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Autore: Shainareth    11/10/2013    2 recensioni
Strinse le labbra, cercando di recuperare il respiro che gli era venuto meno a causa di quella domanda. Infine, le schiuse e, con voce rauca, una voce estranea persino a se stesso, rispose. «Io sono Garu.»
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Amnesia'
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CAPITOLO PRIMO




«Tu… chi sei?»
   Tre semplici sillabe. Tre semplici sillabe pronunciate con voce flebile e spaesata. Eppure ebbero il potere di abbatterlo, come se qualcuno gli avesse sparato una cannonata in pieno stomaco. O forse dritta al cuore.
   Sebbene lo avessero preparato, avvertì un tremito in tutto il corpo e non fu più certo di essere padrone di se stesso. Ma quegli occhi attendevano una risposta. Quegli occhi scuri, arrossati, lucidi, che lo fissavano con aria smarrita, innocenti e timidi.
   Strinse le labbra, cercando di recuperare il respiro che gli era venuto meno a causa di quella domanda. Infine, le schiuse e, con voce rauca, una voce estranea persino a se stesso, rispose. «Io sono Garu.»
   Rimasero nuovamente in silenzio, benché il rumore dei macchinari a cui era collegata la ragazza, e che erano riusciti a tenerla in vita per tutto quel tempo, continuassero ad emettere un sottofondo poco gradevole.
   Poi, lei corrucciò appena la fronte, come se stesse cercando di metterlo meglio a fuoco. Il giovane per un attimo osò sperare che si stesse ricordando di lui; ma si sbagliava. L’unico motivo per cui quella sciocchina si era incantata a fissarlo fu presto spiegato da lei stessa, nonostante l’affanno nella voce. «Sei davvero un bel ragazzo», ci tenne anzitutto a precisare, inducendolo ad inarcare entrambe le sopracciglia con fare attonito. Quindi, la fanciulla passò alla questione successiva. «Ti va di essere il mio fidanzato?»
   Nonostante tutto quello che era accaduto, alcune cose non sarebbero mai cambiate e questo era rassicurante. Garu quasi rise e non fece nulla per nasconderlo, né per evitare che i suoi occhi si riempissero di lacrime. Ma non pianse. Si limitò ad ingoiare ogni emozione e a tirare su col naso, che aveva iniziato improvvisamente a pizzicargli.
   «Non posso», le spiegò in tono desolato, allungando una mano per carezzare il dorso di quella di lei con le nocche delle dita. «Temo di esserlo già.»
   Quella rivelazione le fece sgranare le orbite per la sorpresa e Garu scoppiò a ridere per davvero, questa volta, sia pure brevemente. «Ho… Ho un fidanzato così… così… così!» risolse di concludere la ragazza, sconvolta, non riuscendo a trovare parole appropriate per definire il fascino che lui esercitava sul suo povero cuore. E probabilmente anche sui suoi ormoni, sebbene non se ne rendesse del tutto conto. «E non me lo ricordo!» sbraitò con un certo, ammirevole impeto, impensabile per le sue condizioni. «È un’ingiustizia!»
   Per Garu l’ingiustizia maggiore era ben altra, ma decise di non farglielo pesare, non in quel momento. «Dovresti riposare», le disse allora.
   «Mi sono svegliata da poco», protestò lei, non capacitandosi di aver dimenticato tante, troppe cose mentre aveva dormito. Nello stato confusionale in cui si trovava, non era ancora riuscita a realizzare che il suo era stato molto più di un lungo sonno; era caduta in coma. Per sei anni. Quasi non speravano più che si salvasse, e invece, ancora una volta, la piccola Pucca aveva stupito tutti con la sua voglia di vivere. E, a quanto pareva, con il suo congenito amore per Garu. Tuttavia, vi erano stati degli inaspettati risvolti, in quel miracolo: se da un lato il terribile incidente che le era capitato le aveva restituito la parola al suo risveglio, dall’altro le aveva devastato la memoria, cancellando ogni ricordo personale e preservando soltanto quello della lingua madre e poche altre cose basilari. Se adesso sapeva come si chiamava e quanti anni aveva lo doveva unicamente ai medici e poi a quei tre signori che erano accorsi al suo capezzale quando era stato dato loro il permesso di entrare nella sua stanza. Le avevano detto di essere i suoi zii, eppure i loro volti le erano totalmente estranei.
