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Autore: arya_stranger    10/10/2013    3 recensioni
“Non ho mai conosciuto i miei genitori, né una nonna, o uno zio, nessuno, la mia famiglia semplicemente non esiste, o comunque non esiste per me. […] Sono un orfano, e allora? Questo non da a nessuno il diritto di considerarmi un disgraziato che è cresciuto così come andava, perché non è vero, non è assolutamente vero.”
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando dico che amo la mia vita la gente mi guarda come se avessi bestemmiato, come se avessi appena detto che è la Terra che ruota intorno al Sole, e non viceversa. Eppure è così, e io non posso farci nulla.
Non ho mai conosciuto i miei genitori, né una nonna, o uno zio, nessuno, la mia famiglia semplicemente non esiste, o comunque non esiste per me. Non che non abbia qualcuno da considerare tale, assolutamente no. Però non ho mai avuto la figura fissa di una madre o di un padre biologici, ma la cosa non mi è mai pesata più di tanto.
Da quando ho memoria ho sempre vissuto in questo luogo. Non so esattamente a che età io ci sia arrivato. Quasi mi sembra di abitarci da sempre fra quelle mura. Ogni singolo momento che ricordo della mia vita è ambientato in quell’edificio, che col tempo ho imparato a chiamare e considerare casa.
Come ho già detto, questo fatto non è mai stata un onero da sopportare, ma se qualcuno mi chiedeva di riportare ciò alla mente, mi dava fastidio e mi entrava una sensazione come di smarrimento, la certezza di un vuoto che comunque ci sarà sempre e mi accompagnerà eternamente.
Non mi devono compatire, non ha senso, io non voglio essere compatito e sento che alla fine non c’è nemmeno un motivo. Sono un orfano, e allora? Questo non dà a nessuno il diritto di considerarmi un disgraziato che è cresciuto così come tirava il vento, perché non è vero, non è assolutamente vero. Io sono cresciuto con tutto l’affetto che si possa sognare e non lo sostituirei con nulla al mondo, nemmeno con la mia vera famiglia, mai. Perché? Perché i genitori non sono quelli che ti mettono al mondo, ma sono quelli che ti crescono. E’ questa la verità, non ce n’è un’altra più effettiva.
Lucy e Jason decisero di creare un orfanotrofio dopo che a lei venne detto che non avrebbe potuto avere bambini. Mi hanno raccontato che era disperata e aveva perso fiducia nel mondo. Suo marito Jason le propose di comprare una casa grandissima e di accogliervi tutti i bambini e i ragazzi che non avevano nessuno con cui vivere. Alla fine è quello che sono riusciti a fare.
Comprarono una bellissima casa vicino al mare, i soldi non erano un problema, e diedero vita ad una casa-famiglia. Non l’ho mai chiamato orfanotrofio, anche se in realtà è quello che è. Ho sempre preferito riferirmi a quel luogo come alla mia casa, e Lucy e Jason hanno sempre fatto in modo che fosse così. Da piccolo, se non riuscivo a dormire, Jason andava a dormire nelle mia camera, e io potevo passare la notte con Lucy che cantava per cercare di farmi dormire. Quando avevo la febbre mi preparavano sempre la cioccolata calda e io passava tutto il tempo sul divano con i cartoni animati accesi e la bevanda calda fra le mani. Mi sentivo coccolato, amato e soprattutto considerato. Mi ricordo una volta che sulla spiaggia ero scivolato su uno scoglio, mi sbucciai tutto il ginocchio. Lucy mi prese in braccio e mi portò a casa. Una volta arrivati mi fece sedere sul tavolo della cucina e mi soffiò delicatamente sulla ferita, poi mi mise un cerotto con dei cani stampati sopra. Ho sempre voluto un cane, ma tutte le volte che ne chiedevo uno a Jason, mi diceva che aveva anche troppe pesti a cui badare. Alla fine, per il mio settimo Natale, li convinsi a prendere un gatto. Lo chiamai Luke, era tutto bianco con una macchia caramello sulla testa. Da quando avevano comprato quell’animale, le mie giornate consistevano nel stare tutto il tempo ad accarezzarlo e a farlo impazzire correndo per tutta la casa. Se facevo troppa confusione Lucy mi gridava dalla cucina di fare più piano e io allora prendevo Luke in braccio e lo portavo fuori.
Luke morì presto, troppo presto, a soli otto anni, quando io ne avevo quindici. Non piansi, ero troppo grande per farlo, ma per la settimana seguente, dopo essere tornato da scuola, passavo tutto il tempo che avevo, accucciato accanto all’aiuola delle margherite, dove avevamo deciso di seppellirlo. Stavo davvero male, ma non lo davo molto a notare, non sarebbe stata una buona idea. Se da piccolo esprimevo tutto quello che provavo, più crescevo più tendevo a tenermi tutto dentro, fino a scoppiare. E quando scoppiavo distruggevo qualsiasi cosa si trovasse nel raggio di qualche metro. Lucy e Jason, se non esageravo, mi lasciavano stare, sapevano che avevo bisogno di sfogarmi e conoscevano molto bene il mio carattere.
C’è un ricordo speciale, però. Una di quelle memorie che non puoi raccontare nei dettagli agli altri, semplicemente perché sarebbe come regalar loro un pezzo del tuo cuore. E se il cuore non è tutto intero non puoi sopravvivere.
Nonostante fosse aprile, era una mattina gelida. Jason ci portò a scuola come tutti i giorni con il furgoncino. Non ero stato attento un secondo a scuola, ero troppo curioso di tornare a casa per ricevere il mio atteso regalo. Quando suonò la campanella, saltai letteralmente fuori dalla classe e mi precipitai fuori, dove Jason ci aspettava. Mi sedetti sul sedile anteriore, accanto a lui, e aspettai che ci fossero tutti per poter finalmente andare a casa.
Una volta nella mia stanza gettai lo zaino a terra e mi resi conto che qualcosa non tornava. Da sempre la mia camera era stata solo mia. La casa era così grande che io, essendo stato uno dei primi, se non il primo bambino ad essere ospitato lì, avevo uno spazio tutto mio, e anche piuttosto ampio. Quel giorno, tornato da scuola, notai che era stato aggiunto un letto accanto al mio. Rimasi a guardare per un attimo impietrito, quando sentii la porta che dietro di me si apriva lentamente. Mi voltai e vidi che piano piano dalla porta marrone di legno spuntava una bambino. Era piccolo, davvero minuto, aveva i capelli lisci e scuri tutti scompigliati davanti agli occhi e mi arrivava non più su della spalla.
“Ciao” feci tranquillo. Il bambino entrò, si chiuse la porta alle spalle, e si sedette su quel nuovo letto, che a quel punto intuii essere suo.
“Ciao” mi rispose abbassando la testa.
Io mi sedetti sul mio materasso avvolto dal piumino blu, in modo da poterlo guardare in faccia. “Come ti chiami?” chiesi curioso.
Lui alzò la testa con calma e si scostò malamente i capelli dalla fronte, scoprendo due grandi occhi nocciola. “Mi chiamo Frank.” La sua voce era quella di un normalissimo bambino, ma dentro nascondeva una nota di tristezza, quella che nessuno dovrebbe avere da così piccolo.
“Perché sei qui?” Avevo posto la domanda con davvero poco tatto, ma avevo dieci anni,  queste cose i bambini non le capiscono bene.
Frank riabbassò la testa e la sua faccia fu ancora una volta occultata dalla sua chioma.
Rimasi in silenzio con lui per molto tempo. Non so esattamente quanto, alla fine mi alzai e mi sedetti vicino a lui.
“Io sono Gerard” esordii con tutta la leggerezza del mondo.
Vidi spuntare un debole sorriso sulle sue labbra e continuai a parlare, in modo che prima o poi voltasse lo sguardo verso si me. “Ho dieci anni, e vivo qui da sempre. Tu sei nuovo, vero? Da quanto sei arrivato? Ieri non c’eri.” La raffica di domande parve spaventare Frank, che finalmente si decise a rispondermi.
“Io ho sei anni, sono arrivati qui stamattina, mi hanno detto che starò bene in questo posto” mormorò.
Io gli sorrisi. “Starai benissimo, io adoro stare qui. Lucy e Jason sono bravissimi!” esclamai.
Riuscii a strappargli un sorriso sincero.
