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Autore: silvia_arena    06/10/2013    1 recensioni
L'iceberg ha gravemente danneggiato la fiancata, il naufragio è imminente: la nave s'inabisserà in un'ora.
Una nave che sta per affondare, un capitano che affonderà con la sua nave e una ragazza che affonderà con lui.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le mani di Elizabeth erano strette alla ringhiera della nave, i suoi occhi chiusi. In quel momento sentiva solo una cosa: la brezza marina.

Era dappertutto: nelle sue narici, nei suoi polmoni, fra i suoi capelli mossi, sulle sue spalle scoperte.

Aria. Aria pura.

Fu in quel preciso istante che comprese il vero significato di libertà. Non pensare a nulla, nessuna pressione, nessun dovere: essere un tutt’uno col vento.

Chi l’avrebbe mai detto che l’unico momento della sua vita in cui si sarebbe sentita libera sarebbe stato mentre si trovava prigioniera su una nave pirata. Rise al pensiero di quel buffo paradosso.

Pensò che sarebbe potuta rimanere lì per sempre; lasciò che il vento le scompigliasse i capelli e le muovesse le balze del vestito, inspirando profondamente l’odore del mare...

Crack.

Quel rumore assordante provenne da sotto di lei. Un forte scossone la spinse in avanti, e se in quel momento non avesse istintivamente rinforzato la presa sulla ringhiera, sarebbe caduta giù dalla nave. Percepì subito l’imbarcazione inclinarsi leggermente a prua, portandola quasi a fronteggiare l’oceano; corse a poppa prima che tutto ciò che si trovava sul ponte potesse arrivarle addosso.

«Fermate i motori! Virare a dritta!» furono gli ordini che sentì gridare, mentre pirati correvano in direzioni opposte sul ponte. Il rumore dell’acqua che entrava velocemente nella carena bastò a farla andare nel panico; passò le braccia fra le ringhiere a poppa (l’ultima parte della nave che pareva avrebbe toccato l’acqua), incatenandosi figuratamente ad esse, stringendole con tutta la forza che possedeva. La nave sembrava muoversi in alcuna direzione se non in avanti – o meglio, obliquamente verso il basso.

«Imbarchiamo acqua!»

«Cosa diamine è stato?»

«Un iceberg!»

In effetti, se quando la nave si era bruscamente inclinata spingendola in avanti, Elizabeth avesse guardato con attenzione il fondale marino, avrebbe chiaramente scorto un enorme pezzo di ghiaccio totalmente immerso, impossibile da notare in superficie.

Il respiro di Elizabeth si fece affannoso, mentre un’immagine della nave squartata in due dall’iceberg da prua a poppa non riusciva ad andarsene dalla sua mente. In quel momento di panico credette che, vista la velocità (enfatizzata dal rumore) con cui la nave sprofondava accogliendo al suo interno l’enorme pezzo di ghiaccio, prima o poi si sarebbe scontrata lei stessa con l’iceberg. Mai era stata così terrorizzata.

Il viavai di uomini che si sgolavano gridando ordini si susseguì inarrestabile davanti ai suoi occhi per ancora qualche istante – mentre lei riusciva solo a reggersi saldamente alla ringhiera, quasi a diventare un tutt’uno con essa – finché la decisione generale fu chiara: «Abbandonare la nave!»

Gli uomini che correvano avanti e indietro e a dritta e a manca – eppure, notò Elizabeth, nessuno di loro sembrava preso dal panico o sprovveduto, anzi: c’era un certo ordine in quel caos, ognuno dava l’impressione di sapere bene dove stesse andando e cosa stesse facendo – improvvisamente scelsero tutti un’unica direzione: destra. «Presto, presto, alle scialuppe di salvataggio!»

Nessuno sembrava curarsi di lei, così capì che avrebbe dovuto salvarsi da sola; stava cercando di calmarsi e trovare il coraggio per staccarsi dalla ringhiera – in quel trambusto assordante in cui l’unica cosa che avrebbe voluto fare era chiudere gli occhi e sperare di svegliarsi nel suo letto – quando all’improvviso il rumore cessò, la nave s’arrestò, e pure il tempo parve fermarsi. Tutti rimasero immobili, temendo qualche apocalittica svolta: un inabissamento istantaneo, un’esplosione – nulla di realmente avverabile in quella situazione, ma la paura portò tutti a fare nella propria testa le peggiori delle ipotesi.

