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Autore: Angel with a broken wing    08/10/2013    1 recensioni
Long Thadastian/Klaine con Niff, Brittana, Finchel e Quick.
Sebastian e Blaine vivono insieme a New York. Il primo vuole essere avvocato, il secondo sogna di diventare il nuovo Tim Burton. Migliori amici, si ritroveranno immersi in una serie di circostanze che li porterà ad una felicità circondata dal dolore.
Kurt condivide l'appartamento con Rachel e Santana, sue migliori amiche, e abita di fronte a Thad, cugino dell'ultima, aspirante fotografo. Quando i demoni del loro passato torneranno a far loro visita, capiranno perché si dice che "non tutti i mali vengono per nuocere" e troveranno l'amore.
Ma i problemi, quelli ci sono sempre. Varrà la pena di lottare?
Tra strani incontri, brutti ricordi, bugie, pianti e eventi imprevisti, troveranno la risposta.
Tratta di argomenti piuttosto delicati che tuttavia ho cercato di narrare non troppo pesantemente. Spero di avervi incuriosito!
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Thad Harwood | Coppie: Blaine/Kurt, Sebastian/Thad
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1

First time is an accident

 

Blaine era a cavallo dell'essere più maestoso che avesse mai visto. Il manto lilla risplendeva dove i raggi di quel sole che stava tramontando lo colpivano, e la folta criniera viola svolazzava, solleticandogli il viso. Un lungo corno a spirale, che partiva dalla fronte della creatura, puntava verso nord, dove un arcobaleno faceva capolino dal nulla, per poi terminare in un chiosco di zucchero filato. Improvvisamente, l'essere virò a ovest, e la luce del sole lo abbagliò.