“Lucy mi ha detto che oggi è il tuo compleanno.” Osservò, “Mi ha chiesto di darti questo.”
Frank infilò la testa sotto il suo letto e dopo aver trafficato con le mani per un po’, riemerse con un pacchetto colorato in mano.
Lo presi delicatamente dalle sue piccole dita e lo rigirai fra le mie per un po’.
“Non lo apri?” mi invitò lui impaziente.
Annuii e strappai velocemente la carta azzurra che mi separava dal mio regalo.
Poggiai delicatamente sul letto quell’oggetto che per me non aveva valore. Era una scatola da trentasei matite, erano delle bellissime matite colorate che averi potuto usare per fare tutti i miei disegni. Non avrei potuto desiderare di meglio.
“Ti piace?” mi chiese Frank. “L’abbiamo comprato io e Lucy mentre venivamo qui.”
Non riposi, non avevo davvero parole.
Proposi a Frank di disegnare un po’ con me e lui accettò volentieri.
Ci sedemmo alla scrivania. C’era ancora solo una sedia, e ci dovemmo arrangiare. Comunque eravamo piccoli e lui era davvero un scricciolo.
Presi dei foglio bianchi da un cassetto e tirai fuori le matite dalla scatola.
Rimasi un po’ a pensare e cosa creare coi colori. Vidi Frank che cominciava a tracciare qualcosa sul foglio, ma sinceramente nemmeno a lavoro concluso riuscii a capire che cosa cavolo avesse avuto intenzione di disegnare. Va bene che aveva solo sei anni, ma nemmeno dopo le sue doti migliorarono.
Da quel giorno la mia vita cambiò completamente, stavamo sempre insieme, eccetto quando a scuola avevamo lezione, e visto che avevamo due età differenti, eravamo in classi diverse.
Col tempo riuscimmo a convincere Lucy e Jason a farci tornare a casa da soli. Dopo tutto la scuola non era molto distante e ci si arrivava con poco più di venti minuti di camminata. Quello era il momento della giornata che preferivo in assoluto, eravamo solo noi due con i nostri pensieri. Passavamo sempre per strade secondarie in modo da non incontrare nessuno, e se era tempo bello ci fermavamo anche a prendere un gelato in un chiosco lungo il tragitto. Era tutto perfetto, non potevo desiderare altro: una casa, due persone che si prendevano cura di me, e Frank.


 
***


Una piccola luce filtrava ancora attraverso le finestre chiuse. Guardai l’orologio appeso alla parete, erano le sei del pomeriggio. In quelle giornate invernali faceva buio presto e, a dire la verità, amavo quel particolare aspetto di quella stagione.
Quando tornavo da scuola, in quei giorni, si sentiva un’aria fredda e pungente, quella che ti entra nelle ossa, e il sole già basso mandava una luce tenue, che rifletteva in cielo il viola e l’azzurro.
Quando cominciava ad essere tutto più scuro, raramente accendevo la luce, spesso e volentieri io e Frank rimanevamo al buio, distesi nei nostri letti a parlare di tutto e di niente.
Però in quel momento Frank non c’era, Lucy e lui erano andati a comprargli un nuovo paio di scarpe. Il giorno prima era infilato dentro una pozza piena di fango e anche se ci aveva messo tutta la sua buona volontà, Lucy non era riuscita a farle tornare almeno un minimo decenti.
Non ti aspetti che un ragazzo di quindici anni si infili in una pozza solo per il divertimento di farlo, ma quello era Frank, e allora era tutto normale. Quando però si era resto conto del disastro che aveva combinato, era rimasto malissimo, e avevo dovuto usare tutta la mia positività su di lui per convincerlo che Lucy avrebbe trovato un modo per farle tornare come nuove. In effetti un modo l’aveva trovato, e il risultato era stato un viaggio in città.
Sorrisi ripensando a tutto il casino che aveva combinato in questi anni. Quando aveva dieci anni, aveva cercato di salvare un uccellino che era cascata dal nido. Si era arrampicato sull’albero sotto il mio sguardo vigile e dopo averlo rimesso al suo posto, non era più riuscito a scendere. Non volevo chiedere aiuto a Jason, si sarebbe arrabbiato, così salii io, con il risultato che alla fine caddi e Frank mi piombò addosso ridendo, mentre io cercavo di capire se avessi qualcosa di rotto.
Da piccolo non stava un secondo fermo e tutt’ora non riusciva a passare più di qualche ora calmo senza fare cazzate.
Feci un breve calcolo. Considerando che erano le sei, nel giro di un’ora massimo sarebbero dovuti ritornare.
Decisi che era inutile stare lì tutto il tempo a non fare nulla, e dopo aver lasciato un biglietto sul letto di Frank nel quale gli spiegavo dove mi avrebbe trovato, uscii di casa con la felpa più pesante che trovai e mi incamminai verso il mare.
Io amavo il mare, in particolare il mare d’inverno. A metà strada decisi che era davvero troppo buio e tornai velocemente indietro per prendere una torcia.
Ripercorsi tutto il tragitto verso la spiaggia correndo, finché non arrivai sulla riva. Mi sedetti sulla sabbia umida, senza preoccuparmi del fatto che molto probabilmente mi sarei bagnato tutti i jeans.
Mi ricordai che non avevo detto a Jason che uscivo. Poco male, se mi avesse cercato in camera avrebbe visto il biglietto che avevo lasciato a Frak, e comunque, avevo diciannove anni.
Nei piani originali di Lucy c’era quello di accogliere solo ragazzi fino ai diciotto anni, ma quella regola era cambiata velocemente. Non riuscivano a separarsi da noi e avevano deciso che potevamo restare lì quanto volevamo. Comunque sapevamo tutti che prima o poi avremmo preso ognuno le nostre strade.
Presi in mano una manciata di sabbia e me la feci scorrere fra le dite, finché non ricascò tutta per terra.
Poi, dopo essermi calato il cappuccio della felpa in testa, mi distesi completamente.
Chiusi gli occhi e cominciai a pensare, come facevo spesso.
Erano già passati otto anni pieni dal giorno in cui Frank era entrato nella mia vita, quella fredda mattina d’aprile. Il mio compleanno non era solo in giorno in cui compivo gli anni, era soprattutto il giorno in cui avevo conosciuto la persona più importante della mia vita. Per me Frank era questo: la ragione per cui mi alzavo la mattina.
Non avrei mai immaginato la mia esistenza senza di lui, semplicemente non aveva senso. Non riuscivo nemmeno a creare un’ipotesi nella mia testa di quello che avrei potuto fare, era genuinamente inconcepibile. Da soli eravamo come il pane senza la nutella o come un prato senza fiori: pressoché inutili.
Tutto questo valeva sia per me che per Frank, lui non me l’aveva mai detto che era così, ma io lo sapevo. Non avevo bisogno delle sue parole per averne la conferma, mi bastavano un sorriso o una parola per capirlo.
Cominciai a chiedermi che ore fossero. Quando riflettevo perdevo completamente la cognizione del tempo; tre minuti o mezz’ora mi sembravano la stessa cosa. Comunque decisi di rimanere lì, se non fosse venuto a cercarmi Frank, lo avrebbe fatto qualcun altro.
Mi alzai e cominciai a camminare lungo la spiaggia. Mi chinai e misi una mano nell’acqua gelida. Non l’avevo mai sentita così fredda, ma era quasi rilassante sentire le dita bagnate e quasi insensibili al contatto con quel liquido così gelido. Mi passai la mano bagnata fra i capelli. Era da un po’ che pensavo di tagliarli, ma Frank mi aveva pregato in ginocchio di non farlo per nessuna ragione al mondo. Non capivo perché gli piacessero così, cioè, anche io li preferivo un po’ più lunghi, ma cazzo, era un casino tenerli in quella maniera, il problema più grande era quando tirava vento. Comunque gli promisi che gli avrei solo tagliati un po’, quando avessero cominciato a minacciare di superarmi le spalle.
Feci scorrere la lampo della felpa fino a sotto il mento e infilai le mani nelle tasche profonde e calde.
Feci altri due passi, quando sentii una voce che mi chiamava. Mi allontanai dall’acqua per vedere chi mi stesse invocando. Sperai fosse Frank, ma non era la sua voce. Era Jason, ed era preoccupato.
“Gerard!” continuava a gridare.
