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Autore: Ambros    14/10/2013    4 recensioni
Kurt e Blaine si incontrano in modo ... Inusuale. E movimentato.
Dal testo:
-Si avvicinò a me con passo svelto “Grazie” mormorò, sedendosi “Deduco che non hai un cucciolo di rottweiler nella tracolla?” Ridacchiai, scambiando con lui uno sguardo complice “Oh, no. Solo un piccolo Ungaro Spinato.”
Qualche citazione da HP!
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! (O almeno, a chi leggerà!)
Seconda OS Klaine (O meglio, era nata come una OS, poi si è allungata a dismisura, ma ho deciso che pubblicarla in due capitoli sarebbe stato insensato); insomma, è una follia dall'inizio alla fine, ma spero che la apprezzerete comunque :)
Ci sono un sacco di riferimenti ad Harry Potter, vi avverto!
Buona lettura!

Happiness can be found, even in the darkest of times.
If one only remembers to turn on the light.


Mi maledissi per la milionesima volta, quella mattina, mentre mi precipitavo verso la metro, riuscendo a salirvi per un pelo.
Ero un ritardatario cronico. Doveva essere così. Doveva essere una specie di malattia. Magari vendevano delle pasticche, o degli sciroppi apposta.
Lo sperai con tutto il cuore, ritrovandomi ad ansimare col cuore che batteva a mille, mentre una signora seduta poco lontano da me mi lanciava uno sguardo scettico per poi immergersi di nuovo nella lettura di un libro. Mi aggrappai ad uno degli appositi sostegni, sfinito, mentre i polmoni si dilatavano, cercando di immagazzinare tutto l’ossigeno possibile.
Quando mi ero svegliato, poco più di mezz’ora prima, guardando la sveglia, avevo decretato che doveva essere un incubo; e questa convinzione era stata accompagnata da una bella risata isterica. Poi mi ero reso conto di essere assolutamente sveglio, e allora un senso di panico mi aveva assalito all’istante, facendomi scattare in piedi e preparare molto più velocemente di quanto non avessi mai fatto, con tanto di doccia lampo.
Dovevo andare in banca, quella mattina. A tutti i costi. E assolutamente prima delle 10. Sarebbe stato tutto molto più facile se non mi fossi svegliato alle 9. Alle 10:30 il mio padrone di casa, il simpaticissimo, l’adorabile, l’unico nonché meravigliosamente inimitabile signor Smythe senior, sarebbe passato dal mio appartamento per riscuotere l’ammontare dell’affitto. In contanti. E se non l’avessi pagato, io mi sarei trovato –testuali parole- “col culo in mezzo alla strada.” Avevo sempre amato la finezza di quell’uomo.
Non che avessi problemi di soldi, solo che ero infinitamente pigro. Per questo mi ero inevitabilmente ridotto all’ultimo, ed ora ero intento a fissare lo schermo del cellulare ogni due minuti, controllando il tempo che continuava a scorrere impietosamente.
Le 9:55.
Maledizione, maledizione, maledizione!
Praticamente non ce l’avrei fatta nemmeno volando.
Mi sforzai di essere ottimista.
Magari il signor Smythe senior avrebbe tardato di qualche ora. Magari non gli sarebbe suonata la sveglia. Magari sarebbe inciampato nel suo ego scendendo dal letto. E magari si sarebbe rotto un braccio. O avrebbe perso un dente –fissato com’era con la sua dentatura cavallina, questo gli avrebbe richiesto anni e anni di psicoterapia. O magari i fantasmi degli affittuari passati, presenti e futuri gli avrebbero fatto capire che persona insostenibile fosse, e si sarebbe deciso a lasciarmi in pace, magari abbonandomi due o tre mesi di affitto.
O magari potevo provare a darmi una mossa e tentare la fortuna.
Sì, sarebbe stato decisamente meglio.
Scattai come una molla fuori dalla porta che si stava aprendo troppo lentamente, beccandomi una serie di improperi e occhiatacce che avrebbero fatto impallidire il più alterato degli scaricatori di porto.
Newyorkesi. Perennemente nervosi. Mah.
Maledissi le mie gambe corte –prendendo nota di non farlo mai ad alta voce, o sarei stato preso in giro letteralmente a vita- mentre saettavo tra decine di persone che mi sembravano irrimediabilmente grigie.
Per un attimo pensai che ci sarebbe stato un vecchietto imbellettato all’ingresso della banca, pronto a consegnarmi come minimo una medaglia per quella maratona che avrebbe fatto impallidire anche il più palestrato di quei tizi che mi scrutavano dall’alto in basso con aria di sufficienza; e invece no.
Quando arrivai all’ingresso dell’imponente edificio di mattoni, non c’era nessun vecchietto imbellettato. C’eravamo solo io e il mio fiato corto.
Non c’erano nemmeno due miseri folletti che controllassero la mia identità; avrei potuto essere Harry Potter, per la miseria! Voldemort non sarebbe stato contento.
Okay, Blaine, stai divagando.
In effetti sì, stavo divagando.
Ma solo perché quella mattina non avevo assunto la mia dose giornaliera di caffeina, e il mio cervello non era in grado di formulare pensieri coerenti. Cercai di superare la tristezza che mi assaliva sempre quando mi rendevo conto di vivere in un mondo di Babbani, presi un respiro profondo ed entrai.


                                                                                    ***
Mi mordicchiai distrattamente l’interno della guancia, intimandomi di smettere un secondo dopo. Se avessi continuato così, mi sarei letteralmente scavato un buco nella faccia. E non era il caso, visto il capitale che spendevo per prendermene minuziosamente cura.
Gettai un’altra occhiata all’orologio: le 9:55.
Per fortuna quel giorno non avrei avuto prove, e potevo permettermi di perdere anche tutta la mattinata.
Cioè, non proprio tutta. Diciamo che c’era un motivo ben preciso per cui mi ero fiondato in banca praticamente non appena mi ero svegliato –dopo tutti i rituali di bellezza mattutini, s’intende.
Avevo letto da qualche parte che, secondo alcune ricerche, le rapine in banca tendono a svolgersi il Lunedì o il Venerdì, dalle 11 alle 13.30.
Quindi no, non era un caso che fossi in banca il Mercoledì dalle 9.20.
Diciamo solo che amo definirmi una persona prudente. Forse un pizzichino paranoica.
Giocherellai nervosamente con le pieghe che i jeans scuri formavano all’altezza del ginocchio, mollemente appoggiato sull’altra gamba, e mi tirai lievemente verso il basso l’orlo del gilet nero e aderente, abbottonato su una semplice maglia grigia. Passai poi a tormentarmi il labbro con i denti, e rinunciai all’idea di impedirmelo. Ero veramente troppo nervoso. D’altra parte, non potevo farci niente; avevo questa assurda fobia delle banche. Mea culpa.