Chiunque avesse visto la scena da lontano, avrebbe pensato di essersi ritrovato ad ammirare un enorme dipinto tridimensionale nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico: nessun corpo, animato o inanimato che fosse originariamente, si muoveva. Elizabeth si accorse anche di aver inconsciamente allentato di poco la presa sulle ringhiere, per paura che non riuscissero più a reggerla e si spezzassero, recidendo quel surrealismo di silenzio e immobilità.

Passarono diversi secondi prima che la gente su quella nave osò anche solo respirare. Alcuni volti si rilassarono, altri rimasero all’erta; tutti si guardavano in cerca di una risposta che nessuno poteva sapere, finché il quartiermastro si rivolse all’ufficiale di bordo: «Cosa è stato?»

Così come il panico e il caos si erano creati, svanirono – tanto nella nave quanto nella testa di Elizabeth: il solo fatto di aver riconosciuto la voce e il volto di chi aveva parlato, invece d’identificarlo come avrebbe fatto qualche minuto prima “qualcuno che corre senza sosta sul ponte”, la tranquillizzò molto.

L’ufficiale di bordo scese sottocoperta, dando a tutti il tempo di rasserenarsi in attesa di ordini; Elizabeth espirò profondamente il fiato che aveva trattenuto fino a quel momento e si staccò dalla ringhiera. Quando l’uomo tornò sul ponte, spiegò la situazione:

«Una parte dell’iceberg è entrata nella stiva, facendo incastrare la nave. Purtroppo non c’è modo di riparare quell’enorme buco, e nemmeno di riprendere la rotta: stiamo affondando – molto lentamente, ma stiamo affondando. Abbiamo un’ora prima che la nave s’inabissi completamente. Suggerisco» prima di continuare gettò un’occhiata al quartiermastro, per fargli capire che non aveva alcuna intenzione di scavalcarlo «di abbandonare la nave molto cautamente e ordinatamente: un movimento brusco potrebbe aumentare la velocità d’inabissamento.»

Il quartiermastro, il quale dovette riconoscere che il suo sottoposto era molto più bravo di lui con le parole, diede a tutti il tempo di comprendere appieno ciò che avevano appena udito, per poi concordare: «Bene, avete sentito l’ufficiale? Mantenete la calma. Alle scialuppe.»

La maggior parte dell’equipaggio si recò verso destra, dove si trovavano le scialuppe di salvataggio, mentre alcuni scendevano sottocoperta per portare con loro i propri averi.

Elizabeth non aveva nulla su quella nave, così si spolverò il vestito e si diresse verso le scialuppe quando, come un fulmine a ciel sereno, un nome balenò nella sua mente:

Edward.

Si avvicinò al quartiermastro per chiedergli notizie sul Capitano, ma lui la precedette: «Miss Elizabeth, chiedo scusa per lo spavento. Salite su una scialuppa e remeremo fino all’America, non siamo molto lontani.»

La ragazza non si curò molto delle sue parole. «Dov’è il Capitano?»

Non riuscì a decifrare l’espressione del quartiermastro. L’uomo stava realizzando qualcosa in quel momento, qualcosa che gli dispiacque ma che classificò subito come inevitabile; si trovò in difficoltà, non sapendo come risponderle. Non voleva mentirle, ma non era bravo con le parole.

«Miss Elizabeth, salite su una scialuppa» ripeté. «Mettetevi in salvo.» Poi, per sfuggire alla conversazione, si allontanò gridando ordini su come calare correttamente le scialuppe in mare.

Elizabeth non capiva il perché della sua riluttanza nel dirle dove si trovasse Edward, ma aveva un brutto presentimento; decise che non sarebbe salita su una scialuppa se prima non l’avesse trovato.

Scese sottocoperta e iniziò dalla parte più bassa della nave: la carena. Non riuscì ad accedere alla stiva perché era già totalmente inondata; inoltre scorse l’iceberg all’interno, e la sola vista di quell’enorme pezzo di ghiaccio le fece fare retromarcia terrorizzata. Chiaramente il Capitano non si trovava lì.