Giunse di fronte a me. Aveva il fiatone e gli occhi lucidi. Non ero sicuro di volerne sapere il motivo.
“Jason, che è successo?” chiesi allarmato.
“Hanno chiamato dall’ospedale in città” disse confuso. “Lucy e Frank hanno avuto un incidente.”
Il mio cervello si spense dopo aver sentito il nome di Frank. Era collassato, mentre il mio cuore aveva traslocato nel mio stomaco, che ormai era in furia come un uragano.
Corremmo a casa e salimmo entrambi in macchina. Mi spiegò che aveva detto cosa era accaduto solo a Ray, che aveva la mia età, e gli aveva lasciato la responsabilità di tutti, essendo il più grande.
Non sembrava molto preoccupato di aver lasciato tutta la situazione in mano a Ray, comunque non ci sarebbe stato nient’altro da fare.
Arrivammo all’ospedale in meno di venti minuti e entrammo di corsa nell’edificio.
Anche se l’ora era tarda, era ancora affollato di gente e probabilmente lo sarebbe stato anche tutta la notte.
Mentre passavamo, vidi un bambino sulle gambe del padre che piangeva tenendosi un braccio. Mi ricordò tantissimo Frank quando era appena arrivato.
Un’infermiera ci indicò gentilmente dove erano stati portati Frank e Lucy, ma non ci seppe dare altre informazioni. Corremmo fino secondo piano, senza nemmeno pensare all’ascensore, sarebbe stato troppo lento.
Quando giungemmo a destinazione cominciammo entrami a camminare troppo lentamente. Nessuno di noi voleva sapere cosa fosse successo nei dettagli. La mia mente andò di nuovo in bianco di nuovo. Fino a quando non vidi Frank accasciato su una sedia, che fissava una porta chiusa.
Lo scorsi da lontano e anche lui mi vide. Mi corse incontro e letteralmente mi saltò addosso. Non appena le sue braccia furono attorno al mio collo scoppiò a piangere. Cominciai ad accarezzargli la testa e la schiena, ma non si calmava. Jason ci guardava con occhi liquidi; poi si mise a parlare con un medico. Non capii quello che si dissero, so solo che alla fine anche Jason scoppiò a piangere e dopo entrò da quella porta che prima era chiusa.
Frank continuava a singhiozzare sul mio petto, e qualsiasi cosa facessi non smetteva. Pensai che forse era meglio andare in un altro posto, lì c’era troppa gente.
Mentre camminavamo fino ad una stanza vuota, non mi lasciò mai andare. Io, comunque, non lo avrei mai fatto.
Mi sedetti su una delle sedie imbottite che erano state messe in fila e Frank si sedette sulle mie ginocchia appoggiando la testa nell’incavo fra la mia spalla e il mio collo.
Non dissi niente, perché sapevo che se avessi accennato a quello che era successo sarebbe stato solo peggio.
Restammo nel silenzio più completo, finché non fu lui a parlare.
“Starà bene, non è vero?” mormorò con voce tremane dalla mia spalla.
“Certo” risposi. Era la bugia più grossa che avessi mai detto. Non avevo una minima idea delle condizioni di Lucy, sapevo solo che lei e Frank avevano avuto un incidente. Frank stava benissimo, ma Lucy non l’avevo nemmeno vista.
Provai a chiedergli cosa fosse successo, per fortuna non ricominciò a piangere.
“Avevamo appena comprato le mie scarpe nuove” cominciò, “stavamo tornando a casa. Ad un certo punto una macchina è spuntata sulla sinistra e ci è venuta addosso senza fermarsi. Ha preso in pieno l’auto dalla parte in cui c’era Lucy, non so come io abbia potuto uscirne illeso. Quando ho realizzato cosa era appena successo sono sceso dall’auto e altre macchine che passavano di lì si sono fermate e hanno chiamato un’ambulanza. Quando è arrivata, hanno tirato fuori Lucy dall’auto, ma io ho visto solo sangue.” Un singhiozzo gli bloccò le parole in gola e poi anche le lacrime cominciarono a solcargli il volto. Le asciugai con il pollice, ma era come cercare di arginare un fiume in piena a mani nude.
Lo lascia sfogare, non potevo fare altro.
Volevo davvero sapere come stesse Lucy, ma non volevo lasciare Frank, e lui non era in grado di affrontare la verità in quel momento, era troppo scioccato.
Sentivo le scosse del suo petto che si alzava e abbassava violentemente a causa del pianto, e qualcosa mi attanagliò il cuore. Non lo avevo mai visto piangere in quella maniera, o almeno non negli ultimi cinque anni. Non aveva pianto molto nemmeno da piccolo, era sempre stato un tipo orgoglioso e si vergognava quasi a esternare troppo le sue emozioni. Ero rimasto scioccato dalla sua reazione e non sapevo cosa combinare.
Capii che era ora di andare da Jason. Portai Frank in bagno e lo aiutai a sciacquarsi la faccia. Poi ritornammo davanti a quella porta bianca.
Non c’era quasi più nessuno a quel piano, se non qualche infermiera che faceva la guardia notturna. Ne fermai una e le chiesi se sapesse qualcosa riguardo Lucy. Mi sorrise tristemente e così fece con Frank, che però parve non vederla. Ci disse che purtroppo non aveva notizie di Lucy. Allora chiesi ad un uomo con un camice bianco, che pensai fosse un medico, e lui mi seppe spiegare che in quel momento la stavano operando.
Non sapevo se essere sollevato o abbattuto. Insomma, se la stavano operando voleva dire che aveva qualche speranza e che non tutto era perduto, eppure un’operazione è sempre una cosa brutta.
Guardai Frank, che era ancora attaccato a me e gli sorrisi rassicurandolo. Lui mi lanciò un’occhiata vacua.
Mi si strinse il cuore a vederlo in quello stato. “Tranquillo Frankie” gli sussurrai, “andrà tutto bene.” Ed ecco la stessa bugia che avevo detto poco prima.
Rimanemmo nell’ospedale tutta la notte, finché non vedemmo arrivare Jason. Aveva assistito all’operazione da lontano, da dietro un vetro. Ma Lucy non ce l’aveva fatta.
Sentii Frank che alzava la testa dal mio petto e che si staccava da me. Io rimasi fermo dove ero, mentre Jason disse semplicemente che era ora di andare a casa dagli altri, come se non fosse successo nulla.
Durante tutto il viaggio nessuno pronunciò una parola. Frank aveva smesso di piangere, sembrava aver finito le lacrime, Jason invece, aveva finito le parole, e io semplicemente non sapevo come reagire e allora rimanevo inerme.
Quando arrivammo a casa era mattina e Ray ci aspettava seduto in cucina. Tutti gli altri erano a letto. Non appena ci vide arrivare capì subito quello che era successo dai nostri volti.
“Vado a svegliare tutti” disse sbrigativo.
Io mi sedetti attorno al tavolo e Frank mi imitò. Jason prese un pacchetto di biscotti e lo poggiò sul tavolo. Dopo tutto non avevamo cenato, ma sapevamo che nessuno avrebbe mangiato. Nel mio stomaco c’era una pietra che di sicuro non vi avrebbe consentito di ingurgitare nulla.
Sentimmo arrivare gli altri ragazzi, in silenzio, erano ancora tutti mezzi addormentati. Eravamo nove, compreso me, cinque maschi e quattro femmine, dai tre ai diciannove anni.
Si sedettero tutti e cominciarono a pescare i biscotti dal pacco che Jason aveva messo poco prima sulla tavola. Nessuno aveva il coraggio di aprire bocca per dire ai più piccoli quello che era successo.
Alla fine fu Frank a parlare, tossì richiamando l’attenzione di tutti. “Lucy non starà più con noi, forse è in un posto migliore, non lo so. So solo che ci ha voluto molto bene. È stata come una mamma per tutti, ed è questo ciò che conta.”
Frank era stata diretto ma sensibile. Aveva usato le parole perfette. Si voltò verso di me per chiedere la mia approvazione e io gli sorridi affettuosamente.
Alla fine ci riprendemmo un po’ tutti. Il funerale fu veloce, ed eravamo presenti solo noi.
Jason cercava di andare avanti come se non fosse accaduto nulla, ma tutti sapevamo e in quella casa mancava un pezzo importante della mia vita, della vita di tutti.
Comunque, qualche mese dopo, la situazione sembrò stabilizzarsi.