Ma era diventato strettamente necessario aprire un nuovo conto, su cui depositare gli incassi degli spettacoli –o almeno, così aveva detto il mio commercialista. Per quanto mi riguardava, l’economia e gli unicorni si trovavano allo stesso grado di esistenza pratica: sfioravano lo zero assoluto.
Altra occhiata all’orologio: le 10.02.
Sbuffai piano, accomodandomi meglio sulla poltroncina di pelle; da quando in qua si doveva prendere un appuntamento per andare in banca? E soprattutto, da quando in qua tutta New York aveva bisogno di prelevare soldi il Mercoledì mattina?
Osservai le persone sedute accanto a me, tutte intente a tamburellare nervosamente con le dita sulle borse di pelle o a parlare al telefono così velocemente che a malapena intravedevo le loro labbra, e sentii un vago senso di nausea invadermi lo stomaco: non ero mai riuscito a sentire la caotica e frettolosa New York come una casa; all’inizio avevo pensato che lì mi sarei trovato benissimo, perché a nessuno sarebbe importato che fossi gay oppure no, ma ben presto avevo realizzato che lì, nella Grande Mela, a nessuno sarebbe importato. Punto. Che io esistessi oppure no, alla città e ai suoi abitanti non sarebbe importato nulla.
In quella città sembravano tutti costantemente distratti. Ecco la parola che stavo cercando. Distratti. Avrebbero potuto atterrarmi con una gomitata in mezzo alla strada, eppure tutti avrebbero continuato a camminare spediti, correndo dietro al tempo, illusi di star facendo qualcosa di veramente utile. E parlavo per esperienza personale.
Per questo mi ero sforzato di non perdere la mia vecchia abitudine di cercare di cogliere le espressioni sui volti delle persone che vedevo camminare sul marciapiede, di osservare bene tutto ciò che mi circondava, invece di piantare lo sguardo sull’asfalto fino ad assumerne la stessa tonalità grigio topo. Ero rimasto me stesso, nonostante la città, nonostante gli spettacoli e il successo, nonostante i nuovi giri di amicizie –che non avevano comunque sostituito quelli vecchi- e ne ero fiero, anche se in segreto; non volevo passare per il ragazzo di provincia che si monta la testa quando sente il tintinnio di due monete nella tasca.
Sospirai, rassegnandomi ad una lunga attesa, ed estrassi un libro dalla tracolla appoggiata sulle sedia alla mia sinistra, complimentandomi ancora con me stesso per la scelta: Harry Potter e il Calice di Fuoco. Sì, avevo 23 anni. Sì, leggevo Harry Potter. Lo leggerò anche quando ne avrò 50, se è per questo.
Lo aprii alle prime pagine, ignorando lo sguardo scettico –corredato di sopracciglio alzato- che mi lanciò una donna bionda palesemente ossigenata che masticava rumorosamente un chewing gum mentre parlava a telefono con voce fastidiosamente stridula. Peggio per lei. Non sapeva quello che si perdeva.
Gli abitanti di Little Hangleton la chiamavano ancora Casa Riddle, anche se erano passati tanti anni da quando i Riddle ci abitavano. Si trovava sulla collina che dominava il villaggio …*
Quasi non feci nemmeno in tempo ad iniziare a leggere, che un’esclamazione decisamente insensata mi costrinse a sollevare lo sguardo e puntarlo su un ragazzo che mi dava le spalle, rivolto verso una donna di mezza età con degli improbabili capelli rossi che sfoggiava un’espressione sgomenta degna di un oscar “No che non posso spostare la borsa, dentro c’è il mio Arturo!”
Sollevai un sopracciglio, con espressione scettica; ma che …?
Non potei trattenere un sorriso, quando dalla borsa oscenamente rosa che era depositata sulla sedia a fianco della signora fece capolino un musetto peloso e infiocchettato, che abbaiò come a chiarire il concetto.
Vidi il ragazzo sfiorarsi la nuca sotto i mori capelli ricci con aria imbarazzata, per poi girarsi, rosso in viso, per cercare una poltroncina libera; era davvero un bel ragazzo, non c’è che dire: anche con i ricci visibilmente scompigliati dalla fretta, i vestiti leggermente stropicciati, le guance arrossate e le labbra dischiuse, niente avrebbe potuto reggere il confronto con la luce di quegli occhi: non erano color nocciola, non erano verdi, non erano nemmeno dorati. Erano un misto di quelle sfumature, e sembravano cambiare tonalità di castano in base all’angolazione con cui li colpiva la luce che entrava dalle ampie vetrate.
Cercai di riscuotermi, quando i nostri occhi si incontrarono, e gli sorrisi brevemente, indicandogli la sedia di fianco a me da cui spostai prontamente la tracolla, adagiandola sulle mie ginocchia.
Il sorriso riconoscente e sollevato che mi rivolse gli illuminò ancora di più lo sguardo, e fece fare al mio cuore una piccola capriola.
Si avvicinò a me con passo svelto “Grazie” mormorò, sedendosi “Deduco che non hai un cucciolo di rottweiler nella tracolla?” Ridacchiai, scambiando con lui uno sguardo complice “Oh, no. Solo un piccolo Ungaro Spinato.” Mi resi conto un attimo dopo che probabilmente non avrebbe colto la citazione; in fondo doveva avere la mia età, era improbabile che conoscesse Harry Potter …
E invece, un sorriso estasiato gli si allargò sul volto, mentre commentava “Sicuramente abbiamo la nostra Umbridge”, accennando alla donna che l’aveva apostrofato poco prima.
Un sorriso, che sapevo essere molto simile al suo, mi distese le labbra. Conosceva Harry Potter. Questo gli faceva guadagnare come minimo 20 punti.
Tese la mano verso di me, presentandosi “Piacere, fan di Harry Potter! Mi chiamo Blaine. Blaine Anderson.”
Non potei trattenere un altro sorriso “Piacere, altro fan di Harry Potter! Io sono Kurt. Kurt Hummel.”
“È davvero un piacere Kurt. E grazie mille per avermi salvato da Dolores. Per un attimo ho temuto che mi avrebbe aizzato contro quella specie di barboncino agghindato.”
“Il piacere è mio” ridacchiai “Mi hai salvato dalla noia di un’attesa infinita” Vidi la sua espressione farsi preoccupata, e temetti di aver detto qualcosa di sbagliato “È da molto che aspetti?” Mi chiese infatti, con un gemito sofferente.
