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Autore: LaMicheCoria    07/10/2013    2 recensioni
«Perché guardi la pioggia, Clint?»
Natasha era dietro di lui da un tempo infinito e fantasmagorie di gocce disegnavano rigagnoli e ramificazioni metalliche sul vetro opaco di polvere.

[Post-Avengers] [Implied!Clint/Coulson]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scuse Senza Ritorno

 

Al Carson, quando pioveva, l’infrangersi dell’acqua sui tendoni era come lo schiocco della cuspide nell’imbottitura bianca e rossa del bersaglio.
Ci si rifugiava sotto il tessuto spesso, si ascoltava stretti stretti, nel freddo del vento, nel caldo odore di cerone, l’uggiolio infastidito del leone Marley, il frustare stizzito della coda sulla paglia imbevuta di gocce amarognole, di biocchi umidicci di polvere e piscio rancido. Mostrava le zanne, infastidito, e per Clint era come l’esplodere della pallottola nell’istante in cui il temporale le colpiva con un biancheggiare di lampo. Ruggito e tuono erano una danza armonica, si sovrapponevano e si fondevano, come il sudore dei clown e il risolino della Donna Cannone, come il nasino bagnato dei barboncini contro le caviglie e le manine delicate di Sally Dolly sulla fronte, le sue paroline bisbigliate all’orecchio, la ninna-nanna canticchiata in una melodia piccolina, sottile, così infinitesimale se comparata allo sdrucciolare scrosciante del fulmine, così potente e, oh!, così rassicurante nel cuore di bambino intirizzito dal terrore.
Quando l’Agente Coulson era venuto a prenderlo, Clint non era più in bambino, ma guardava ancora le pioggia e le manine delicate di Sally Dolly erano sempre sulla sua fronte, le sue paroline sempre bisbigliate all’orecchio, una melodia piccina di ansimi e bacetti, di brevi respiri e carezzine languide, occhietti grandi e ciglia sottili gonfie di mascara, nero di notte, violento e adulto sul visetto da bambolina.
Guardavano insieme la pioggia e Coulson era arrivato e il temporale aveva smesso con lui, con le dita aggraziate di Sally Dolly tese in avanti, oltre il tendone, il bel faccino contorto di lacrime, la boccuccia storta e grondante urla disperate, vene bluastre che palpitavano impazzite sul collo rigido, il vestitino insozzato di fango, il pizzo e i ricami ingemmati di schizzi marroni, una scarpina perduta più indietro, l’altra imbruttita di melma, le calzettine nivee butterate di fanghiglia.
Sulla Corvette rosso fiammante, Clint aveva raccolto le ginocchia al petto e aveva guardato l’asfalto divorato dai pneumatici con sguardo grigio e assente. Coulson, accanto a lui, gli aveva lanciato un’occhiata veloce, le dita della mano destra avevano avuto una contrazione come sul punto di lasciare il volante per appoggiarsi sulla sua spalla o sul suo ginocchio, ma Barton aveva rifiutato qualsiasi gesto stringendosi di più nelle braccia chiuse attorno al torace, incassando la testa tra i polsi incrociati. Aveva ricominciato a piovere e la bocca di Coulson si era sollevata un istante impercettibile, un sorriso trasportato dal sospirare del vento.
«Dovrebbe guardare la pioggia, Barton.»
Clint aveva piegato il viso nella sua direzione, la fronte corrugata.
«E perché, signore

 

 

 

 

 

«Perché guardi la pioggia, Clint?»
Natasha era dietro di lui da un tempo infinito e fantasmagorie di gocce disegnavano rigagnoli e ramificazioni metalliche sul vetro opaco di polvere. Erano passati anni e Sally Dolly era un fantasmino di pizzi e gonnelline danzanti, passettini precisi, aggraziati, delicati, una figurina da sogno sbiadita negli anni, una cartolina in seppia di anni vecchi e vecchi sorrisi e vecchi temporali e vecchi tendoni e leoni altrettanto vecchi.
Strano, pensò Clint, come la pioggia a Bedford-Stuyvesant sembrasse ancora più triste che ai tempi del Carson: la luce grigia tracimava dalla finestra sgangherata, lamelle opalescenti graffiavano in negativo le pareti, erano unghiate e striature impersonali nelle pieghe bucherellate delle tende, pozze incolori nell’incavatura del divano, ruscelli inariditi a colare dalla libreria ingolfata di fascicoli e spillati.
Pioveva da un po’, pioveva da tanto e Natasha, ogni volta che il cielo vomitava il proprio malanimo sul quartiere, era sempre dietro di lui, seduta a gambe incrociate sul tappeto color crema, le frange arrotolate tra i polpastrelli sempre in movimento. Era bianca come il lampo, una fiamma violenta di capelli rossi e labbra cremisi e non era una bambola, non era Sally Dolly, non aveva paroline e nenie e bacetti, ma andava bene, andava bene così, perché Natasha era salda come il tuono, e non sarebbe rimasta indietro, non avrebbe perso alcuna scarpetta e il sangue, il fango, la divisa chiazzata, lurida, l’avrebbero resa soltanto più forte e più bella, e le gocce battevano sugli infissi come nocche sul legno di una bara, come pale a violentare un cumulo di smosso, come terra gettata alla rinfusa su un feretro salutato con tutti gli onori.
«Sto aspettando che passi, Nat.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Perché la pioggia un giorno smetterà, Barton. E passerà, come passa il dolore.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

Passerà questa pioggia sottile come passa il dolore” (Hotel Supramonte – Fabrizio de Andrè)
E sì. C’è anche Lola.

   
 
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