Come sempre la sera dopo cena, io e Frank eravamo ognuno disteso nel suo letto al buio e parlavamo.
Raramente le nostre conversazioni erano allegre e spensierate da quando era morta Lucy, e quella sera non faceva eccezione.
“Non ha senso” fece ad un certo punto Frank.
“Cosa?” domandai confuso.
“Tutto questo: la morte, la vita, il dolore. Non hanno senso.” Capii che cosa voleva dire e annuii nell’oscurità.
“Hai ragione” gli dissi, “ma non ci possiamo fare nulla.”
“Non dovrebbe essere così, è ingiusto.” Purtroppo aveva di nuovo ragione.
“È la vita che è ingiusta, e non possiamo cambiare le cose.”
“Certe volte” cominciò, “penso a come sarebbe la mia vita se avessi una famiglia vera, ma non riesco ad immaginarmela. Semplicemente perché non fa parte di me. Non so se vorrei vivere normalmente.”
“Frankie?” lo chiamai.
“Uh?”
“Non mi hai mai raccontato perché sei finito qui” dissi velocemente.
“Non me l’hai mai chiesto” osservò lui. Be’, era vero, ma pensavo che lui non volesse parlarne.
“Ti va di dirmelo?”
“Va bene, ma non è molto interessante come storia.” Sentii che si muoveva sul letto. “Non mi ricordo molto. Quando sono arrivato qui avevo sei anni e i ricordi degli anni prima sono confusi. Comunque, abitavo con i miei genitori, ma mio padre non era mai a casa e quando tornava la sera tardi era ubriaco e spesso picchiava mia madre. Una giorno i vicini sentirono le urla e chiamarono la polizia. Mi hanno affidato agli assistenti sociali e mi hanno portato qui. Fine.”
Non pensavo avesse una storia così, davvero non lo pensavo. Doveva per forza avere un motivo per essere in una casa-famiglia, ma semplicemente non pensavo fosse quello. Quando conosci una persona, di solito, non stai a pensare a ciò che ha vissuto prima, o comunque se lo fai, ipotizzi cose semplici e comuni. Da quello che sapevo io, nessuno in quella casa aveva delle storie semplici, ma per lo più erano rimasti senza un genitore e l’altro non riusciva nemmeno a fare la spesa.
Mi voltai verso Frank. Anche se era buio riuscivo a intravederne il profilo.
“Picchiava anche me certe volte.” Pronunciò quelle parole pianissimo. Se non fossi stato attento mentre le pronunciava non avrei nemmeno capito. Rimasi un attimo paralizzato dalla sua affermazione.
Chi poteva avere il coraggio di picchiare una creatura del genere? Anche il più fottuto pazzo scatenato ci avrebbe pensato due volte prima di torcere un capello a Frank. Lui non meritava nulla di male, lui meritava e necessitava solo di amore.
Intravidi un luccichio nei suoi occhi.
“Io…” cominciai, “non pensavo.”
“Non fa niente, non ti devi preoccupare.” Dalla sua voce capii che era sull’orlo delle lacrime.
Mi scostai le coperte di dosso e scesi dal mio letto. Cercai di non picchiare contro qualcosa e poi mi infilai nel letto di Frank. Non appena mi distesi lui poggiò la testa sul mio petto e cominciò a piangere silenziosamente. Gli passai un braccio attorno alle spalle e comincia ad accarezzargli i capelli delicatamente. Erano davvero soffici, sarei potuto stare tutta la notte ad accarezzarli e non mi sarei mai stancato.
Non era giusto che delle persone così fantastiche dovessero soffrire in quella maniera, quando c’era gente ricca e insulsa che se la godeva. Non so chi avesse dettato quella legge assurda, ma sicuramente se avessi potuto l’avrei cambiata. Io averi dato la vita per vederlo sorridere per sempre, per sapere che sarebbe stato tutta la vita felice e spensierato. L’avrei data davvero. Non mi importava di nient’altro se non di lui, mi curavo solo di come stava Frank. C’era la guerra? Qualcuno l’avrebbe combattuta. C’era la fame? Mi dispiaceva molto, ma io non potevo certo dare da mangiare a mezzo mondo. C’era chi moriva? Prima o poi tutti moriamo. Io non potevo fare nulla per risolvere questa cose. Lo so che è da egoisti, ma forse era quello che ero, uno schifoso egoista che si preoccupava solo di Frank. Eppure la cosa mi andava benissimo così.
“Ti va di fare un gioco?” gli chiesi.
“Che gioco?” domandò.
“A turno diciamo una cosa che odiamo” proposi. “Così, per sfogo.”
Frank ci pensò un attimo e poi annuì.
“Bene” feci, “comincio io. Odio vedere la gente che soffre.”
“Non ti starai mica riferendo a me?”
Gli scompigliai i capelli affettuosamente e ignorai la sua domanda.
“Okay” fece lui, “odio piangere.” Lo strinsi a me continuando ad accarezzargli i capelli.
Era il mio turno. “Odio quando le presone muoio.” E chi non odia le morti? Solo un pazzo.
“Io odio il fatto che un giorno potrei non vederti più.”
“Cosa?” feci stupito. “Sei impazzito?”
“Non sono impazzito, è vero. Chi ti dice che staremo insieme per sempre? I fatti sono la prova. Ci potevo essere io al posto di Lucy quel giorno.”
Cazzo, aveva fottutamente ragione, ma non ci volevo pensare. Lui adesso era lì con me, e non lo avrei lasciato per nessuna ragione al mondo.
“Tu non morirai Frank, o almeno non nei prossimi ottant’anni. Okay?”
“Va bene” sospirò. “Sta a te.”
“Odio odiare.” Frank mi guardò con una espressione confusa. “Hai capito bene” chiarii. Lui alzò le spalle.
“Nemmeno a me piace odiare la gente” disse. “Mh, odio quando mi sveglio la notte e ho appena avuto un incubo.”
“Perché non me ne hai mai parlato?” Quel giorno stavo scoprendo che Frank non mi diceva molte cose, non perché non si fidasse di me, lo sapevo questo.
“Non lo so” rispose titubante. “Non ti voglio scocciare più di quanto già faccia.”
“Frankie, tu non mi scocci mai, capito? Non dire mai più una cosa del genere e la prossima volta che hai avuto un incubo, svegliami. È un ordine.”
Frank mi sorrise. “Non ti dovresti preoccupare così tanto per me, non mi merito tutto questo.”
“Sh, cazzate. Sta a me, vero?” Frank annuì. “Odio vederti piangere, perché sto troppo male.”
Frank non commentò. Semplicemente mi prese la mano con cui gli stavo accarezzando la testa e me la strinse fra le sue. “Hai le mani fredde” constatò. Frank le aveva bollenti.
“Che ne dici se adesso elenchiamo le cose che amiamo?” proposi.
“Ve bene. Sta a me. Amo…” lasciò la frase in sospeso come se non fosse sicuro al 100% di quello che stava per dire, o come se avesse paura di dirlo. Alla fine concluse la frase, “…te.”
Gli lascia un bacio fra i capelli e lo stinsi ancora più forte. “Anche io ti amo, più di ogni altra cosa al mondo.”
Dopo quella frase non dissi più nulla e nemmeno lui. Dopo un po’ capii che si era addormentato. Io rimasi sveglio per un po’ continuando ad accarezzargli la testa. Lisciavo tutte le sue ciocche scure con le dita e poi le lasciavo ricadere sul mio petto dove stava la sua testa.
Quella sera mi aveva completamente aperto il suo cuore e forse io avevo fatto lo stesso. Ci conoscevamo da tanto, ma mai avevamo espresso i nostri sentimenti in maniera così diretta. Lo amavo, era verissimo, non avevo ancora capito come, ma la cosa non mi preoccupava, l’amore è amore, non c’è tanto su cui riflettere.
La cosa che mi aveva lasciato più sconcertato era stato il fatto che suo padre lo aveva picchiato da così piccolo. Ero davvero rimasto sconvolto, mi era salita una rabbia così forte che se avessi incontrato quell’uomo per la strada lo avrei ucciso con le mie stesse mani. Quella era una persona che non meritava nella maniera più assoluta di vivere, meritava solo di morire di una morte atroce e dolorosa, come tutte le pene che aveva fatto passare a Frank ingrandite di mille volte e anche di più. Non  m’importava se dopo sarei andato in carcere, per vendicare Frank ci avrei passato volentieri la vita intera.