Controllai l’ora: le 10.12.
“Ormai sono cinquanta minuti” risposi, con una smorfia infastidita.
Lo guardai preoccupato, quando affondò il viso tra le mani, mugugnando disperato.
“Ehm … Tutto bene?” chiesi, esitante, dopo qualche istante.
“No” borbottò, sollevando uno sguardo così sconsolato che, contro ogni logica, provai l’irresistibile impulso di abbracciarlo; per fortuna non lo feci, e lui continuò a spiegare “Dovrei pagare l’affitto alle 10.30 precise, e non ce la farò mai! Questa è la volta buona che mi ritrovo i vestiti sul pianerottolo!” concluse, con un gemito.
Sentii un profondo dispiacere per lui, e non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello che magari lo stesse dicendo solo per convincermi a cedergli il mio posto; quegli occhi erano troppo sinceri per poter mentire.
“Se vuoi ti posso cedere il mio posto in fila … Tra poco dovrebbe toccare a me; anzi, sono proprio dopo Dolores” conclusi, accennando alla chioma rosso fuoco che si avviava orgogliosamente verso un dipendente della banca, con la borsa e Arturo stretti al petto.
Blaine spalancò gli occhi, visibilmente sorpreso “Tu non sei di New York, vero?”
Quella domanda mi spiazzò, facendomi arrossire “Ehm … N-No, veramente no …”
“Oh, ci avrei scommesso” mi regalò un altro dei suoi sorrisi “Nessun newyorkese oserebbe perdere tempo ed essere gentile.” Ridacchiai per il tono fintamente disgustato con cui pronunciò quelle ultime parole “E ti ringrazio davvero, ma magari hai fretta anche tu; non l’ho detto perché tu ti sentissi obbligato—”
Sentii il bisogno di interromperlo, mentre il suo discorso impacciato mi inteneriva, forse troppo “Blaine” notai solo in quel momento che ci stavamo dando del tu con una naturalezza disarmante “Non c’è nessun problema, davvero; non ho nessuna fretta, e non ho pensato nemmeno per un attimo che tu l’avessi fatto apposta.”
“Allora grazie mille” indugiò per un poco coi suoi occhi nei miei, permettendomi di notare come fosse capace di sorridere anche solo con lo sguardo.
Piegai leggermente la testa di lato, e stavo decidendo se fosse il caso di cercare un altro argomento di conversazione –o meglio, stavo disperatamente cercando un altro argomento di conversazione perché Blaine aveva una voce meravigliosa, e tanto valeva distrarsi un po’, visto che la mia attesa si era prolungata infinitamente- quando delle urla mi gelarono letteralmente sul posto.
                                                                                  ***
Improvvisamente, sentii che non mi dispiaceva affatto di aver fatto tardi, quella mattina; anche se questo avesse voluto dire che sarei dovuto andare a caccia di un altro appartamento. Quegli occhi azzurri, straordinariamente chiari e vividi, ne valevano la pena.
L’avevo notato subito, quando avevo raggiunto l’area allestita come una sorta di sala d’aspetto: era l’unico che stesse leggendo, in mezzo a tanta gente impegnata a parlare a telefono o sfogliare svogliatamente noiosissimi fascicoli di lavoro. Però non mi ero avvicinato subito a quel ragazzo che sembrava così straordinariamente posato e aggraziato anche stando semplicemente seduto, per paura di disturbarlo; a quanto pare, però, l’Universo aveva comunque altri piani per me, e quindi eccomi là, mentre cercavo di non perdermi in quella voce straordinariamente cristallina.
Non volevo essere eccessivamente ottimista, ma … Perché no, sembrava gay. E la cosa mi compiaceva non poco. Magari avrei potuto chiedergli il numero –in fondo, stavamo chiacchierando così amichevolmente, non sarebbe stato troppo strano, no?-, ci saremmo visti per un caffè, poi una pizza, un film, da cosa nasce cosa …
Blaine. Stai divagando di nuovo.
No. Questo non è divagare. È sognare. Anzi, è ipotizzare.

E mi sembrava perfettamente coerente ipotizzare su un ragazzo del genere; estremamente carino, con i suoi lineamenti delicati e regolari –e quegli occhi-, gentile, simpatico, disponibile … e poi, leggeva Harry Potter. Non solo lo leggeva, lo citava. Quindi lo conosceva bene. Ne ero assolutamente estasiato.
Rimasi stupidamente incantato dal movimento elegante con cui piegò la testa di lato, per accettare i miei ringraziamenti, arrossendo lievemente: era questo il bello di Kurt, la cosa che mi era immediatamente saltata all’occhio: sembrava non rendersi minimamente conto dell’effetto che aveva sugli altri, di come ogni suo movimento fosse così aggraziato da fendere delicatamente l’aria, come una creatura magica.
Stavo per farlo. Stavo per raccogliere tutto il coraggio che avevo e chiedergli se magari non gli sarebbe andato di uscire, uno di quei giorni, quando delle urla mi gelarono sul posto, e un rumore secco e inconfondibile sembrò squarciare l’aria, ferendomi le orecchie: uno sparo.
“TUTTI A TERRA! STATE TUTTI GIÙ! METTETEVI A TERRA, CAPITO?! METTETEVI A TERRA, LA FACCIA VERSO IL PAVIMENTO, O SPARIAMO!”
Seguii un istinto primordiale, mentre il respiro mi si bloccava prepotentemente in gola e il cuore prendeva a battermi all’impazzata nel petto; feci appena in tempo a scorgere tre uomini col passamontagna che impugnavano altrettante pistole, avanzare minacciosamente nell’edificio, prima che le mie ginocchia mi trascinassero sul marmo duro e freddo del pavimento, sul quale poco dopo appoggiai anche la fronte; non riuscivo a sentire niente, era tutto troppo confuso, c’era solo il mio respiro affannato e la percezione del sangue che correva nelle mie vene.
Fu una sensazione a trascinarmi di nuovo nella realtà. Un istante. La mano di Kurt aveva sfiorato la mia, probabilmente per sbaglio, e l’avevo sentita gelida e scossa da un tremito incontrollabile. Sentii il bisogno di tranquillizzarlo, e di essere tranquillizzato a mia volta da quel mezzo sorriso, da quegli occhi luccicanti; avrei voluto parlargli, dirgli che sarebbe andato tutto bene, perché c’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel sentire quel corpo così delicato tremare. Ma non potevo rischiare di alzare lo sguardo su di lui, avrei finito per mettere nei guai entrambi. Me e quel magico ragazzo che sembrava non essere mai stato corrotto dalla vita e dalle sue cattiverie.