   «Non muovo le gambe», mormorò d’un tratto, puntando gli occhi a mandorla sulla punta dei piedi che creavano due buffe protuberanze sotto al lenzuolo bianco del letto d’ospedale. «Mi hanno detto che camminerò di nuovo, però», aggiunse, come a voler rassicurare anzitutto se stessa.
   «Dovrai fare un po’ di riabilitazione», le spiegò Garu, prendendole affettuosamente la mano nella propria e richiamando così la sua attenzione, in modo che lei non si focalizzasse su tutti i problemi del suo stato di salute. In verità, le ferite riportate a causa dell’incidente erano ormai sanate da un pezzo e non rimanevano che poche cicatrici. In più, non vi era alcun serio problema di carattere fisico, tant’è che con il dovuto esercizio, Pucca sarebbe nuovamente riuscita a mettersi in piedi da sola e a correre, se solo lo avesse voluto. E, col tempo, avrebbe imparato anche a nutrirsi di cibo solido, senza l’ausilio di nessuna, maledetta flebo che le somministrasse il necessario per vivere. L’unica vera preoccupazione, insomma, era costituita dal suo stato psicologico: cos’avrebbe fatto quando avrebbe realizzato per davvero che non aveva perso soltanto la memoria, ma addirittura sei anni di vita? Si era addormentata che era una bambina e si era svegliata già donna.
   «Riesci a sentire la mia mano?»
   «Sì», rispose con voce flebile, muovendo appena le dita contro quelle del giovane. «È calda.»
   Se avesse potuto, Garu non si sarebbe limitato a stringerle una mano. Avvertiva il desiderio di cingere quel suo esile corpo fra le braccia, di proteggerla da tutto e da tutti. Ma non poteva farlo, perciò si limitò a sorriderle e a scostarle una ciocca di capelli neri dalla fronte. Per igiene e praticità, avevano dovuto recidergliela, quella sua lunghissima chioma. Adesso Pucca sfoggiava una zazzera spettinata, a metà strada fra un taglio corto ed un caschetto. Le conferiva un’aria sbarazzina, ma non le stava affatto male.
   La porta si aprì in un lieve cigolio e un’infermiera fece capolino nella stanza, facendoli voltare verso l’ingresso. «Temo che sia ora che io vada», disse Garu, comprendendo quale fosse la ragione dell’arrivo della donna. Dopotutto, gli era stato raccomandato di non trattenersi troppo, affinché la paziente non si stancasse eccessivamente né nel parlare né nello sforzo di ricordare. «Tornerò il prima possibile», le promise, quando vide l’espressione smarrita della ragazza.
   «Okay…» biascicò lei, rassegnata. Ma, prima che lui le lasciasse andare la mano, volle sapere con una certa eccitazione: «Posso avere un bacio, prima?»
   Di nuovo, Garu inarcò le sopracciglia scure e per poco non scoppiò a ridere. Quindi, pur arrossendo, si chinò per sfiorarle una tempia con le labbra. La vide sorridere soddisfatta e tanto bastò.

Non appena si chiuse la porta della stanza alle spalle, scorse i tre cuochi precipitarsi nella sua direzione con evidente ansia sui visi preoccupati e segnati dal pianto, ed una chiara domanda sulla punta della lingua, che però rimase inespressa: Pucca si ricordava almeno di lui?
   Garu sospirò, desolato. «No», disse, senza curarsi troppo del lieve sussulto che ebbero i tre nel sentirlo parlare per la prima volta dopo anni. Lo stesso ragazzo avvertiva una strana sensazione nel lasciare che le parole ora uscissero liberamente dalla sua bocca. «Ma sembra essere almeno di buon umore», spiegò con sincerità, anche per rincuorarli. Sarebbe bastato per consolare tutti loro dell’enorme perdita subita? Probabilmente no, ma bisognava almeno cercare il lato positivo di tutta quella maledetta faccenda: Pucca stava bene, si sarebbe ripresa alla grande e sarebbe tornata a vivere con tutti loro giù al villaggio, e non più a vegetare in un dannato letto d’ospedale. Con un po’ di fortuna, avrebbe anche recuperato i propri ricordi d’infanzia; almeno stando a quanto avevano detto i medici, che però volevano fare ulteriori accertamenti al riguardo. Tuttavia, i pensieri di Garu continuavano ad affastellarsi tutti attorno ad un’altra questione non di secondaria importanza: nessuno avrebbe mai restituito a Pucca i sei anni di vita che aveva perso.