Ci mise un po' per accorgersi che aveva sognato tutto. Ci impiegò ancora di più per capire che quello che aveva davanti non era un unicorno viola, ma un ragazzo vestito di lilla, che quella che gli faceva il solletico alla faccia non era una criniera ma la sciarpa che il ragazzo indossava, che non stava cavalcando ma Sebastian lo stava scuotendo per svegliarlo e che l'arcobaleno che finiva su un chioschetto di zucchero filato non era altro che il cartellone pubblicitario che si vedeva dalla sua finestra. Mugolò la sua disapprovazione e si coprì la testa con il cuscino, girandosi su un lato per evitare di avere il sole negli occhi. A quel punto Sebastian si stancò; prese il primo libro che gli capitò a tiro e cominciò a colpire forte Blaine, per incitarlo ad alzarsi.
    «Scendi - da questo - accidenti - di letto!» urlò, intervallando le parole con delle librate.
    «Ehi, ehi, piano, fermati! Si può sapere che diavolo ti prende?!» chiese Blaine, con la voce impastata dal sonno e le mani alzate, pronte a fermare un altro eventuale attacco dell'amico.
    «Che mi prende?!» Lo sguardo che Sebastian gli lanciò sembrò in grado di incenerirlo. «Mi prende che tra mezz'ora parte l'aereo e tu sei ancora a letto!»
    «Cosa? Che diavolo stai dicendo, l'aereo non partirà prima di mezzogiorno» appena finì di dire la frase, Blaine spalancò gli occhi e guardò l'orario sul suo cellulare. Sebastian aveva ragione, per quanto detestasse ammetterlo. Saltò giù dal letto ad una velocità disumana e corse a vestirsi, indossando gli unici abiti ancora fuori dalla valigia. Si mise in tasca il portafogli e il cellulare, correndo verso l'ingresso con Sebastian al seguito. Diede una veloce occhiata al suo riflesso nello specchio accanto alla porta e...
Cazzo.
I capelli.
Si fermò a guardare quella massa annodata e informe che aveva in testa con uno sguardo terrorizzato. Si fiondò in bagno, sperando di trovare un po' di gel da qualche parte, l'unica arma che potesse usare contro quel disastro. Trovò un barattolo quasi vuoto, con giusto quel po' di gel che gli serviva per tenere a bada i ricci fino all'arrivo a New York. Si sistemò meglio che poté, sotto lo sguardo divertito - per chissà quale oscura ragione - di Sebastian, e mentre stava per uscire si chiese di sfuggita perché i suoi genitori non fossero davanti alla porta in lacrime pronti per uno di quei saluti strappalacrime che si vedono nei film e che gli riservavano ogni volta che doveva ripartire.
Appena mise un piede fuori dalla porta, si accorse che qualcosa non quadrava; non c'era nessuno per strada, le case dei suoi vicini avevano ancora le finestre chiuse e il sole era troppo in basso per essere sorto da cinque ore. Non poteva essere più tardi delle sei e mezza di mattino.
    «Sebastian...» mormorò, socchiudendo gli occhi nel tentativo di resistere dal prendere a pugni il ragazzo che, dall'espressione che aveva assunto, sembrava stesse ricorrendo a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a ridere. «Che ore sono?»
    «Sicuro di volerlo sapere?» ridacchiò l'altro, per niente intimorito dall'occhiataccia di Blaine.
    «Sebastian...» ripeté, con un tono ancora più minaccioso di prima. Quell'idiota gli aveva cambiato l'orario sul telefono. L'aveva svegliato alle sei e mezza di mattino solo per giocargli uno dei suoi soliti, infantili scherzi. «Corri.»
    «Avec plaisir» rispose lui, sorridendogli con aria innocente e dandosela a gambe.
    «Uno... Due...» cominciò a contare Blaine. Al tre scattò anche lui, partendo all'inseguimento di quello che era diventato, ancora non capiva come, il suo migliore amico.
