“And if I was running you’d be the one who I would be running to.”

Queste erano le parole che sentii nel momento in cui il mio cervello cercava di riconnettersi, mentre avevo le cuffie ancora nelle orecchie e l’iPod nascosto sotto al cuscino. Sabato mattina. Niente scuola, niente pensieri, e un grandissimo mal di testa dovuto alla musica tenuta a volume troppo alto con cui mi ero addormentato la sera prima. Ma soprattutto, niente lui. Il solo pensiero mi faceva venire la nausea, anche se poteva essere definita una cosa quasi positiva per me. Meno lo vedevo, meno mi illudevo, meno ne soffrivo.

Mi alzai dal letto e mi diressi verso il bagno cercando di non calpestare i suoi vestiti ancora a terra. Da quella sera non avevo ancora avuto il coraggio di raccoglierli per metterli a lavare, quindi decisi che avrei aspettato fino a quando mio padre non li avesse presi per bruciarli. Odiavo la persona riflessa nello specchio, odiavo le occhiaie profonde e gli occhi rossi e le guance umide. Odiavo il mio essere pelle e ossa, la mia carnagione così chiara e i miei capelli sempre arruffati. Mi spogliai e feci una doccia veloce, giusto per svegliarmi. Misi una felpa larga che mi arrivava fino alle ginocchia, ci sarebbe entrata un’altra persona da quanto era grande, lui sarebbe potuto entrarci. Nonostante fosse più alto di me, più muscoloso, più.. perfetto. “Okay, la smetto. La smetto la smetto la smetto.” pensavo tra me e me, pur non riuscendo a smettere. E poi il campanello suonò. Avevo ancora i capelli bagnati e non mi ero messo i jeans, gli occhi erano più rossi di prima a causa dello shampoo che mi era colato in faccia; insomma, ero inguardabile, sembravo un fattone senza corrente, l’unica differenza era che io odoravo di lavanda e non di erba. Aprii la porta ed era lì, davanti a me. Era reale, ed era bellissimo. Sentii le gambe improvvisamente deboli, le fitte alla pancia e le guance farsi rosse. Aiuto.

“Ehi.” – disse Derek accennando un sorriso.

“Oh, ciao.” – dissi io con un’espressione da idiota, cercando di non far notare la voce tremante.

“Senti.. dobbiamo parlare. Posso entrare o tuo padre è a casa?”

“No, tranquillo. Puoi entrare.”

Dopo le mie parole fece un passo indeciso e varcò la soglia di casa, la sua espressione si rese molto più seria, come se avesse paura di dire qualcosa di sbagliato. Si sedette sul divano in pelle di fronte alla televisione, c’erano ancora delle bottiglie di birra vuote che erano state bevute da mio padre e i suoi colleghi qualche giorno fa, quando si erano riuniti per guardare la partita di football, sul tavolino che le sue ginocchia sfioravano. Lo imitai e poi mi misi un cuscino tra le braccia, stringendolo così tanto da poter strappare la federa. E poi riprese a parlare:

“Senti.. sono qui per parlare di ciò che è successo l’altra notte” – lo vedevo cercare il coraggio di andare avanti “Vedi, io non- io non so come sia potuto accadere. Eravamo entrambi stanchi, io mi sento confuso e.. non so che dirti, mi sono fatto prendere la mano. Non avrei dovuto fare quello che ho fatto con te, mi dispiace.”
Sentii il mio cuore spezzarsi. E poi spezzarsi un’altra volta, e un’altra ancora, fino a quando non rimase nulla tranne che pezzi sconnessi di un puzzle impossibile da completare. Mi limitai a dire:

 “Sì, hai ragione. Facciamo finta di nulla.” – ero un deficiente, stupido e coglione, ma furono le uniche parole che la mia materia grigia fu in grado di elaborare.

***
Salve persone, qui è Ronnie che parla. Questo capitolo è cortissimo, lo so, ma cercherò di fare il mio meglio in futuro.