Così mi limitai a cercare la sua mano, e intrecciai le mie dita alle sue, stringendole; poi mi arrischiai a tirarlo leggermente verso di me, aiutato dalla superficie liscia del pavimento e da Kurt stesso, che sembrava aver capito le mie intenzioni; ci ritrovammo con i volti vicini, le mani ancora intrecciate in una morsa terrorizzata.
Cercai i suoi occhi spostando lo sguardo di lato, senza sollevare la testa, e vidi che lui cercava di fare lo stesso; mi si strinse il cuore nel vederlo così vulnerabile e indifeso, con gli occhi azzurri sbarrati e lucidi, e gli strinsi le dita con un po’ più di forza.
“Andrà tutto bene Kurt, d’accordo? Ti prometto che usciremo presto da qui. Non ti lascio.” Gli dissi, approfittando della confusione e del panico creati dai rapinatori, che mi permettevano momentaneamente di parlare.
“D’accordo. Nemmeno io ti lascio” sussurrò, intrecciando ancora più a fondo le sue dita alle mie.
Continuammo a guardarci il più possibile, cercando conforto l’uno negli occhi dell’altro, nelle dita dell’altro, mentre l’angoscia, la paura, l’ansia, non solo per me, ma anche per Kurt, minacciavano di soffocarmi e farmi perdere completamente il controllo. Sentivo già il panico che prendeva possesso delle mie gambe; se fossi stato in piedi, mi sarei accasciato come un burattino a cui vengono tagliati i fili.
Il respiro mi si faceva sempre più corto, era sempre più faticoso spingere l’ossigeno fino al cervello, e la testa iniziò a girarmi inesorabilmente, mentre stringevo i denti per soffocare la sensazione di nausea che minacciava di sopraffarmi.
“Blaine …” fu quel sussurro a salvarmi, a costringermi a tornare in me, e mi sforzai di aprire gli occhi, per quella voce, cercai di ignorare tutto quello che stava succedendo attorno a noi; ma c’erano così tante grida, e gemiti, e pianti, e sentivo le persone ansimare per la paura, mentre un altro sparo si udiva in lontananza, e io non potevo farcela …
“Blaine, va tutto bene, d’accordo? Ci sono io. Rimaniamo insieme, andrà tutto bene.”
E guardando quegli occhi, trovai la forza di annuire contro il marmo freddo che già mi solcava la fronte.

                                                                             ***
Eravamo distesi su quel pavimento da venti minuti, forse. Non avevo quasi idea di cosa stesse succedendo attorno a noi. C’erano solo gli occhi di Blaine. Di quel ragazzo che avevo conosciuto forse mezz’ora prima. Erano i suoi occhi, ora, a impedirmi di impazzire completamente, di cadere preda del panico. Perché, se non ci fosse stato lui, di sicuro mi sarei fatto prendere da una crisi isterica in piena regola. Invece, averlo visto terrorizzato e bisognoso di conforto, mi aveva dato la forza di aiutarlo, e di essere forte a mia volta.
Gli avevo stretto la mano per tutto il tempo, le mie dita ghiacciate contro il suo palmo caldo; gli avevo detto che sarebbe andato tutto bene. Gliel’avevo promesso, e lui l’aveva promesso a me. Avrei fatto di tutto per non deluderlo, e per vederlo sorridere di nuovo, in quel modo particolare e solare, in un modo che riesce a renderti un po’ di fiducia negli uomini.
Gli lanciai un’altra occhiata, e vidi che lui già mi stava guardando, da quella posizione scomoda e assurda, che ci obbligava a girare gli occhi fino ai limiti dell’inverosimile: quasi sentivo dolore; ma non mi importava. Avrei fatto di tutto, pur di sentirmi al sicuro in quegli occhi dorati, e farlo sentire al sicuro nei miei.
Una morsa mi strinse lo stomaco, quando vidi la sua espressione affranta e terrorizzata, e mi dissi che dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di farlo sentire meglio.
Sapevo che uno dei rapinatori era rimasto con noi al piano terra, vicino all’entrata, e ci sorvegliava puntando minaccioso la pistola, mentre gli altri due si erano recati a prelevare educatamente i contanti. Non sapevo se ce ne fossero altri oppure no, ma mi sembrava strano che tre uomini soli avessero deciso di rapinare una banca; forse alcuni complici li aiutavano dall’esterno.
Continuai a tenere incatenati ai miei gli occhi dorati, cercando di ignorare i gemiti e i singhiozzi soffocati che sentivo arrivare da tutte le parti, e di tenere a bada il nodo di panico che mi stringeva lo stomaco sempre di più.
“Magari ora il tuo padrone di casa ti lascerà l’appartamento.” Mormorai contro il marmo, non completamente certo che Blaine potesse sentirmi. Lo guardai con la coda dell’occhio, e vidi che aveva spalancato gli occhi per la sorpresa “Sì, direi che essere vittima di una rapina potrebbe rappresentare un’ottima giustificazione per un mancato pagamento” soffiò in risposta, cercando visibilmente di tenere a bada la paura; rivolsi al pavimento un sorriso silenzioso, certo che lui l’avrebbe visto “Cosa fai nella vita, Blaine?” Cercavo di mantenere viva la conversazione, mi sembrava l’unico modo per mantenere un pizzico di lucidità.
Lui sembrò condividere, perché rispose come se stessimo tranquillamente chiacchierando davanti ad un caffè “Suono e canto in un locale, di sera. E tu?”
Non potei essere completamente sorpreso; una voce del genere sembrava essere fatta apposta per accompagnare gli accordi di una canzone dolce e avvolgente. Arrossii, nel rispondere alla sua domanda “Io … Canto … Sai, a Broadway …” non potei trattenere una punta di orgoglio, nel dirlo. Era sempre stato il mio sogno, e alla fine l’avevo realizzato; non era stato facile, ma ne era valsa assolutamente la pena.
Non riuscii a resistere, e gli scoccai un’occhiata, temendo un poco la sua reazione; e difatti, Blaine mi stava guardando con gli occhi spalancati, anche se il viso era sempre rivolto al pavimento “Caspita!” esclamò, cercando di contenere il tono, che rischiava pericolosamente di salire per lo stupore.
“Già” mormorai, arrossendo ancora di più.
“In effetti, hai una voce davvero bella” quel complimento, che era suonato così naturale e spontaneo, mi fece salire le lacrime agli occhi, che scivolarono silenziose lungo le guance.
Forse non fu solo il commento di Blaine, e giocò nettamente a mio sfavore anche la situazione non proprio rosea.