    Come tutte le altre volte in cui avevano fatto quelle maratone, si ritrovarono seduti all'unico bar di Westerville vagamente degno di essere definito tale, il Kickstand, con il fiato corto e la voglia di un caffè triplo. Quel locale apriva sempre prestissimo, per loro fortuna.
    «Sei un idiota» sussurrò Blaine, dopo aver ripreso a respirare regolarmente.
    «Sono comunque più intelligente di te» lo prese in giro l'altro, sorridendo cortesemente alla cameriera appena arrivata al loro tavolo con un taccuino in una mano e una penna nell'altra. Non l'avevano mai vista prima. A quanto pareva, dall'ultima volta in cui erano stati lì avevano cambiato parte del personale.
    «Buongiorno ragazzi. Cosa vi porto?» chiese lei, guardando prima Sebastian e poi lui. Sembrava simpatica. Peccato: a Blaine sarebbe piaciuto conoscerla. Lanciò un'occhiata all'amico, che sembrava stesse pensando la stessa cosa.
    «Due caffè, un piatto di pancakes, sciroppo d'acero a parte, e uno di uova e bacon» Blaine aveva ripetuto quell'elenco decine - no, centinaia - di volte nel corso degli anni. Lo rassicurava pensare che, nonostante lui e Sebastian avessero cambiato vita, città e casa, qualcosa fosse rimasto immutato, sebbene fosse solo quello che mangiavano a colazione.
    «Arriva subito.» La ragazza si congedò con un altro sorriso e sparì dietro al bancone.
    «Sai, ho pensato ad una cosa» incalzò Sebastian, destando la curiosità - e la preoccupazione - di Blaine. Le idee di Sebastian raramente promettevano qualcosa di buono.
    «Sarebbe?»
    «Be', ecco, ormai è parecchio tempo che abitiamo in quel grande appartamento a New York... Grazie» cominciò, ringraziando la cameriera quando gli mise davanti il caffè e le uova e il bacon. Aspettò che se ne andasse, e continuò. «E dal momento che tu lavori tutto il giorno e io sto ancora cercando un impiego, mi annoio a stare in casa da solo...»
    Blaine sbuffò sarcastico a quelle parole. Sebastian non stava cercando un lavoro: stava aspettando che questo trovasse lui. Nel frattempo viveva con i soldi che i suoi genitori gli mandavano dalla Francia, dove vivevano da circa cinque anni - Sebastian era tornato in America quasi quattro anni prima. A Blaine non dava fastidio questo; dopotutto, anche per lui, all'inizio, era così. Ma non sopportava che Sebastian ancora non si prendesse le responsabilità che implicavano l'andarsene di casa e il crescere. Continuava a dipendere dai suoi genitori.
    «... così, ho pensato che avremmo potuto adottare un gatto.» Sebastian si spostò di lato giusto in tempo per evitare che il caffè che Blaine aveva sputato a quelle parole gli rovinasse i vestiti. Blaine tossicchiò, e quando finalmente riprese la facoltà di parlare, gli urlò addosso.
    «MA SEI MATTO?!» chiese. «Tu vuoi adottare un gatto quando la responsabilità più grande che ti sia mai preso fin ora è stata chiamare l'idraulico quando avevi intasato il water gettandoci dentro la spugna della doccia e tirando l'acqua?!»
    «Non sapevo dove andasse buttata... Comunque, questa volta è diverso. Dovrei prendermi cura di una vita, darle da mangiare, farla giocare, insegnarle a non farsi le unghie sul divano...»
    «Pulire cacca, pipì e vomito, insegnarle che deve fare i suoi bisogni fuori anziché dentro casa, non farla arrampicare sui mobili, non farle rompere vasi o soprammobili, non farla venire nella mia camera da letto di notte... Non guardare solo gli aspetti positivi.»
    «E tu non guardare solo quelli negativi! Sono cose che potrei gestire tranquillamente. Minerva sarà un'ottima coinquilina, vedrai.»
    «Minerva...? Vuoi chiamare un gatto Minerva?!»
    «È una gatta. Sì, voglio chiamarla Minerva. Minny, per gli amici. Dovresti vederla, quel nome le sta proprio bene...»
    «Aspetta, cosa? Vederla? Tu hai... Tu l'hai già presa?!»