Non potevo davvero vederlo soffrire così, era una tortura anche per me. Se lui stava male, stavo di merda anche io; era come se avessimo una specie di contatto sentimentale che ci faceva percepire reciprocamente le sensazioni dell’altro, e ne avevo avuto la prova più di una volta. Per esempio, una volta lui era rimasto a casa malato ed io avevo avuto mal di testa e mal di pancia tutto il giorno a suola. Il pomeriggio, tornato a casa, Lucy mi aveva misurato la febbre, e indovinate? Ce l’avevo anche io. So che può sembrare una cosa stupida, e forse lo è, ma per me non lo è mai stata, mi piaceva pensarla in questo modo, e avrei continuato a farlo. Altre volte, invece, pensavamo le stesse cose; era davvero divertente quando, esprimendo la nostra opinione, scoprivamo che era la stessa. Forse era solo frutto della coincidenza, forse accadeva solo perché eravamo assolutamente compatibili. Eravamo fatti l’uno per l’altro, e non è una frase fatta rubata solo perché sta bene nel contesto, assolutamente no, non faccio mai cose del genere, semplicemente è così. I nostri caratteri combaciavano perfettamente e dove avevo una mancanza io la compensava lui e viceversa. È la cosa più bella che si possa desiderare avere qualcuno che ti capisce alla perfezione.
Lo guardai mentre dormiva beatamente sul mio petto, sembrava un bambino. Pensai di svegliarlo per poter tornare nel mio letto e dormire anche io, ma non ebbi il coraggio nemmeno di spostarlo di un centimetro.
Sentii che si muoveva e aprì gli occhi. “Ehi” mi fece.
“Ti sei addormentato” gli spiegai.
“Davvero?” chiese stupito. “No, ero coscientissimo.”
Mi misi a ridere alla sua affermazione. Aveva dormito come un ghiro per non so quanto tempo! Una bomba avrebbe potuto distruggere la casa e lui non se ne sarebbe accorto.
Capì dalla mia espressione divertita che in realtà aveva dormito, e anche profondamente.
“Comunque adesso non ho più sonno” affermò lui.
“Bene, e cosa vorresti fare?”
“Non lo so” scosse la testa. “Decidi tu!”
Mi misi a pensare a qualcosa da fare a quell’ora della notte senza svegliare nessuno. “Che ne dici se andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Mh, va bene” acconsentì.
Di solito le persone normali la notte dormono e non vanno a fare passeggiate al chiaro di luna, inoltre era ottobre e faceva già parecchio freddo. Ci vestimmo velocemente e mentre passavamo silenziosamente dall’atrio presi la mia giacca e una torcia.
Arrivati sulla spiaggia cominciammo a camminare piano. La notte era lunga e nessuno di noi due aveva furia, anche se il giorno dopo avevamo scuola, la cosa non ci importava molto.
L’aria fredda mi si insinuava sotto la giacca e anche sotto la maglia e la mia schiena era percorsa da brividi. Notai che Frank aveva solo la sua felpa. “Ma sei pazzo?!” gradai indicando i suoi indumenti.
“Penso di sì, sto morendo di freddo.”
Mi tolsi velocemente la mia giacca e gliela infilai a forza, contro il suo volere, poi gli cinsi le spalle con un braccio e lo stinsi forte a me. “Perché sei così stupito da dimenticarti anche una fottuta giacca?” chiesi.
Mi guardò stranito. “Non lo faccio apposta” disse sulla difensiva.
“Lo so, ma poi devo riparare io alle tue cazzate.”
“Nessuno te l’ha chiesto.” La sua voce si stava rabbuiando. Oh, cazzo, mi aveva preso sul serio, ma io stavo solo scherzando.
“Ehi Frank, stavo scherzando!” Lo stinsi ancora più forte a me, alla fine lo avrei stritolato.
“Sì, l’avevo capito” disse impassibile.
Mi fermai e lo presi per le spalle in modo da poterlo guardare negli occhi. “Cosa c’è?”
“In che senso?” domandò. “Non ho capito.”
“Non sei più te stesso da molto. Non sei più quel Frank che combinava un guaio dopo l’altro. Sei diverso.”
Abbassò la testa, cercando di evitare il mio sguardo interrogativo. Gli presi il mento e lo alzai.
“Quello che ti ho detto prima” cominciò, “non avrei dovuto.”
“Cosa hai detto prima che non avresti voluto?” Davvero non capivo a cosa si stesse riferendo.
Rimase qualche secondo in silenzio, come per trovare il coraggio di riformulare quella frase di cui apparentemente si era pentito. “Ti ho detto che ti amo” disse alla fine.
“E non è vero?” Lasciai andare le sue spalle e le braccia mi ricaddero sui fianchi, morte.
“Non devi stare a sentire quello che ti dico, sono tutte cazzate. Non penso quando parlo.”
Non aveva senso. Gli avevo detto anche io che lo amavo.
 “Perché?” Riuscii a sussurrare quella frase appena, non capivo più nulla.
Frank si sedette sulla sabbia e si circondò le gambe con le braccia. Lo interpretai come un chiaro segno che voleva essere lasciato solo e me ne andai.
Mi sentivo come se mille cavalli mi fossero passati sopra tutti insieme. Ero lì, per terra, ferito e indifeso e nessuno mi veniva a prendere. Ero solo, completamente solo. Frank era stato il mio salvagente, e adesso mi stava spingendo sott’acqua, nel tentativo di affogarmi. Perché era così che mi sentivo, come se non riuscissi a respirare più.
Tornai in camera, sperando che Frank non tornasse subito, non avrei avuto il coraggio di affrontarlo. Mi buttai sul letto ancora vestito e mi addormentai quasi subito. Il dolore fa questo effetto, ti leva tutte le forze in meno di mezzo secondo, si nutre della tua felicità e la succhia tutta, fino a lasciarti solo, con i tuoi pensieri più brutti. Quella notte sognai, feci il peggior incubo della mia vita.
Ero su un ponte altissimo. Da lassù riuscivo a scorgere solo degli alberi che mi apparivano come una macchia scura e indefinita. Attraversai tutto il ponte cercando di non guardare in basso, perché non avrei avuto più il coraggio di andare avanti. Il viaggio fino ad una delle sponde mi sembrò infinito. Mettevo i piedi uno davanti all’altro, incerto, e non riuscivo mai a vedere la fine. Dopo, arrivato non so come in quello che mi sembrava un bosco, vidi Frank seduto per terra con le spalle contro un tronco. Gli corsi incontro e lo abbracciai, lui ricambiò e mi sorrise. Attraversammo tutto il bosco a piedi fino a raggiungere una piccola radura. Mi misi a correre accertandomi che Frank mi stesse seguendo. Quando mi voltai per vedere se riusciva a reggere il mio passo non lo vidi più. Cominciai a gridare il suo nome, ma nessuno mi rispondeva. Stava anche cominciando a fare buio. Ero panico e non sapevo cosa fare. Ripercorsi tutta la strada che avevamo fatto insieme, cercai nelle vicinanze e setacciai ogni singolo angolo di quel posto, ma nulla, non riuscivo a trovarlo.
Ad un certo punto sentii il rumore di un ramo spezzarsi alle mie spalle. Mi voltai di scatto, sperando con tutto il mio cuore che fosse lui.
“Mi stavi cercando?” Era Frank, eppure non lo era. La sua voce era fredda e vuota, non poteva appartenere a lui. Si avvicinava piano a me, notai che aveva le mani dietro la schiena.
“Frank?” Cosa stava succedendo?
“Dimmi Gerard.” Pronunciò la frase con una voce ancora più inquietante di quella di prima. Stavo cominciando ad avere paura, non capivo cosa gli fosse successo. Ero confuso.
Lui avanzava, mentre io indietreggiavo senza fermarmi. Non avrei mai pensato ad una cosa del genere, a quella situazione assurda in cui mi trovavo. Mi ritrovai con le spalle contro qualcosa, un albero. Frank si avvicinava sempre più velocemente e alla fine arrivò ad appena qualche centimetro da me.
Mise avanti una delle mani che aveva tenuto dietro la schiena e mi accarezzò una guancia.
“Oh, Gerard” mi sussurrò, “piccolo e ingenuo Gerard. Hai seriamente pensato che ti amassi davvero?”