   Quando gli zii della ragazza gli posero altre domande, questa volta ben udibili, si limitò a poche, concise risposte. Anche se adesso poteva farlo, non aveva voglia di parlare. Avvertiva un enorme nodo in gola che cercava di impedirglielo. Voleva soltanto rimanere solo con se stesso per riordinare le idee. Avrebbe dovuto essere forte, come anche tutti gli altri, del resto. Fu su questo che si concentrò nel momento in cui vide arrivare anche Abyo e Ching, entrambi visibilmente ansiosi di saperne di più sullo stato di salute della piccola Pucca. Era così che la chiamavano fra loro, perché, sebbene gli anni fossero passati per tutti e anche lei fosse fisicamente cresciuta senza rendersene conto, gli ultimi ricordi che avevano della loro amica erano quelli di quando era ancora una bambina. Di quando era ancora la loro piccola Pucca.
   «Che ti ha detto?» volle sapere Ching, una volta che aveva realizzato che la ragazza stava bene, nonostante avesse perso la memoria, e che aveva riacquistato la parola. E Ching non sapeva davvero stabilire se quest’ultima cosa fosse più o meno sconvolgente del sentire Garu parlare.
   Lui si strinse nelle spalle, le mani nelle tasche dei pantaloni. «Mi ha… chiesto di essere il suo fidanzato», ammise, pur con un lieve imbarazzo.
   Gli altri si lasciarono andare ad una sommessa risata liberatoria: certe cose non sarebbero mai cambiate, dunque? Meglio così.
   «E che le hai risposto?» s’incuriosì Abyo, divertito.
   Di nuovo, Garu fece spallucce. «Che lo sono già.»
   «Garu», prese parola a quel punto Linguini, seriamente preoccupato per lui, oltre che per la nipote. «Non devi sentirti obbligato.» Era quello il timore di tutti, dal momento che il giovane non aveva fatto altro, in quei sei anni, che rimanere accanto alla piccola Pucca. Sapevano che le aveva sempre voluto bene, a dispetto di ogni apparenza, ma si rendevano anche conto che, dopo tanto tempo, molte cose potevano essere cambiate, e che l’affetto di un bambino di dodici anni non poteva essere paragonabile a quello di un ragazzo ormai alle soglie dell’età adulta.
   «Chi ha detto che mi sento obbligato?» ribatté lui, lievemente infastidito da quell’osservazione. Forse non era innamorato di Pucca, ma quello che provava per lei era comunque forte e profondo al punto che non gli pesava per nulla essere il suo fidanzato – ammesso che così potesse davvero definirsi, vista la situazione in cui si trovavano. «Va bene così, davvero.» Altrimenti non avrebbe avuto alcun senso, per lui, dedicarle ogni pensiero e ogni preghiera in tutto quel tempo.
   Nessuno mise in dubbio le sue parole, ma tutti non poterono fare a meno di chiedersi dove finisse il suo affetto per la ragazza e dove iniziassero, invece, i sensi di colpa: se Pucca aveva rischiato di morire, era stato per difendere lui. E questo non poteva aver lasciato indifferente il giovane, tutt’altro. Adesso aveva persino rotto il voto del silenzio fatto anni prima per poter comunicare con lei.
   Gli sguardi che lo stavano fissando gli fecero provare una sensazione simile a quella di soffocamento e Garu avvertì sempre più impellente il bisogno di rimanere da solo. E poiché nessun altro parlò né gli pose ulteriori domande, ne approfittò per scusarsi con tutti e accomiatarsi.

«Ora riesco a muovere tutte e dieci le dita dei piedi», affermò soddisfatta, scoprendo gli arti inferiori per mostrarli a quella che, a quanto pareva, era stata la sua migliore amica durante gli anni dell’infanzia.
   «Stai facendo dei grandi progressi», fu il sincero incoraggiamento che le diede Ching, impegnata a spazzolarle i capelli. Adesso Pucca riusciva a stare seduta con una pila di cuscini dietro la schiena e aveva anche ripreso a mangiare da sola, sia pure cibo liquido in quantità ridotta. Le avevano anche staccato definitivamente i macchinari che erano serviti per la respirazione e per monitorare il suo stato di salute durante il lungo coma. «Vedrai che presto riuscirai a fare molte altre cose.»
