedono anche la presentazione con nome e cognome.
In tal caso sono Chiara, Chiara Stylinson per l’altro fandom, potete anche chiamarmi come vi pare, non ho problemi, e sono vecchia per molti fandom, but who cares? (ne sto abusando.)
Bene, visto che io l'ho tutto scritto, man mano che rileggerò posterò quindi credo ogni giorno, massimo due giorni aggiornerò. Capitemi sono 60 pagine, LOL
Bene, alla prossima, si spera non vi abbia fatto troppo schifo...
e..
 
Don’t blink!

P.s molte cose che accadono nelle prime parti, in queste  praticamente, saranno spiegate tutte alla fine della storia. 
A presto,
Bye bye (Pond).

P.p.s scusate evenutali errori, a volte mi scappano.

 
   
 
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