Scoppiò in una risata agghiacciante, e il mio cuore perse un battito.
“Io non ti ho mai amato” sibilò. “Come potrei amare un essere come te? Non vali niente, sei solo un povero orfanello a cui la mancanza di un padre e di una madre ha seriamente danneggiato il cervello!”
Cosa cavolo stava dicendo? Non aveva senso, io lo amavo, come poteva dirmi quelle cosa?
Si avvicinò ancora di più finché la sua bocca non fu vicinissima al mio orecchio.
“Sei solo un povero illuso che guarda la vita come un bambino e non capisce la realtà. Gerard, apri gli occhi, e osserva cosa ti accade attorno, non te ne rendi conto? Sei solo, nessuno ti ha mai voluto bene. Forse Jason e Lucy, ma da quando lei è morta nemmeno Jason ti considera più come prima.”
“Non è vero!” gridai con tutta la forza che avevo. “Loro mi hanno sempre voluto bene.”
“Ah, ne sei sicuro? Io non credo, non è come pensi. Loro ti hanno accolto solo perché dovevano, non perché volevano.”
“Sono tutte cazzate!” Ma ormai non ne ero più così convinto nemmeno io.
“Ma lo vedi che non ci credi nemmeno tu?” Rise ancora e sentii la pelle d’oca.
Si allontanò da me e mostrò anche l’altra mano, quella che aveva tenuto tutto il tempo dietro la schiena. Sul suo palmo c’era un coltello affilatissimo. Si passò la lama sul pollice destro e lasciò che il sangue scendesse a piccole gocce. Poi mi guardò con aria soddisfatta e si leccò il dito ormai rosso.
“Tu non meriti di vivere” commentò. “Forse è meglio che ponga subito fine alle tue sofferenze e alle tue pene.”
Non riuscivo a muovermi. Pensai di scappare ma le mie gambe si erano come fuse con il terreno e non riuscivo a fare nemmeno il movimento più semplice. Lo fissavo con gli occhi sbarrati, senza capire più nulla. La mia mente era affollata da mille pensieri, come un’autostrada intasata dalle macchine. Se non si muove la prima, le altre non possono passare. Questo è quello che stava succedendo a me. I pensieri erano in coda e il primo, quello che dominava, non riusciva a fare scorrere gli altri normalmente, così che mi trovavo come inebetito.
Poggiò la lama sul mio petto e con questa strappò tutti i miei abiti, lasciandomi a torso nudo.
La punta del coltello era esattamente sul mio cuore. Mi svegliai prima che potesse fare un po’ più di pressione.
Mi ritrovai nel mio letto, completamente madido di sudore, e scioccato per quello che avevo appena visto.
Andai in cucina per fare colazione, e vi trovai solo Jason. “Dove sono tutti?” chiesi.
“Buongiorno Gerard” mi salutò. “È tardi, sono già tutti a scuola.”
“E perché io non ci sono?” chiesi allibito.
“Frank mi ha detto che ti sei agitato tutta la notte e che secondo lui avevi la febbre. In effetti quando ho controllato bruciavi. Così non ti abbiamo svegliato.”
“Ah, okay.”
“Adesso come stai?” fece premuroso.
Cercai di concentrarmi su come realmente stessi, ma avevo talmente tanti pensieri per la testa che mi fu perfino difficile capire cosa mi sentissi. “Stanco” risposi alla fine.
“Allora abbiamo fatto bene a non svegliarti, si vede che non sei in forma” constatò. “Vuoi che ti prepari la colazione?”
Gli sorrisi. “Non importa, tu va a fare quello che devi, ci penso io.”
Jason mi sorrise a sua volta e uscì dalla porta. Non so cosa dovesse fare, ma preferivo restare da solo.
Mi preparai il caffè e poi mi sedetti sopra al tavolo, come mi piaceva fare. Stinsi la tazza fra le mani nel tentativo di riscaldarle, ma non migliorai di molto le cose.
Il sogno che avevo appena fatto continuava a tormentarmi. Frank mi avrebbe ucciso se non mi fossi svegliato, avrebbe spinto la lama del coltello più affondo e avrebbe aperto uno squarcio nel mio petto. Non capivo perché avessi sognato una cosa del genere, ma forse era tutto dovuto alla discussione che avevamo avuto la sera prima, e sicuramente anche la febbre aveva dato il suo contributo.
Dovevo parlarne con Frank, a tutti i costi. Non mi importava se lui non voleva, lo avrei costretto, dovevamo chiarire. Poco prima mi dice che mi ama e dopo si rimangia tutto, non si fa così. E poi c’era il sogno. Sì, lo so che era solo un sogno, ma per me era di più, era come un messaggio che se non avessi fatto pace subito con lui, le cose sarebbero solo peggiorate, e non era quello che volevo.
Dopo aver finito il caffè tornai in camera e mi vestii velocemente. Sapevo che l’attesa mi avrebbe ucciso, ma non ci potevo fare nulla, dovevo aspettare. Rimasi quasi tutto il tempo seduto sul letto a non fare nulla, formulando pensieri che mi confondevano e agitavano ancora di più. A pranzo non mangiai nulla.
Quando Jason mi avvisò che sarebbe andato a prendere i più piccoli a scuola, decisi che io avrei aspettato Frank non a casa, ma fuori da scuola.
Andai a piedi, o meglio, andai di corsa, per paura di non riuscire a vederlo fra la massa di studenti che tornava a casa. Quando arrivai davanti a quell’edificio scolorito mi issai sulle punte dei piedi per cercare di scorgerlo. Era basso, e non sarebbe stato facile intercettarlo fra tutti quei giganti, ma non mi scoraggiai. Lasciai che la gente se ne andasse, e quando rimasero solo poche persone davanti all’entrata a chiacchierare, vidi Frank. Aveva le mani in tasca e il cappuccio della felpa calato sulla testa. Si stava dirigendo verso la scorciatoia che prendevamo sempre per tornare a casa, e quella che avevo fatto io per arrivare lì da lui. Gli corsi incontro e appena gli giunsi accanto non feci una parola e cominciammo a camminare l’uno di fianco all’altro come se nulla fosse.
Non avevo il coraggio di aprire bocca e chiedergli cose fosse successo la sera prima, e forse non lo sapeva nemmeno lui. Eravamo confusi entrambi e lo capii dal fatto che anche lui era rimasto zitto per tutto il tempo.
A casa lo seguii fino alla nostra camera, dove gettò lo zaino a terra e si distese sul suo letto a pancia in giù. Lo imitai. Era tutto assolutamente ridicolo. Io che facevo le sue stesse cose, e lui che mi ignorava spudoratamente come se non ci conoscessimo. Mi sarei messo a ridere se la situazione non fosse stata quella.
Rimanemmo tutto il pomeriggio nella stessa posizione, zitti, immersi nel silenzio dei nostri pensieri. Era piovuto tutto il tempo, ed ero rimasto ad ascoltare il rumore rilassante della pioggia che cadeva. Ci fu anche qualche tuono e mi riscossi ogni volta. Frank invece, sembrava come su un altro pianeta: non si muoveva, non faceva nulla che mi potesse confermare che fosse vivo, e la cosa mi dava piuttosto sui nervi. Finalmente si tirò su e uscì dalla stanza. Per un momento pensai di seguirlo, era quello che avrei voluto fare, ma qualcosa impediva alle mie gambe mi muoversi e prendere il controllo della situazione, così rimasi lì immobile sopra il mio letto.
Dopo non so quanto sentii la voce di Jason che annunciava che la cena era pronta. Da quando era morta Lucy i nostri pasti consistevano in cibo pronto, da riscaldare, oppure ordinato; ma col tempo Jason stava anche imparando a fare qualcosa da solo.
Scesi di malavoglia le scale e raggiunsi la cucina dove mangiavamo sempre tutti insieme. La cosa non mi entusiasmava molto. Preferivo stare da solo e dover condividere la tavola con altre nove persone non mi piaceva, ma dovevo pur mangiare, e quello era l’unico modo possibile, eccetto qualche volta nelle quali io, Frank, e raramente Ray, eravamo rimasti a cena da qualche parte, come un fast-food o quello che vi pare.
Mi sedetti senza dire nulla al mio posto e aspettai che qualcuno mi passasse qualcosa di commestibile.