Con il cuore che batteva ancora fortissimo dopo la vista dell’iceberg, aprì ogni camera. In alcune delle prime trovò dei pirati intenti a prendere la loro roba per portarla nelle scialuppe, i quali non badarono affatto a lei.

«Edward? Sei qui? Qualcuno ha visto il Capitano?» continuava a chiedere; non ricevette risposta, tranne che qualche borbottio distratto: «Va’, ragazzina, trovati una scialuppa e va’.»

Quando ormai nessuno più si trovava sottocoperta, lei stava ancora cercando. Ogni camera che apriva, la sua ansia e la sua disperazione aumentavano; si ritrovò a ripetere il nome di Edward con la stessa frequenza con cui inspirava ed espirava. Solo quando fu assolutamente certa che non l’avrebbe trovato in nessuna delle camere, salì al piano di sopra, dove si trovavano gli alloggi dei membri dell’equipaggio coi gradi più alti. Sperò vivamente di trovare qualcuno di loro lì: magari avrebbero dato risposte più precise del quartiermastro, o magari avrebbe trovato il Capitano stesso.

Aprì la camera del nostromo: nessuno al suo interno. Il panico s’impossessò di nuovo di lei; ricominciò a ripetere il nome di Edward ad ogni passo. La camera del timoniere: vuota. Quella dell’ufficiale di rotta: vuota, così come quella dell’ufficiale di bordo. Nemmeno si accorse di aver cominciato a piangere per la frustrazione. Aprì quella del quartiermastro senza alcuna aspettativa: vuota pure quella.

In preda allo sconforto, non le restò che controllare l’ultimo piano sottocoperta: la sua ultima speranza era che Edward si trovasse nel suo ufficio, l’ufficio del Capitano. Si trascinò per le scale e si appese alla maniglia della porta.

Lì trovò Edward, seduto per terra, con lo sguardo perso nel vuoto e un polso ammanettato al timone. L’ufficio del Capitano si trovava a metà tra il centro della nave e la prua, quindi l’acqua era già entrata: ad Edward arrivava al petto; a Elizabeth, che era in piedi, arrivava alle ginocchia.

Quando il Capitano la vide entrare, non si sorprese più di tanto. Le parlò con un sorriso – più un ghigno – che mostrava tutto tranne che felicità: «Sapevo che saresti venuta.»

Elizabeth, nonostante l’avesse trovato, era ancora in preda alle lacrime e alla disperazione più totale; quel brutto presentimento che aveva avuto sul ponte non l’aveva mai abbandonata, perché sapeva che nessuno aveva ammanettato Edward al timone, sapeva ch’era stato lui stesso a farlo.

Si mosse a fatica nell’acqua, guardandosi intorno, non sapendo neanche lei cosa stesse cercando. «Non perdere tempo a cercare la chiave» disse Edward, e prestando attenzione si sarebbe potuta scorgere un’impercettibile nota di divertimento nella sua voce. Solo per contraddirlo, Elizabeth si mise a cercarla, anche se in fondo stava solo spostando oggetti e piccoli mobili galleggianti; sarebbe stato impossibile trovarla davvero, la stanza era per un quarto sommersa.

Rinunciò alla ricerca della chiave, ma pareva non poter rinunciare a muoversi freneticamente – al contrario dei pirati sul ponte qualche minuto prima, i quali davano l’impressione di un caos ordinato, lei, da sola, creava più confusione visiva di mille uomini; s’arrestò solo nel momento in cui cadde in ginocchio davanti a Edward e gli gettò le braccia al collo, la voce rotta dal pianto: «Perché?»

Il Capitano le passò un braccio dietro la schiena, in una stentata imitazione di un abbraccio; la sua voce era calma: «Affonderò con la mia nave.»

La ragazza, nonostante fosse già inconsapevolmente a conoscenza di cosa implica il codice d’onore degli uomini di mare, si abbandonò a un pianto inconsolabile, aggrappandosi a lui con tutta la forza che possedeva. Quando la disperazione le diede leggermente tregua, un’immagine apparve nella sua mente: si vide qualche anno più tardi, seduta su una sedia, con i suoi bambini attorno, figli di un uomo che non era Edward. Lo leggeva chiaramente nella sua stessa faccia: non era felice, non sarebbe riuscita a essere felice senza di lui.