Lui se ne accorse e lo sentii sussultare dalla stretta delle sue dita “Ti prego Kurt, non piangere, ti prometto che andrà tutto bene …”
“L-Lo so” riuscii con successo a frenare i singhiozzi che rischiavano di scuotermi il petto “È che è tutto così assurdo … E ho così tanta paura …” Mi sentivo uno sciocco ad ammetterlo, ma era esattamente così: sentivo quel terrore crescere dentro di me come se fosse palpabile,  e minacciava ogni secondo di sopraffarmi, se non lo avessi imbrigliato con il mio proverbiale raziocinio. Ma ero pericolosamente vicino a crollare. Soprattutto ora che i passi pesanti degli anfibi del malvivente risuonavano così vicini a noi da farmi sembrare che stesse camminando direttamente nella mia testa.
Sospirai di sollievo, piano, sentendo che si allontanava, mentre altre lacrime mi scivolavano silenziose lungo il viso, e le vedevo raccogliersi sul marmo, mosse dal mio respiro spezzato. Potevo sentire il cuore battere frenetico nelle mie orecchie.
Girai di nuovo lo sguardo, quando le dita di Blaine tirarono lievemente le mie, e gliene fui immensamente grato; mi permise di usare l’oro dei suoi occhi come un salvagente, in quella situazione folle, e mi ci aggrappai con tutta la forza che avevo.
“M-Mi dispiace, n-non dovrei piangere, s-sono un idiota …” Strinsi gli occhi con forza, sentendomi infinitamente sciocco: dovevo cercare di mantenere la calma, non comportarmi come una ragazzina, non in una situazione in cui era fondamentale non attirare l’attenzione.
 Blaine mi avrebbe giudicato un codardo, e avrebbe anche avuto ragione. La paura e il terrore mi stavano divorando. 
Fui costretto ad aprire di nuovo gli occhi, quando sentii una lieve carezza sul dorso della mano: Blaine mi stava sfiorando col pollice, cercando di farmi alzare lo sguardo su di lui.
“Non sei un idiota, d’accordo?” la voce gli tremava, e potevo vedere che i suoi occhi erano più lucidi di prima “È solo per qualche bizzarro miracolo che non sto piangendo anch’io sbattendo la testa sul pavimento, te lo posso assicurare” quella piccola confessione mi strappò una lieve risatina, appena accennata e subito attutita dal pavimento.
Mi sentii subito meglio, sollevato, nel sapere che eravamo entrambi sull’orlo del baratro; e, soprattutto, che c’eravamo insieme.
                                                                                     ***
“Abbiamo degli ostaggi, cosa cazzo credi? Vogliamo la nostra macchina, e vogliamo potercene andare in pace! Vedi di farcela trovare, o avrai uno di questi stronzi sulla coscienza!”
Sussultai, sentendo la cornetta del telefono che sbatteva violentemente sul legno della scrivania.
Eravamo distesi sul marmo da più di un’ora, ne ero quasi certo; di sicuro ne erano certe le giunture delle mie ginocchia, che urlavano dal dolore, e il braccio teso all’indietro, con la mano ancora stretta attorno a quella di Kurt, che formicolava in maniera preoccupante. Cominciavo anche ad avere la gola secca, e la paura mi aveva intontito e lasciato spossato, ancora scosso da tremiti sporadici.
Mi ero sforzato di controllarmi, per evitare di turbare ancora di più il bellissimo ragazzo che stringeva inaspettatamente la mia mano, fidandosi di me nonostante le circostanze –o forse proprio a causa delle circostanze-, ma tutta la situazione rischiava di farmi precipitare nella crisi isterica che aveva già minacciato di presentarsi quella mattina; respirai a fondo, e girai di nuovo lo sguardo, alla ricerca di quegli occhi meravigliosamente azzurri di cui, ormai, avrei potuto replicare a memoria l’esatta sfumatura chiara e disarmante: non erano solo azzurri, in realtà. Avevano una sfumatura verde attorno alla pupilla, che si perdeva nel ghiaccio dell’iride. Erano bellissimi.
Mi accorsi che il mio respiro si era calmato, e non potei fare a meno di essergli infinitamente grato. Come faceva a farmi sentire meglio solo con uno sguardo?
Riportai l’attenzione su quello che mi succedeva attorno, cercando di cogliere più dettagli possibile, anche se era un tentativo quanto meno arduo, visto che avevo la fronte sempre premuta dolorosamente sul dorso della mano.
Per quanto avevo capito, i rapinatori avevano avuto qualche difficoltà e non sapevano come lasciare la banca –io e Kurt eravamo quasi scoppiati a ridere, quando l’avevamo sentito, decisamente poco aiutati dall’isteria- e ora pretendevano una macchina dai poliziotti che ormai circondavano l’edificio; se non gliel’avessero procurata, avrebbero ucciso un ostaggio. Era stato più o meno a quel punto che la voglia di ridere aveva ceduto il posto di nuovo al panico con una velocità disarmante.
Osservai di nuovo Kurt, di sfuggita, ma qualcosa mi costrinse a rimanere con gli occhi fissi nei suoi: era pallidissimo, ormai il suo incarnato latteo tendeva ad un terribile grigio, e sentivo le sue dita freddissime praticamente abbandonate nelle mie; dovette cogliere il panico nel mio sguardo, perché mi rivolse una vaghissima imitazione di un sorriso, mormorando “Non preoccuparti. È solo … Solo un calo di pressione”
Sentendo la sua voce ridotta ad un sussurro così flebile da essere quasi inesistente, il terrore mi attanagliò lo stomaco, e avvolsi completamente la sua mano nella mia, voltandomi verso di lui con tutta la testa, di scatto, dimenticandomi completamente di dove fossimo.
“Kurt!” Mi uscì un mormorio accorato e concitato, mentre lo scuotevo delicatamente per una spalla “Kurt!” stavolta il panico e la disperazione erano udibili chiaramente nella mia voce; cosa gli succedeva? Perché non rispondeva?
Lo afferrai con più decisione, mentre alcuni volti attorno a me cominciavano a guardarmi sempre più apertamente, preoccupati; lo feci voltare, di modo che fosse disteso sulla schiena, e vidi che aveva gli occhi chiusi, il volto leggermente contratto.
“Cosa credi di fare?!”
Doveva essere stato un calcio. Un colpo mi raggiunse all’altezza del costato, lasciandomi senza fiato e scaraventandomi via da Kurt.
Non mi lasciai il tempo di registrare il dolore che si propagava dal punto colpito; mi riavvicinai gattonando al ragazzo svenuto, bene attento a tenere gli occhi piantati per terra. Era così pallido e immobile da farmi tremare le ginocchia
“È svenuto” sibilai, a corto d’aria.
“E cosa cazzo vuoi che me ne freghi?!”