“Gerard, mi passi il piatto?” Era Jason. Obbedii e quando me lo ridiede indietro lo poggiai davanti a me senza toccare niente. Quando tutti furono serviti e cominciarono a mangiare, Jason mi venne vicino.
“Sai dove è Frank?” fece. Alzi la testa di scatto, constatando che il posto accanto a me era vuoto, Frank non era venuto a mangiare.
Mi voltai verso Jason. “No, non lo so.” Lui mi guardò preoccupato e prima che potesse dire altro mi alzai e gli dissi che lo andavo a cecare. Ma dove cazzo si era cacciato?
Senza pensarci due volte presi la mia giacca e uscii fuori. Non poteva essere in casa, qualcuno lo avrebbe visto, era sicuramente andato alla spiaggia, lo conoscevo bene.
Appena aprii la porta notai che pioveva ancora, ma non mi andava di rientrare e prendere un ombrello, così mi misi il cappuccio della felpa in testa e mi avviai verso il mare.
Oltre alla pioggia che cadeva fine era arrivato anche un sottile strato di nebbia, che però non impediva di vedere. La luna splendeva in cielo alta e illuminava tutto.
Arrivai automaticamente sulla riva, senza nemmeno pensarci, e poco lontano da me vidi un figura esile che stava in piedi sotto la pioggia e scrutava il mare. Corsi da Frank.
“Ma cosa fai?” gli gridai. Non volevo essere così brusco, ma era un idiota a lì mentre pioveva.
Lui si voltò verso di me. “Faccio quello che mi riesce fare meglio.”
Arrivai da lui e lo guardai con aria confusa.
“Faccio una cazzata” mi spiegò. “E tu non mi fermerai.”
“Dai” lo esortai, “torna a casa.” Lo presi per un braccio e cercai di trascinarlo via da lì, ma non ebbi successo. Lo guardai e notai che il suo viso, oltre ad essere bagnato dalla pioggia, era bagnato anche dalle lacrime.
Mi tolsi il cappuccio per poterlo guardare meglio. La pioggia cominciava a scendere più violentemente, ma lui non dava segni di volersene andare.
Continuava a guardare il mare, e le onde che si infrangevano sulla sabbia e in lontananza sugli scogli. Era uno spettacolo spaventoso e meraviglioso allo stesso tempo.
Con una mano gli presi il viso e feci in modo che mi guardasse negli occhi.
“Frankie” dissi tristemente, “cosa stai facendo?”
“Sono un mostro, non merito di stare qui.” Capii subito cosa intendesse e il mio cuore si strinse fino a diventare minuscolo.
“Non è vero” scossi la testa, “non sei un mostro.”
Mi guardò dritto negli occhi, i suoi erano pieni di lacrime. “No? E allora cosa sarei?”
“Tu non sei un mostro” ripetei, “sei la persona più fantastica che abbia mai conosciuto.” Era la verità, non l’avevo detto solo per farlo stare meglio, avevo detto quello che pensavo veramente.
“Ma perché lo dici se non ci credi nemmeno tu?” Era serio, fottutamente serio.
“Ma io ci credo” quasi gridai. “Frank, tu non l’hai capito che ti amo.”
“Non merito il tuo amore, non merito quello di nessuno” disse. “Dopo quello che ti ho detto, come fai a volermi ancora bene?”
Adesso avevo capito tutto. “Stai male per quello che mi hai detto ieri sera?”
Annuì. “Ho fatto una cazzata, Gerard. Non so perché, ma quello che avevo detto mi aveva spaventato. Ho paura, e non so nemmeno di cosa.” Mentre parlava grosse lacrime gli scorrevano sulle guance, fino ad arrivare sul suo collo, per poi confondersi con la pioggia. “Ti amo, ma ti ho fatto solo soffrire. Pensavo che non fosse un bene, e allora ti ho detto che non era vero nulla, ma…” Non gli feci finire la frase e premetti le mie labbra sulle sue. Non potevo sentire altre ragioni, stava male senza un motivo, stava male perché sapeva di avermi ferito, e io non volevo che accadesse. Anche se per colpa sua avevo passato le pene dell’inferno, non mi importava, io lo amavo e basta, chi se ne importava di tutto il resto.
Frank rimase un attimo imbambolato, di certo non si aspettava che lo baciassi, be’, nemmeno io, poi venne tutto naturale.
Infilai una mano nei suoi capelli fradici per la pioggia e con l’altra lo presi per un fianco, stringendolo a me.
Lui mi stringeva le braccia intorno al collo e per quanto mi riguardava dopo quel bacio sarei anche potuto morire.
A dire la verità avevo immaginato tante volte di baciarlo, ma non mi sarei mai immaginato fosse stato così bello. Non capivo più nulla, il mio cervello era appannato dalla gioia, e non avrei saputo fare due più due in quel momento.
Sentivo la pioggia fredda che mi scivolava addosso e le sue labbra sulle mie. Cominciai ad accarezzargli la schiena dolcemente, come fosse fragile vetro, e in effetti era vero. Era la persona più delicata che avessi mai conosciuto, eppure era anche forte. Non è un controsenso, è la verità. Frank era l’unione delle due cose messe insieme. Poteva essere debole nei momenti più tristi e infelici, ma se voleva era forte, anche più di quanto lo sarei potuto mai essere io.
Staccai un momento le mie labbra dalle sue e le avvicinai al suo orecchio. “Ascoltami, qualunque cosa accada, in ogni caso e per sempre, io ci sarò. Capito? Non ti lascerò mai, dovesse finire il mondo in questo istante.” Lo guardai in faccia e vidi che piangeva ancora. La pioggia si era un po’ calmata, ma non dava segni di smettere.
Gli asciugai il viso come meglio potevo con le mani e lo abbracciai. Lui si strinse a me e cominciò a singhiozzare. “Davvero” fece con voce tremante, “io non volevo dirti quelle cosa. Mi dispiace Gerard.”
“Sh, zitto.” Lo bacia sulla testa, mentre il suo petto si alzava e abbassava, scuotendosi violentemente.
Gli asciugai ancora una volta il viso e gli scostai i capelli bagnati dalla fronte. “Non devi essere dispiaciuto.”
Mi guardava negli occhi come se fossi la sua unica speranza di salvezza, e forse era vero. Si alzò sulle punte, e questa volta fu lui a baciarmi. Era disperato, e io non potevo fare altro che amarlo e amarlo ancora.
Gli infilai una mano sotto la felpa e incontrai la sua pelle fredda e liscia. Aveva la pelle d’oca per via dell’acqua gelida che gli scorreva addosso e la strofinai per riscaldarlo.
Ci staccammo una seconda volta. “Adesso andiamo” dissi. Mi prese per mano e insieme ripercorremmo la strada fino a casa.
Avevano tutti già mangiato e c’era solo Jason ad aspettarci. “Tutto okay?” ci chiese.
Io gli sorrisi e gli dissi che era tutto okay e che poteva andare a letto.
Andammo in camera e entrambi ci cambiammo i vestiti bagnati, poi io scesi  e presi qualcosa da mangiare, visto che nessuno di noi aveva cenato.
Ci addormentammo nel mio letto, abbracciati. Eravamo entrambi stanchi e stremati.
La mattina ci svegliammo per andare a scuola, e quando scendemmo per fare colazione Jason chiamò in un angolo Frank. Parlarono per un po’, mentre io li scrutavo senza farmi vedere, bevendo il caffè dalla mia tazza rossa.
Quando ebbero finito e Frank si sedette al suo posto accanto a me aveva un’espressione turbata.
“Ehi Frank” lo chiamai, “va tutto bene?” Lui annuì poco convinto, ma io non feci altre domande. Forse quello che gli aveva detto Jason era una cosa privata e anche se noi ci dicevamo tutto, quando si trattava di Jason le cose cambiavano.
Visto che non pioveva più, io e Frank andammo a scuola a piedi e per tutto il tragitto si limitò a rispondere a monosillabi alle mie domande. Anche quando lo vedevo fra una lezione e l’altra per i corridoi si limitava a mandarmi dei sorrisi veloci, era preoccupato, e sicuramente la causa era la conversazione che aveva avuto con Jason quella mattina.
Quando tornammo a casa quel pomeriggio Jason mi annunciò che sarei dovuto andare con Ray a fare la spesa, perché lui doveva rimanere a casa con Mandie, la più piccola, che era malata. La cosa mi suonò davvero strana, tuttavia non feci commenti e ubbidii.
