La pioggia di quella notte autunnale
cadeva leggera sulle strade della città addormentata, sui
tetti
delle case buie e con le tende tirate. L'uomo che camminava piano su
un marciapiede, l'unica presenza umana di quello scenario desolato,
ebbe un brivido di freddo e si strinse di più nel lungo
cappotto
scuro che indossava, maledicendosi ancora una volta per non aver
portato con sé un ombrello.
Ma alla fine forse non era tanto male
sentire la pioggia che, leggera, bagnava i suoi capelli e gli
scorreva lungo i vestiti. Era quasi rilassante, camminare per le
strade con il fragore ritmico dell'acqua nelle orecchie. Rilassante,
dolce e soprattutto nostalgico, come si sentiva lui dentro.
L'uomo imboccò una nuova stradina e,
dopo aver camminato per qualche minuto, si fermò davanti ad
un
cancelletto in ferro battuto, che circondava un vasto prato di erba
incolta illuminato dalla pallida luce della luna. Si
appoggiò
lentamente al cancelletto e lasciò spaziare lo sguardo sul
prato:
fino a qualche decennio prima, era stato un elegante giardino ben
curato, dove un po' tutti i bambini e i ragazzini del quartiere si
ritrovavano per giocare. Chissà perché poi era
stato abbandonato a
se stesso, con le panchine di legno scheggiato e impolverato e l'erba
fitta che cresceva quasi fino ai livelli del piccolo cancello.
L'uomo chiuse gli occhi e tirò un
sospiro stanco, pregno di malinconia. Nella sua mente si stava
già
figurando una scena diversa da quella che si era presentava davanti
al suo sguardo: un ricordo risalente a molti anni prima.
Adesso il cielo sopra di lui era
azzurro, splendente del sole dell'estate, nuvole candide al posto
delle stelle. L'erba era altrettanto selvaggia e incolta, ma il prato
non era vuoto: c'erano due ragazzi, di non più di
diciassette anni,
uno biondo e l'altro dai lunghi riccioli castani, seduti all'ombra di
un albero. Il biondo aveva tra le braccia una chitarra acustica, che
suonava pizzicando distrattamente le corde con la punta delle dita; i
suoi occhi erano tutti per il ragazzo seduto davanti a lui, che lo
fissava a sua volta con l'ombra di un sorriso sulle labbra.
-Si sta benissimo qui.- disse a un
certo punto il ragazzo bruno, sporgendosi per avvicinarsi di
più a
lui. -Vorrei poter rimanere qui per sempre.
Il biondo sorrise apertamente prima
di posare un veloce, lieve bacio sulle labbra dell'altro.
-Intendi così come startene seduto
sotto un albero ad ascoltarmi suonare la chitarra oppure come stare
semplicemente insieme a me?
-Entrambe, anche se preferisco la
seconda opzione.- rise il ragazzo bruno, poggiandogli delicatamente
una mano sulla spalla, ma nei suoi occhi era passata un'ombra di
serietà, quasi di preoccupazione.
-Tu pensi che ci riusciremo?-
mormorò. -A stare insieme, intendo. Spesso ho una dannata
paura che
col tempo potrebbe succedere qualcosa tra noi, che potrei perderti
del tutto.
-Non succederà.- lo rassicurò
l'altro, mettendo da parte la chitarra per potergli afferrare
liberamente le mani. -È da un'eternità che ci
conosciamo e siamo
ancora qui, non è mai cambiato niente. Tra al massimo un
paio di
anni ce ne andremo di qui – e con un gesto della mano
indicò le
file di case della città in lontananza – e ci
faremo una vita.
Siamo fatti per stare insieme. Non riesco a immaginare nessun altra
persona a parte te, nessuna. Sei troppo importante.
I due ragazzi si erano scambiati un
altro sorriso, il sorriso brillante e sicuro di chi è ancora
giovane, pieno di sogni, certezze e speranze.
L'uomo riaprì di scatto gli occhi. Lo
accolsero il prato abbandonato, il cielo scuro, la pioggia che si era
fatta più fitta e gelida. Nessun sole d'estate, nessuna
risata di
adolescente, nessun suono di chitarra.
Le sue dita sfiorarono piano la fede
d'argento che portava ormai da un paio d'anni alla mano destra.
Un'ondata di nostalgia gli invase la mente, gli fece ricordare le sue
giornate da adolescente passate con una chitarra tra le mani e le
labbra del suo ragazzo sulle sue. Giornate in cui la vita gli era
sembrava bellissima, perché era convinto che loro sarebbero
rimasti
insieme per sempre, che fossero troppo complementari, troppo giusti,
per potersi lasciare.
Poi erano passati gli anni. Erano
arrivati i litigi, le incomprensioni, l'indifferenza. Era arrivata
una donna, e con lei la fede nuziale che ora portava al dito.
Tutte le cose passano, si erano detti
il giorno in cui si erano lasciati, pur con le lacrime agli occhi e
l'amaro nel cuore. Si erano detti che tutto passa, che il sole non
può splendere per sempre, come possono credere due ragazzini
inesperti della vita.
Tutto passa, pensò amaramente l'uomo
mentre l'acqua gli scorreva addosso, sempre più pesante. La
pioggia
sembrava un eterno velo d'acqua sempre uguale, senza fine, ma non era
mai la stessa; una goccia ti arrivava addosso e un attimo dopo non
c'era più, era già scivolata via come gli era
scivolato via dalle
mani quell'amore che aveva creduto tanto intenso, eterno, perfetto;
ma tutte le cose passano.
“Il sole non può splendere per
sempre.” pensò l'uomo, voltandosi per tornare
indietro, e
improvvisamente un sorriso comparve sulle sue labbra quando
ricordò
l'indirizzo e il numero di telefono che il giorno prima aveva
appuntato nella sua agenda. “Ma forse non può
neanche piovere per
sempre.”
Tutte le cose passano. Ma tutte le cose, in un modo o nell'altro, si possono sempre recuperare.
Note.
Questo racconto è nato come un compito di italiano (Poi la professoressa non me l'ha neanche chiesto.xD) che consisteva nel scrivere qualcosa che contenesse un significato allegorico.
Sinceramente non saprei dire se l'ho fatto bene o no, lol. L'allegoria dovrebbe essere: non possiamo dirci sicuri di nulla perché nella vita potrebbe succedere di tutto, (quasi) tutte le cose che da giovani ci sembrano così belle e perfette, le cose che noi crediamo che possano durare per sempre, alla fine passano.
Comunque visto che alla fine la prof non mi ha neanche chiesto il compito ho pensato di postare qui la storia, giusto per non farla languire sul quaderno. Spero vi sia piaciuta, a presto.;) (Naturalmente il titolo è preso dall'omonima canzone di George Harrison.)
Tutte le cose passano. Ma tutte le cose, in un modo o nell'altro, si possono sempre recuperare.
Note.
Questo racconto è nato come un compito di italiano (Poi la professoressa non me l'ha neanche chiesto.xD) che consisteva nel scrivere qualcosa che contenesse un significato allegorico.
Sinceramente non saprei dire se l'ho fatto bene o no, lol. L'allegoria dovrebbe essere: non possiamo dirci sicuri di nulla perché nella vita potrebbe succedere di tutto, (quasi) tutte le cose che da giovani ci sembrano così belle e perfette, le cose che noi crediamo che possano durare per sempre, alla fine passano.
Comunque visto che alla fine la prof non mi ha neanche chiesto il compito ho pensato di postare qui la storia, giusto per non farla languire sul quaderno. Spero vi sia piaciuta, a presto.;) (Naturalmente il titolo è preso dall'omonima canzone di George Harrison.)