***

Accettare di tenere quel gatto fu una delle idee peggiori che Blaine potesse avere. Sebastian si era attenuto ai patti, questo doveva concederglielo, ma a quanto pareva, da due mesi a quella parte, la gatta aveva imparato ad odiarlo. Ascoltava solo Sebastian e voleva bene solo a lui; non appena Blaine tentava di accarezzarla, Minerva gli piantava le unghie nella mano e se ne andava stizzita con la coda ritta, tipico dei gatti domestici viziati. Quando, finalmente, il suo turno di commesso al Fairway Market finiva e rientrava in casa con la sola voglia di mangiare, farsi una doccia e andare a letto, quella peste gli si arrampicava su per i pantaloni e poi per la maglia, fino ad accovacciarsi sulla sua spalla, guardandolo famelica in attesa della cena e di andare sulla terrazza per la rinfrescatina serale. Tutti i giorni, sempre alla stessa ora. Blaine aveva cominciato a chiedersi da quando i gatti fossero così intelligenti. Fatto stava che, già distrutto per il lavoro, doveva anche eseguire gli ordini di Minerva, senza sognarsi nemmeno di ignorarli - l'aveva fatto già una volta e i graffi che si era ritrovato sulle braccia gli erano serviti da lezione.
    Oltre alla gatta, Blaine odiava anche il suo lavoro. Era commesso in un supermercato sull'ottantaseiesima strada; già come impiego era improponibile, per un ragazzo che sognava di diventare il nuovo Tim Burton, e in più lo stipendio era troppo basso per quegli orari sfiancanti. Iniziava il turno alle sette e finiva dodici spossanti ore dopo. Ma non voleva ridursi come Sebastian, non voleva che i suoi continuassero a pagargli da vivere; doveva cavarsela da solo. E, per allora, il lavoro al Fairway era tutto ciò che passava in convento.
    Era seduto sul divano; stava guardando Sebastian pulire la cassetta di Minerva, mentre questa, alla ricerca di più attenzioni, girava intorno al collo di Blaine piantandogli le unghie dove meglio poteva.
    «Cosa ordiniamo per cena?» chiese, quando i morsi della fame cominciarono a farsi sentire.
    «Quello che vuoi» rispose l'altro, riempiendo la lettiera pulita della sabbia apposita. «Ma non cinese, l'abbiamo mangiato anche ieri.»
    «Sushi, allora. Vado io! Non sopporto più questa cosa» disse, riferendosi alla gatta, che in risposta, neanche avesse capito quello che aveva detto, miagolò e gli infilò le unghie nel collo, provocando un verso infastidito da parte di Blaine, che scese veloce dal divano e andò a prendere portafogli e chiavi.
    «Cosa?!» esclamò Sebastian, indignato. «Questa micetta è l'esserino più dolce e buono di questo mondo! N'est-ce pas, ma petite
    «Bello schifo» disse ironico Blaine, alzando gli occhi al cielo; aprì la porta e subito venne travolto dal caldo afoso di una New York di fine agosto. Sarebbe andato a piedi, ovviamente; il Sushi Wok più vicino era all'angolo tra l'ottantottesima e la Second Avenue, valeva a dire a soli due isolati da casa loro.
    Arrivò pochi minuti dopo e, attendendo che la breve coda scorresse, si mise dietro un ragazzo poco più alto di lui, castano e con un sedere da favola. A pensarci, quel sedere era davvero da favola. Talmente da favola che non riusciva più a distogliere lo sguardo. E non gli sarebbe importato granché se la gente l'avesse guardato male, quel fondoschiena sembrava essere stato scolpito nel marmo dagli dei stessi. Quei pantaloni, poi, non lasciavano spazio all'immaginazione; attillati, sexy, lo avvolgevano come se fossero stati creati apposta per quello. Non gli sarebbe importato nemmeno se il proprietario fosse stato brutto o antipatico; avrebbe sopportato di tutto, pur di anche solo toccare quel ben di Dio. Ne sarebbe valsa decisamente la pena.
    Venne distratto dai suoi pensieri quando Mr. Ho-Un-Fondoschiena-Che-Farebbe-Sbavare-Anche-Un-Omofobo parlò, riferendo la propria ordinazione alla commessa. La sua voce era anche meglio del suo sedere. Era acuta, musicale, dolce. Era sicuro che fosse bravo a cantare; sarebbe stato un controtenore, non c'era alcun dubbio. Più unici che rari, i controtenori. Quel ragazzo sembrava avere sulla testa delle insegne a neon che illuminavano a intermittenza la scritta “SCOPAMI”. Blaine non si era mai sentito tanto attratto da uno sconosciuto - e nemmeno da un conoscente, per la cronaca - prima di allora.
    Lo vide tirare fuori dalla tasca di quei pantaloni indecenti il cellulare e immaginò che stesse leggendo un messaggio; poco dopo si girò e agitò la mano verso la vetrina, sorridendo.
    Quella fu la fine, per Blaine.
    Dimenticò il sedere, la voce e tutto intorno a lui, perché niente poteva reggere il confronto con quel viso. Con quegli occhi. Azzurri, profondi, illuminati dal sorriso che stava rivolgendo alla persona che, secondo Blaine, era la più fortunata del mondo. Il ragazzo abbassò lo sguardo e lo incrociò con il suo. Si guardarono negli occhi per un tempo che a Blaine parve infinito, ma comunque troppo breve. Gli sembrava che quando gli occhi di uno si erano immersi in quelli dell'altro, si fosse creato un legame tanto forte da sembrare addirittura tangibile, come un filo invisibile che li univa.
    Ma la commessa chiamò il ragazzo consegnandogli la sua ordinazione, e quando i due interruppero il contatto visivo, non senza un certo imbarazzo, Blaine si sentì quasi vuoto.
    Lo guardò uscire dal Sushi Wok e andare verso una ragazza mora e bassa, che, pensò Blaine, doveva essere la stessa persona che aveva salutato poco prima. Chissà chi era? La sua ragazza, forse. In effetti, non aveva ancora pensato che quel dio potesse essere etero. Sarebbe stato un grandissimo spreco.
    Ordinò, e qualche minuto dopo uscì, sperando vagamente di ritrovare quel ragazzo, ma sicuro che non sarebbe successo. E così, mentre tornava a casa, decise che l'avrebbe rivisto, prima o poi. Non sapeva dove, né come, né quando, ma sapeva che sarebbe successo.
L'avrebbe trovato.




​ANGOLO DELL'AUTRICE:
Salve a tutti :) Allora, prima di tutto vi avverto: non sarò regolare con gli aggiornamenti, perché fin ora ho scritto solo questo capitolo, anche se la storia ha già forma nella mia testa. Questa settimana cominceranno le interrogazioni e devo studiare un sacco. In più il mio computer è rotto, quindi dovrò sia scrivere che aggiornare con l'iPad, e non è il massimo.
Un'altra cosa: questa storia sarà praticamente una raccolta di cliché. Sul serio. Se cercate qualcosa di originale o comunque un po' particolare, siete nel posto sbagliato, LOL.
Il POV sarà di Blaine o di Sebastian, dipende dai casi.
Che altro dire? Be', sono Valentina, piacere.
Pretty, pretty please, fatemi sapere cosa ne pensate, se vi piace o meno, con una recensioncina. Mi farebbe davvero molto piacere. Baci,
Lucifero
P.S.: Scusate se il capitolo è un po' cortino; prometto che gli altri saranno più lunghi.
  
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