Ray aveva preso la patente e quindi guidò lui. Io ero stato bocciato, e non avevo voluto riprovare, forse prima o poi avrei ritentato.
Al supermercato con Ray non feci una parola, e anche quando mi chiese che cosa avevo mi limitai a rispondere con un’alzata di spalle.
Non appena fossi arrivato a casa, avrei chiesto a Jason cosa aveva detto a Frank, non aveva nessun diritto di farlo stare così male, nessuno ce l’aveva.
Scaricai la spesa velocemente con Ray e mi accorsi che erano tutti in cucina, anche Mandie c’era e sembrava stare benissimo, almeno fisicamente. L’unico che mancava era Frank.
Mi misi davanti a tutti. “Che c’è?” feci brusco.
Jason si alzò dalla sedia dove stava prima e fece segno a tutti gli altri di lasciarci soli, poi mi venne incontro.
“Qualche giorno fa ho ricevuto una chiamata.” Non mi piacque per nulla come cominciò il discorso. “Non so perché proprio adesso, ma sapevo che prima o poi sarebbe successo. È stato difficile. Ed è per questo che vi ho detto tutto all’ultimo minuto.”
Lo guardai confuso facendo un passo indietro. “Cosa intendi?”
Sospirò rumorosamente e riprese a parlare. “La chiamata era della madre di Frank.” Rimasi a bocca aperta, incapace di dire qualsiasi cosa. Aspettai che continuasse. “Mi ha detto che dopo che Frank era stato preso dagli assistenti sociali e portato qui, suo padre è andato in carcere. Un mese fa circa è morto, non si sa ancora quale sia la causa. Comunque, la madre di Frank ha chiesto al tribunale dei minori di poter riavere suo figlio. Ti chiederai perché in precedenza gli era stato tolto. Semplicemente perché era troppo scossa e scioccata da quello che era successo con suo marito e in ogni caso non avrebbe avuto abbastanza soldi per farlo crescere. Qualche tempo fa ha trovato un lavoro e si è sistemata completamente. Il tribunale ha deciso che poteva riprendersi suo figlio, e stamattina ho detto a Frank che sua madre lo sarebbe venuto a prendere. Mentre tu eri con Ray a fare la spesa se ne sono andati. Mi dispiace.”
Lo guardai, aspettando che dicesse che era tutto uno scherzo e sperando con tutto me stesso che fosse il primo di aprile, ma purtroppo nessuna delle due cose erano vere. Sentii un formicolio sulle guance e capii che stavo piangendo. Non avrei voluto.
Trovai la forza per fare una domanda. “Dove abita sua madre?”
“Dall’altra parte degli Stati Uniti, in New Jersey.” Mi fissava con comprensione, ma lui non aveva una minima idea di come mi sentissi.
Era ovvio, non lo avrei mai più rivisto. Adesso stava dall’altra parte dell’America, con una madre che gli voleva bene e che lo coccolava, e io ero rimasto lì, da solo.
Jason trafficò nelle sue tasche e ne tirò fuori un foglio stropicciato. “Mi ha detto di dartela.”
Era una specie di lettera. La presi dalle sue mani e uscii di casa, con il foglio in mano.
Mi diressi verso il punto delle spiaggia in cui ci eravamo baciati e mi sedetti sulla sabbia bagnata.
Il foglio era stato strappato da un quaderno, molto probabilmente l’aveva scritta quella mattina a scuola. Mi tremavano le mani.
 

Ciao Gerard,
non so dove sarò quando leggerai questa parole, ma hai bisogno di una spiegazione, e l’unico che te la può dare sono io. Ti prego di leggere tutta la lettera, altrimenti non potrai mai capire.
Stamattina, a colazione, Jason mi ha chiamato da una parte, come avrai notato, e mi ha detto che quel pomeriggio sarebbe venuta mia madre a prendermi per andare a vivere con lei. Non ho detto niente, nemmeno quando mi ha spiegato quello che era successo a lei e a mio padre  dopo che sono arrivato qui.
Evito di raccontarti tutta la storia, Jason avrà già fatto la sua parte.
La vera ragione di questa lettera è per dirti quanto tu sia stato importante per me.
Penso sempre a noi, a tutte le volte che abbiamo fatto casino da piccoli, a tutte le volte che mi hai aiutato con i compiti perché non mi riuscivano. Ti ricordi quando alle medie non riuscivo a fare le equazioni e passasti un pomeriggio intero a spiegarmele? Tutte le volte che mi viene in mente sorrido. Questi sono i ricordi che dovrai portarti sempre dietro, quelli belli.
Ci siamo conosciuti circa nove anni fa, è tanto tempo, ma non è mai abbastanza, questo fortunatamente l’ho capito. Non penso che cambierei quello che abbiamo vissuto con nient’altro al mondo.
Vorrei dirti tante cose che non so nemmeno da dove cominciare, ma  la cosa più importante è il mio GRAZIE a te. Grazie, perché mi fai sorridere anche quando mi cade il mondo addosso, grazie perché sei con me, sempre e comunque, grazie per non farmi sentire strano, diverso, anche se forse è quello che sono.
Vedi, quando mio padre mi picchiava da piccolo, pensavo di essere io la causa della sua rabbia, credevo che lui mi picchiasse perché ero io che avevo qualcosa che non andava… Lo credevo davvero, e la gente me ne dava prova in continuazione. Quando mia madre non era troppo stanca per le botte, mi portava fuori a giocare, in modo da distrarci entrambi. Andavamo al parco, mano nella mano, ma alla fine stavo sempre con lei. I bambini mi guardavano male, mi prendevano in giro e non mi facevano giocare con loro. I bambini di sei anni sanno essere più cattivi di chiunque, se vogliono. E poi non avrei mai lasciato sola mia madre. Lei soffriva, e io odiavo vederla piangere in bagno dopo che mio padre l’aveva presa a pugni e calci, non ce la facevo. Allora il tempo che stavamo fuori insieme lo passavo cercando di farla ridere.
Gerard, tu sei troppo buono, mi hai accolto nella tua stanza senza sapere chi fossi, mi hai capito e mi hai amato, mi hai fatto sentire importante per qualcuno, importante per te, e questa è la cosa più bella che una persona possa fare. Non so se mi merito tutto questo, ma tu, nonostante tutto, continui ad amarmi.
Non so se mi perdonerai anche questa volta, spero con tutto il mio cuore di sì, ma non ho la certezza di nulla adesso.
Tu mi hai sempre detto che grazie a me hai capito chi tu fossi, e hai trovato te stesso. Anche per me è stato così, ma quando penso finalmente di essere uscito dalle tenebre ecco che inciampo e ci rifinisco dentro. Non ci posso fare nulla, nemmeno tu puoi farci nulla, sono fatto così. Comunque sappi, che tu sei la mia unica speranza, sempre.
Mi sento inutile, una nullità, solo un piccolo puntino nero in un immenso foglio bianco.
Sto male, per tutto, e sempre, non capisco il mondo, non capisco me, non comprendo quello che voglio.
Non volevo nemmeno lasciarti, ma l’ho fatto. Perché? Perché io faccio cazzate in continuazione, sono fatto così.
Non ti ho nemmeno detto addio, ma forse sarebbe stato troppo difficile. Non so se un giorno ti rivedrò, non penso, sappi solo una cosa: TI AMO, e ti amerò per tutta la vita e anche oltre.
Pensavo fosse finita, ma è appena cominciata.

Per sempre,
il tuo Frankie.


 
Mi asciugai in fretta le lacrime, non volevo piangere, io non piangevo, non dovevo.
Mi accoccolai per terra, con la faccia contro la sabbia.
Era un freddo cane, ma non mi importava, sarei stato lì finché non mi sarei svegliato da quell’incubo, perché non poteva essere altro. Era anche peggio di quello in cui Frank mi voleva uccidere. Preferivo mille volte morire che perderlo. Semplicemente non potevo vivere senza di lui.
Sentivo il leggero rumore della risacca del mare. Mi strinsi la lettere al petto e cullato da quel suono mi addormentai.
 

 
***

 
Gerard fu ritrovato la mattina dopo da Ray, che lo era andato a cercare.
Durante la notte gelida era morto assiderato. Aveva ancora la lettera stretta al petto.

 
 
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