   La ragazza annuì, convinta delle proprie capacità. «Appena riuscirò ad alzarmi, mi darò da fare per essere la migliore fidanzata del mondo.»
   «Non ne dubito», le diede corda l’altra, chiedendosi se Garu sarebbe tornato ad essere l’oggetto principale dei suoi pensieri anche adesso, nonostante quello che era accaduto e il tempo trascorso. «Quando sarai fuori di qui, ti porterò in giro per negozi e compreremo tanti bei vestiti.» Non sarebbe stato soltanto un modo per distrarla, quello, ma anche e soprattutto una necessità: adesso che Pucca andava per i diciassette anni, non avrebbe certo potuto indossare nulla di quello che ancora si trovava nell’armadio della sua camera, rimasta esattamente com’era quando era entrata in ospedale. Nessuno dei suoi zii aveva avuto cuore di mettere via niente o di rimpiazzare questo o quell’oggetto con qualcos’altro.
   «Lo facevamo spesso?» domandò dopo qualche attimo di esitazione la fanciulla, non riuscendo proprio a ricordare né dei bei momenti passati con Ching, né della loro amicizia. Ogni volta che realizzava cose del genere, Pucca avvertiva un vuoto allo stomaco molto simile a quello della sua memoria, che le portava anche un senso di vertigine. I medici le avevano detto che non doveva sforzarsi nel tentativo di riportare a galla il passato, perché avrebbe potuto farle più male che bene, e lei cercava di seguire il loro consiglio, ma non era per nulla semplice. Aveva la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua, calata dall’oggi al domani in una realtà sconosciuta. Era un po’ come se fosse venuta al mondo soltanto adesso, all’età di sedici anni ma con la mente libera come quella di un neonato. Forse, da che si era svegliata dal coma, era questa la ragione per cui le riusciva di memorizzare facilmente ogni singolo accadimento e ogni singolo volto che entrava in quella stanza per una visita di cortesia.
   Ching mise via la spazzola e tornò a guardarla negli occhi scuri. Le sorrise con tenerezza. «Sì», rispose. «Ma ciò non significa che non possiamo ricominciare a farlo.»
   Anche le labbra di Pucca si inarcarono verso l’alto e lei agitò le dita dei piedi come se fossero stati la coda di un cane impegnato a scodinzolare. «Che altro facevamo?» domandò allora. Se non doveva sforzarsi di ricordare, che almeno l’aiutassero gli altri a farla sentire meno vuota.
   «Giocavamo e passavamo moltissimo tempo con Abyo e Garu», le raccontò volentieri Ching, coprendole le gambe per evitare di farle prendere freddo. Dopotutto, per quanto il suo corpo rispondesse bene alle cure e alla riabilitazione, Pucca era ancora debilitata e aveva bisogno di tempo per riprendersi e tornare ad essere forte com’era stata da bambina. «Noi quattro eravamo inseparabili.»
   «Tu e Abyo state insieme?» volle sapere, abbassando il tono della voce per pudore nei confronti dell’amica.
   Quest’ultima sorrise più di prima. «Da un po’ di tempo», le confessò. Sarebbe stato sciocco nasconderle qualcosa di tanto ovvio. «Non è sempre tutto rose e fiori, ma i momenti di serenità sono di gran lunga più lunghi di quelli di screzio.» Subito dopo aver pronunciato queste parole, Ching si rese conto di quanto avesse avuto nostalgia della sua amica del cuore. Non che non ne avesse altre, di confidenti, ma nessuna era mai riuscita a prendere il posto di Pucca. Avvertì gli occhi farsi lucidi, ma si impose di resistere; se avesse pianto per ogni pensiero malinconico o spiacevole, non avrebbe neanche dovuto mettere piede nella camera d’ospedale della ragazza.
   Vide Pucca mordicchiarsi il labbro inferiore con una certa impazienza, come volesse chiederle qualcos’altro. E difatti così fece, poco dopo. «E io e Garu?» pigolò, guardandola da sotto in su. «Come sono andate le cose, fra me e lui?»
   Questa era una domanda scomoda. Ching non aveva pensato di parlarne prima con Garu, per cui non sapeva assolutamente cosa risponderle. Avrebbe dovuto raccontarle la verità o dirle soltanto che loro due erano stati fidanzati, sia pure per gioco, quand’erano bambini?
   «Non lo hai chiesto a Garu?» risolse di chiedere, cercando di trovare una soluzione a quel dubbio.