Ero incredulo, arrabbiato, terrorizzato: cosa avrei fatto? Kurt doveva svegliarsi, doveva, ancora non gli avevo chiesto se avrebbe voluto prendere un caffè con me … Come diavolo avrei fatto ad aiutarlo?
Sentii le lacrime pungermi gli occhi, quando una voce femminile, giovane, sicura e ferma, parlò da un punto imprecisato alla mia sinistra “Dovrebbe fregartene, invece. Se non riprende conoscenza entro un minuto, dovremmo portarlo in ospedale. Potrebbe soffocare nel suo stesso vomito, non sappiamo cosa gli sia successo. Non credo che tu e i tuoi degni compari vogliate aggiungere un omicidio alla voce ‘rapina a mano armata’ sui vostri curriculum.”
Vidi il rapinatore esitare un attimo, e poi avvicinarsi con passo pesante alla ragazza che aveva parlato; aveva dei lunghi capelli scuri e tratti ispanici.
“E tu che diavolo ne sai?” sputò, sollevandola per il colletto della giacca nera.
“Sono un’infermiera” sibilò lei, con gli occhi rivolti al pavimento che lanciavano scintille.
Sentii che sbuffava pesantemente, lasciandola ricadere a terra con poca grazia, probabilmente indeciso su cosa fare; ma io non prestavo loro attenzione: ero troppo concentrato sul viso di Kurt, ancora troppo bianco e velato da uno strato di sudore.
“E va bene!” Sbottò il rapinatore “Aiutatelo” indicò me, la ragazza e Kurt con la pistola “Ma non vi azzardate a fare scherzi, o il bambolotto di porcellana sarà il primo a pentirsene.” Concluse, sottolineando il concetto con l’arma che teneva puntata su un punto ben preciso accanto a me.
L’ispanica si alzò velocemente, e mi trattenni dal notare ad alta voce che una minigonna, una camicetta e dei tacchi vertiginosi non mi sembravano esattamente un abbigliamento da infermiera, anche perché un sollievo irrazionale mi alleggerì il petto nel momento in cui la ragazza mi invitò ad alzarmi con un gesto perentorio, e entrambi ci avvicinammo a Kurt.
Lei si inginocchiò accanto alla sua testa, aprendogli la bocca e avvicinando due dita al suo viso, probabilmente per controllare che stesse respirando.
Mi lanciò un’occhiata rassicurante da sotto le lunghe ciglia “Sollevagli le gambe, devono essere più in alto rispetto alla testa; magari puoi appoggiargliele su una delle poltroncine …” concluse, con un gesto elegante della mano ad indicare le sedie dietro di me.
Feci come mi era stato ordinato, non senza un velo di imbarazzo, e vidi con un sollievo indescrivibile che le guance di Kurt si stavano leggermente colorando.
“Vedrai che ora si riprenderà … Dev’essere stata l’emozione” le rivolsi un piccolo sorriso sollevato, restio ad abbandonare con gli occhi quel volto pallido “Dovrebbe bere qualcosa di zuccherato …” Sembrava pensierosa, come se parlasse con se stessa; si rivolse all’uomo mascherato “Gli serve un tè freddo, o qualcosa di simile, o non si rimetterà in piedi” commentò, secca.
Gli occhi del rapinatore lampeggiarono furiosamente, poi puntò la pistola contro un ragazzo ben piazzato che ci osservava visibilmente scosso. “TU!” lo apostrofò “Vai ai distributori, e prendi questo cazzo di tè!”
Il ragazzone si alzò, vagamente pallido, e si precipitò ad eseguire gli ordini, tremando. Tornò dopo un minuto che mi parve infinito, tendendomi una bottiglietta per poi distendersi di nuovo, fronte a terra, in tutta fretta, vicino ad una ragazza minuta dai lunghi capelli castani, che lo accarezzò lievemente su un braccio non appena le fu di nuovo accanto.
Mi inginocchiai vicino al volto di Kurt, e vidi che accennava un’espressione confusa, con le sopracciglia sollevate, gli occhi ancora chiusi; non riuscii a reprimere un sorriso sollevato, mentre sollevava lentamente le palpebre, ancora scombussolato.

                                                                               ***
Ma che diavolo …?
Avevo fatto un sogno assurdo; ero andato in banca per aprire un nuovo conto, e avevo conosciuto un ragazzo davvero carino; solo che poi erano arrivati dei rapinatori e …
“Ehi? Kurt? Mi senti?”
Oh, aspetta. Quella era la voce del ragazzo davvero carino. Ma io mi stavo svegliando, quindi …
Aprii gli occhi con cautela, mentre un’ondata di nausea mi risaliva dallo stomaco; strinsi i denti, socchiudendo le palpebre per la luce che mi feriva gli occhi, mugolando per il mal di testa che mi martellava le tempie.
“Kurt?”
“B-Blaine …”Ecco come si chiama.
“Sì, sono qui!” sorrisi, in risposta al suo tono sollevato.
“Cos’è successo?”
“Sei svenuto” mormorò, da qualche parte vicino al mio viso.
Oh, certo. Ora ricordavo. I suoi occhi erano stati l’ultima cosa che avevo visto prima di essere risucchiato dal vorticare della mia testa, mentre la sua voce mi arrivava sempre meno chiara.
Sentii l’improvviso bisogno di vederlo di nuovo, di essere rassicurato; aprii gli occhi, rendendomi conto solo in quel momento della posizione in cui mi trovavo: ero semidisteso, con le gambe sollevate e appoggiate ad una delle poltroncine in pelle su cui ero stato seduto qualcosa come cent’anni prima.
Provai a muovermi, ma una voce femminile mi bloccò “Non ti conviene; rischieresti di avere un altro capogiro. Prima bevi un po’ di tè” concluse, guardando eloquentemente Blaine, che mi tese immediatamente una bottiglietta di plastica; gli lanciai uno sguardo interrogativo, che colse immediatamente “È la tua infermiera personale” mi fece l’occhiolino, ma la voce femminile lo interruppe, sottovoce, borbottando “Oh, ma per favore. Si vede lontano un miglio che Porcellana, qui, preferirebbe di gran lunga un infermiere. E che a te non dispiacerebbe affatto essere quell’’infermiere.” Concluse, con un leggero sbuffo, allontanandosi di qualche passo per mettersi seduta per terra con la schiena appoggiata ad una delle poltroncine.
Mi sentii le guance in fiamme, e pregai con tutto me stesso di svenire un’altra volta. O avrei sempre potuto aiutare il processo prendendo a testate il pavimento.
Riuscii a trattenermi solo perché vidi che Blaine mi stava ancora tendendo la bottiglia più rosso che mai.