Elizabeth non era mai stata estremamente determinata; si era sempre adattata al corso naturale degli eventi, senza fare nulla per cambiarli. Ma, in quel momento, chiunque avesse guardato i suoi occhi avrebbe letto in essi una risolutezza quasi innaturale per la sua giovane età.

Edward – il quale, prima di legarsi al timone, aveva bevuto un’intera bottiglia di rum e in più si trovava in una specie di trance premorte – quando Elizabeth sciolse l’abbraccio e lo guardò leggermente accigliata, con l’espressione di chi è a un passo dal realizzare qualcosa di ovvio, pensò che stesse semplicemente osservando il suo viso per fissarlo meglio nei ricordi prima di andarsene.

In effetti, Elizabeth ne approfittò per contemplarlo come aveva fatto altre volte: ammirò i suoi occhi azzurri, la pelle chiara, i ciuffi biondi che fuoriuscivano dal cappello da pirata. Solo che, per quanto riguardava ciò che aveva in mente, Edward era completamente fuori strada.

La ragazza si alzò e riprese a guardarsi intorno, muovendosi a fatica nell’acqua, spostando oggetti e aprendo mensole. Il Capitano sospirò: «È inutile: non troverai la chiave, Elizabeth.»

Ma lei non stava cercando la chiave. Non seppe quale divinità ringraziare quando dopo diversi secondi, in quella caotica cabina semi-allagata, trovò quello che cercava.

Tornò in ginocchio di fronte a Edward, e solo in quel momento, quando vide ciò che Elizabeth aveva in mano e realizzò cos’avesse intenzione di fare, il Capitano si risvegliò da quella specie di trance.

«Elizabeth, cosa stai facendo?» le chiese, allarmato, ma la ragazza non l’ascoltava. Era un altro paio di manette ciò che aveva in mano; mise uno dei due braccialetti al proprio polso, poi prese quello libero di Edward, il quale oppose resistenza: «Elizabeth, ferma, che vuoi fare?»

Riuscì a infilarlo al polso di Edward, ma al momento di chiuderlo esitò: la determinazione che aveva avuto fino a quel momento svanì, e Elizabeth iniziò a tremare; la paura della morte per un attimo la sovrastò. Poi guardò di nuovo Edward, pensò a un’intera vita vissuta senza di lui, si chiese dove avrebbe trovato la forza per voltargli le spalle lasciandolo per sempre lì, con quale forza si sarebbe allontanata su una scialuppa di salvataggio mentre lui affondava verso un’eternità trascorsa sul fondo dell’Oceano, con quale coraggio avrebbe più guardato il mare sapendo che il suo amato...

Aveva più forza e coraggio per fare questo.

«No, Elizabeth, no!» Tentava disperatamente di dissuaderla, ma lei continuava a non ascoltarlo.

«Se affonderai con la tua nave, io affonderò con te» gli disse con voce tremante, e fece scattare i ferri.

 


Ebbene, questa cosa struggentissima è nata dopo aver rivisto il buon vecchio Titanic di Cameron, mischiando la scena in cui Rose cerca di liberare Jack ammanettato ai tubi e quella in cui il capitano Smith si ritira nella sala comando durante l’inabissamento della nave. È piena di riferimenti ad altre opere che citerò onde evitare accuse:

– la battuta di Elizabeth “Se affonderai con la tua nave, io affonderò con te” è un riferimento alla famigerata “Salti tu, salto io” di Titanic.

– il nome di Elizabeth è un riferimento ad Elizabeth Swann di Pirati dei Caraibi interpretata dalla splendida Keira Knightley.

– il nome di Edward è un riferimento al pirata Edward Kenway protagonista di Assassin’s Creed IV: Black Flag (se avevate pensato a Edward Cullen mi offendo).

– anche il tempo in cui affonda la nave (un’ora) è quello inizialmente stimato in Titanic, anche se poi effettivamente il vero Titanic ne impiegò quasi tre a inabissarsi completamente. Mi pareva un tempo perfettamente adatto per lo svolgersi degli avvenimenti.

Detto questo, ringrazio immensamente chiunque si sia spinto a leggere fino alla fine – e se aveste voglia d’insultarmi in una recensione per la tristezza che vi ho recato, sarete ben accetti.

Saluti ♥

   
 
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