   «No», borbottò Pucca, crucciandosi ed intrecciando le braccia al petto. «Ogni volta che lo faccio, lui balbetta qualcosa, mi distrae con un’altra domanda e cambia discorso.»
   Oh, pensò Ching, concludendo che, dunque, il suo amico non avesse ancora deciso come comportarsi al riguardo. Ma non era neanche corretto lasciare Pucca in sospeso, per cui si ripromise di parlare al giovane non appena le sarebbe stato possibile.
   «Ma appena riuscirò a farlo», stava continuando frattanto la sua amica, testarda come sempre, «lo metterò alle strette e mi farò raccontare tutto.»
   Ching preferì non indagare riguardo ai metodi di persuasione che lei avrebbe adoperato per raggiungere il suo scopo, ora che era cresciuta; anche perché, a ben guardare, non erano davvero affari suoi. Era piuttosto colpa di Garu che, incautamente ma comprensibilmente, si era presentato alla fanciulla come il suo innamorato.

«Non avresti dovuto farlo», fu difatti ciò che gli disse quando, dopo aver lasciato l’ospedale, si recò a casa sua, nel fitto della foresta di bambù.
   Seduto sui gradini d’ingresso, Garu parve ascoltarla distrattamente, preso com’era dal lucidare la sua fedele katana. Anche se i suoi pensieri, negli ultimi sei anni erano stati rivolti perennemente alla piccola Pucca, il giovane non aveva mai smesso di dedicarsi anima e corpo ai suoi allenamenti e alle pratiche ninja; erano stati, al contrario, un ottimo modo per sfogare la rabbia e la frustrazione che molto spesso gli avevano tolto il sonno.
   «Garu…» ricominciò Ching, abbandonando il tono di tenue rimprovero in favore di uno molto più morbido e affettuoso. «Lo so cosa significa per te.» Non era vero, pensò lui con una certa irritazione: nessuno poteva sapere cosa rappresentasse Pucca per lui. «Però avresti dovuto essere più cauto nel parlarle.»
   «E non ti viene in mente che forse io le abbia detto esattamente quello che volevo dirle?» ribatté a quel punto, cercando di non lasciare che il nervosismo lo deconcentrasse ulteriormente dal proprio operato. Voleva bene a Ching come ad una sorella, ma riteneva che non avrebbe dovuto ficcare il naso in certe questioni. Lei non c’entrava nulla, né poteva rendersi realmente conto di quello che gli pesava nell’animo e, purtroppo, anche sulla coscienza.
   La ragazza tornò ad assumere nuovamente uno sguardo severo e strinse i denti nel tentativo di dominarsi. Ma non le riuscì tuttavia di porgli una domanda di basilare importanza. «Allora, dimmi, hai intenzione di illuderla per sempre?»
   Perché tutti si erano convinti di questo? Garu davvero non riusciva a capacitarsene. Nessuno gliene aveva ancora parlato, a dire il vero, ma era palese che non fosse soltanto Ching a pensarla in quel modo, e cioè che lui avesse assicurato a Pucca di essere il suo fidanzato per tirarla su di morale e, magari, compensare i propri sensi di colpa. Beh, non era così. Non lo era per nulla. Certo non poteva negare di sentirsi grandemente responsabile per quello che le era accaduto, ma Garu voleva davvero bene a Pucca. Era sempre stato così e così sarebbe sempre stato. Non poteva dire di amarla come Abyo amava Ching, era fuori discussione, foss’anche solo per il semplice fatto che, pur conoscendosi da una vita, adesso lui e Pucca erano quasi degli estranei l’uno per l’altra: lei non ricordava nulla di lui, e lui ricordava soltanto la bambina che era stata. Non c’era nulla di carnale fra loro; soltanto un immenso, profondo amore platonico. Forse non sarebbe bastato, in futuro, ma nel frattempo andava bene così e, con tutta probabilità, le cose sarebbero cambiate nel momento in cui, a Dio piacendo, Pucca avrebbe riacquistato i propri ricordi. E se non avesse mai potuto farlo, le sarebbe rimasto accanto comunque, se lei glielo avesse concesso, perché non aveva altra ragione di vita se non quella: era stato, dopo la rottura del voto del silenzio, il suo nuovo giuramento. E, come il primo, non lo avrebbe mai considerato un peso. Perché, in effetti, non lo sentiva affatto come tale.