Magari la ragazza non ha tutti i torti … E se …?
Scossi lievemente la testa, scacciando quei pensieri, mentre afferravo la bottiglietta con mano tremante, sorprendendomi della mia stessa debolezza.
Provai a sollevarmi sui gomiti, ma nessun muscolo sembrava voler collaborare. Blaine mi scrutò pensieroso per un po’, poi mi si avvicinò, e, prendendomi completamente alla sprovvista, si inginocchiò accanto a me, molto vicino, e mi passò un braccio attorno alle spalle, permettendomi di appoggiarmi completamente a lui. Gli rivolsi un sorriso grato e tremendamente imbarazzato, mentre svitavo il tè con cautela, sorseggiandolo piano, con un sospiro soddisfatto, mentre il liquido fresco e zuccherato mi scorreva lungo la gola riarsa, ridandomi un po’ di forza. Cercai di non concentrarmi sul tocco caldo di Blaine, così delicato e lieve, quasi come se avesse paura di spezzarmi, sulle mani forti che mi sostenevano, cercando di rassicurarmi.
La ragazza che mi aveva aiutato ci lanciò un’occhiata eloquente, con un sorriso vagamente soddisfatto impresso sulle labbra piene; ovviamente, arrossii ancora di più.
“Avete finito di giocare al dottore, frocetti?”
Una voce graffiante mi riportò bruscamente alla realtà, facendomi sussultare, tossicchiando quando un po’ di tè mi andò di traverso; avvertii la mano di Blaine chiudersi a pugno contro la mia schiena, e guardai di sfuggita il rapinatore, mentre una morsa di paura mi stringeva lo stomaco e la testa cominciava a girarmi di nuovo: aveva la pistola puntata contro di noi.
Sentii come da una grande distanza che il respiro mi si faceva affannato, e temetti di perdere di nuovo i sensi; ma la mano di Blaine era tornata lieve sulla mia schiena, e mi stava accarezzando con delicatezza e premura, e questo bastò a farmi recuperare un po’ di lucidità. Mi appoggiai un po’ di più al suo palmo, quasi inconsapevolmente, e lui rispose con una lieve pressione dei polpastrelli tra le mie scapole, mentre rispondeva sibilando, con la voce vibrante per la rabbia “Stavo solo cercando di aiutarlo, non c’è bisogno di agitarsi.”
Per poco non lanciai un grido quando la mano del malvivente saettò, colpendo il viso di Blaine col dorso, facendogli scattare la testa di lato con violenza. “Sono io che decido quando c’è bisogno di agitarsi, mi hai sentito, stronzetto ?”
Il ragazzo con gli occhi dorati girò di nuovo il volto, lentamente, mentre la sua furia diventava palpabile; potevo già vedere un segno rosso formarsi nel punto in cui era stato colpito. La sua mano non aveva abbandonato la mia schiena.
Si sforzò di mantenere un tono calmo “Certo, stavo solo cercando di far presente che non è in grado di muoversi da solo, quindi è necessario---”
Il rapinatore lo interruppe bruscamente, afferrandomi per il colletto della maglia e sollevandomi di peso; sentii che il panico mi invadeva di nuovo, quando fui allontanato bruscamente da quelle dita che erano state la mia sola salvezza nelle ultime ore.
Non riuscii a trattenere un gemito strozzato, quando la mia schiena urtò violentemente contro il suolo freddo, mozzandomi il respiro.
Rimasi immobile per un istante, poi accadde tutto troppo velocemente: Blaine si alzò di scatto, fronteggiando il malvivente, e lo prese di sorpresa, alle spalle: gli si avventò addosso con tanta violenza che entrambi finirono a terra accanto a me. Mi girai su un fianco, ignorando il dolore, la nausea, la paura.
Sentii uno sparo, e mi lanciai in avanti d’istinto, facendo scudo a Blaine col mio corpo. Un dolore lancinante. Delle urla. Poi ci fu solo il buio.
                                                                                       ***
Una furia poco familiare mi invase il petto, quando sentii che Kurt veniva strappato via dalle mie braccia; sentii che la rabbia si impossessava persino dei miei occhi, quando vidi la smorfia di dolore che gli attraversò il viso nel momento in cui venne scaraventato di schiena sul pavimento.
Non ero mai stata una persona violenta.
Anzi, avevo sempre disprezzato tutti quelli che alzavano le mani. Anche quelli che alzavano la voce, a dirla tutta.
Ma in quel momento non ci vidi più.
Perché quel volto non era fatto per esprimere dolore. Quel corpo non era fatto per portare su di sé i segni della violenza. Quel ragazzo così delicato, fragile, coraggioso e forte, che conoscevo a malapena, e che mi aveva sostenuto come se in realtà fossimo amici da sempre, non poteva meritarsi niente di tutto quello.
Riuscivo a pensare solo questo: era troppo perfetto per essere violato. Era troppo buono.
Mi mossi d’istinto, praticamente senza riflettere, non ce n’era bisogno.
Mi avventai letteralmente contro la sua schiena, perché dovevo allontanarlo da lui. Dovevo allontanarlo da Kurt, dal suo sorriso sghembo e dai suoi occhi magici. Perché non avevo ancora avuto abbastanza tempo per conoscerli davvero, quegli occhi, e non potevo lasciare che un idiota con una pistola me lo impedisse.
Finimmo per terra, e quello che vidi quando riuscii a mettermi in ginocchio, col fiato corto, mi gelò il sangue nelle vene.
Vedevo solo la canna della pistola puntata contro di me.
Vidi un lampo negli occhi del rapinatore, fu l’unico segnale.
Sentii un rumore assordante, e chiusi istintivamente gli occhi.
Ma il dolore non arrivò.
Ci fu solo un gemito soffocato davanti a me, delle urla.
Mi ritrovai a fissare il sangue di Kurt, e la mia mente faceva fatica anche a solo a collegare quei due concetti.
Sangue. Kurt.
Era raggomitolato davanti a me, il volto esangue, gli occhi chiusi, una mano debolmente premuta sul fianco, fra le dita pallide scorreva del rosso.
Sangue. Kurt.
Non mi accorsi di niente.
Non mi accorsi di quello che succedeva attorno a me.
Non mi accorsi della ragazza ispanica che aveva colpito il rapinatore con un calcio al viso.
Non mi accorsi dei poliziotti che avevano fatto irruzione nella banca, mettendo fuori combattimento anche gli altri malviventi.
Mi accorsi solo del ragazzo che si era preso una pallottola al posto mio senza nemmeno conoscermi.
Mi accorsi del colore che abbandonava inesorabilmente le sue guance.