   Abituato com’era a non parlare, e quindi a non condividere i propri pensieri con nessuno al di fuori di lui stesso, Garu si levò in piedi e, senza rispondere alla domanda dell’amica, rientrò in casa chiudendosi seccamente la porta alle spalle. Ching non provò neanche a richiamarlo indietro, ma non poté fare a meno di sentirsi peggio di prima perché, onestamente, non avrebbe saputo dire chi fra lui e Pucca fosse la persona più testarda che avesse mai conosciuto in vita sua.
   Sospirando, prese il posto di Garu sui gradini d’ingresso dell’abitazione e rimase a fissare il vuoto per alcuni istanti, senza riuscire a pensare a nulla. Si riscosse solo quando uno dei figli di Mio e Yani venne ad acciambellarsi sulle sue gambe. Quando Pucca aveva avuto quell’incidente ed era caduta in coma, Garu aveva deciso di prendersi cura della sua gatta; aveva già Mio a cui badare, dopotutto, perciò non gli sarebbe costato molto prendere con sé anche Yani, visto che, oltretutto, i due andavano molto d’accordo. Questione di tempo e, chiaramente, si era ritrovato la casa piena di cuccioli, anche se adesso erano cresciuti e, a loro volta, ne avevano messi al mondo altri. Pucca si era persa anche questo. Chissà, si erano chiesti i suoi amici, quanto sarebbe stata felice di sapere che la sua piccola Yani e il piccolo Mio avevano procreato… Ma Pucca non si ricordava neanche di loro. Era orribile, pensò Ching, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. E, questa volta, non le trattenne, preferendo sfogare tutta la propria tristezza adesso che poteva farlo.
   Garu la sentì singhiozzare attraverso la porta di carta di riso, ma rimase fermo dov’era. Non sarebbe servito a nulla andare a confortare qualcuno se lui per primo non sapeva come poter confortare se stesso. Ma, sul serio, quale consolazione poteva esserci dopo quanto era accaduto alla loro piccola Pucca?
   Seduto sul tatami con le ginocchia tirate al petto e gli avambracci poggiati su di esse, si domandò se sarebbe mai stato in grado di fare quello che stava facendo Ching adesso: piangere. Avrebbe tanto voluto, ne sentiva la necessità, feroce al punto da serrargli la gola e la bocca dello stomaco. Eppure, per quanto si sforzasse, non gli riusciva di versare una sola lacrima. Yani strusciò il musetto contro la sua gamba e Garu si volse a fissarla con sguardo spento: l’aveva voluta con sé perché era un modo come un altro per avere qualcosa di Pucca in giro per casa. Da quando era rimasta immobilizzata a letto, la sua vita era diventata spaventosamente triste. E vuota. Troppo calma, troppo grigia. Preso com’era sempre stato dai propri esercizi ninja, il giovane non avrebbe mai creduto di poterlo ammettere con quella sicurezza sconvolgente; eppure, senza di lei, che per tanto tempo gli aveva ronzato attorno spensieratamente e fin troppo affettuosamente, la sua vita aveva perso tutto il suo significato. Forse era vero che un bambino di dodici anni non sapeva amare come un adulto, ma questo non implicava necessariamente che la quantità dei due diversi sentimenti fosse altrettanto differente.












Giuro che stavolta non è stato facile star dietro a questa storia. Mi sono impelagata in un argomento parecchio delicato e ovviamente temo anche di aver combinato un bel patatrac, soprattutto riguardo a tutta la parte medica. Se c'è qualche esperto che possa bacchettarmi per la mia incompetenza in proposito, non esiti a farsi avanti! :'D
A parte ciò, annuncio subito che la fanfiction conta di quattro capitoli: ho passato gli ultimi cinque giorni a scriverla nella sua interezza, ecco perché nel frattempo non ho postato nulla. Per esperienza, preferisco finire una long prima di postarla sul sito, ché ho sempre paura che mi passi l'ispirazione a metà strada e lasci i lettori con un palmo di naso (mi è successo troppe volte in passato, quindi sarei una demente a ripetere l'errore in continuazione).
Detto questo, non so quanto siano IC i personaggi (considerando ciò che è capitato e il fatto che siano passati diversi anni), ma in caso voi crediate ce ne sia bisogno, aggiungerò più che volentieri l'avviso di OOC. Sappiatemi dire.
Al prossimo capitolo!
Shainareth





  
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