Mi accorsi del suo respiro che si faceva sempre più lieve.
Mi accorsi del desiderio che avevo di parlare di nuovo con lui di Harry Potter.
Mi accorsi della volontà disperata di conoscerlo meglio.
Non mi accorsi di niente.
Solo del dolore.

                                                                                         ***
Non volevo aprire gli occhi. Perché finché li avessi tenuti chiusi, sarei rimasto nella mia bolla perfetta: era tutto silenzioso, tutto deliziosamente ovattato. Non c’erano grida, non c’erano pianti, non c’erano sogni che ti lasciano l’amaro in bocca quando ti svegli; non c’erano pistole, non c’erano brutti ricordi, non c’era un passato da dimenticare e un futuro che faceva solo paura; non c’erano passi sbagliati e sospiri pentiti. Era tutto deliziosamente ovattato.
Ma fuori di lì c’era solo dolore. Lo avvertivo, premeva contro i confini della mia mente; stava aspettando solo un attimo di distrazione, e avrebbe fatto scoppiare la mia bolla di pace. Mi avrebbe trascinato nella realtà senza pietà, mi avrebbe costretto ad affrontarla, e io non volevo. E forse per questo ero un codardo. Ma almeno sarei stato un codardo felice.
Fu un momento, un sospiro, a ricordarmi che avrei potuto essere felice anche fuori di lì, anche se avessi aperto gli occhi; forse sarei stato persino più felice. Fu il tocco lieve di una mano sulla mia. Una carezza. Forse non era giusto che riconoscessi quel tocco, forse era davvero troppo presto. Eppure sapevo che l’avrei riconosciuto tra mille; perché era stato proprio quel tocco ad impedirmi di impazzire … Quanti secoli prima? Non importava. Quelle carezze gentili e preoccupate mi avevano tenuto a galla in mezzo alla bufera, e lo stavano facendo ancora.
Lottai contro le mie stesse palpebre, che sembravano due macigni e non volevano saperne di aprirsi, di lasciarmi incrociare quegli occhi dorati.
Non mi interessava del dolore, e nemmeno della mia stupida bolla.
Volevo solo quegli occhi dorati.
Anche se sapevo che se ne sarebbe andato subito, perché in fondo nemmeno ci conoscevamo; forse voleva solo sapere come stavo. Magari ringraziarmi, perché no; in fondo, era per lui che avvertivo un dolore pulsante al fianco.
Perché non avevo mai creduto nell’amore a prima vista, e non ci credevo nemmeno adesso.
Ma l’immagine di quel viso distorto dal dolore mi aveva fatto agire prima di pensare.
E non me ne pentivo affatto.
                                                                                      ***
Rimasi accanto a lui tutta la notte.
Non avrei potuto, in realtà, ma Santana –era quello il nome della ragazza ispanica, che no, non era un’infermiera, ma una poliziotta sotto copertura- doveva aver parlato con le infermiere, e fortunatamente mi avevano permesso di restare lì senza troppe storie. Non che sarebbero riusciti a farmi andare via, comunque. Non avrei lasciato Kurt nemmeno se avessero minacciato di arrestarmi e sbattermi in galera a vita.
Kurt.
Kurt che si era preso una pallottola al posto mio.
Kurt che mi aveva fatto scudo col proprio corpo.
Kurt, uno sconosciuto.
Appoggiai un gomito sulle lenzuola bianche, passandomi una mano sul viso, mentre con l’altra non smettevo di accarezzargli il palmo.
Non riuscii proprio a fermare le lacrime che mi solcarono il viso.
“Mi dispiace così tanto” mi ritrovai a sussurrare, nel buio della camera, sperando disperatamente che si svegliasse “È stata tutta colpa mia. Mi sono comportato come uno stupido, mi sono messo contro un tizio con una pistola. E tu … Dio, tu … Ti prego svegliati. Devi svegliarti. Perché devo dirti tante cose, devo parlarti di me, devo dirti che io l’avevo capito subito che Silente era gay, e che Piton è in assoluto il mio personaggio preferito; devo guardarti di nuovo negli occhi, devo sapere se hai un gatto, e … ah, devo assolutamente dirti che sono gay! E che non ho mai fatto una cosa buona in vita mia, e voglio rimediare, voglio chiederti di uscire, portarti in un posto che non ti piacerà, perché tu sembri il tipo che mangia solo insalate, mentre io mi ingozzo di schifezze fino a scoppiare … E voglio farti arrossire, perché i tuoi occhi sembrano così azzurri quando succede … E succede spesso, me lo devi concedere. E voglio poterti tenere per mano, perché –sembrerò un maniaco a dirlo, un pazzo furioso, ma non mi interessa- mentre eravamo su quel maledetto pavimento di marmo, riuscivo a pensare solo alla mia pelle sulla tua, e … e …”
Non ce la feci a continuare; mi si mozzò il respiro in gola, e appoggiai la fronte sul materasso, mentre altre lacrime mi rigavano le guance.
“Caspita …” Una voce gracchiante ma spaventosamente familiare mi fece spalancare gli occhi e sollevare la testa di colpo “E alla data per il matrimonio non ci hai ancora pensato?”
Non potevo crederci.
Si era svegliato.
Potevo vedere di nuovo i suoi occhi.
E non mi importava di essermi appena messo in ridicolo, probabilmente come non era mai successo in vita mia –ed era tutto dire, considerando che avevo lavorato nei parchi a tema-, non mi importava di niente che non fossero quegli occhi, aperti, vivi, luccicanti … felici.
Mi sporsi in avanti senza dire una parola, e lo circondai con le braccia con tutta la delicatezza di cui ero capace, temendo di mandarlo in mille pezzi solo sfiorandolo.
Sentirlo lì, contro il mio petto … Mi fece sentire così bene da farmi quasi paura.
Era vero, c’erano tante cose da dire.
C’erano tante cose da spiegare, tante di cui parlare.
Ma in quel momento non sembrava avere importanza.
Niente aveva importanza se non quel ragazzo sconosciuto e familiare tra le mie braccia.
“Mangio solo insalate” il sussurro roco che arrivò chiaro al mio orecchio mi fece sussultare, mentre le lacrime si fermavano “Adoro Piton, ma Luna è il mio personaggio preferito. E anch’io avevo capito subito che Silente era gay, quindi non ti vantare. E al primo appuntamento vorrei andare a teatro, perché sarò talmente tanto nervoso che non riuscirò a buttar giù nemmeno una mollica di pane, e sarà buio, magari non mi vedrai mentre mi tormento le mani, col terrore di fare qualcosa di sbagliato. E ho un gatto; si chiama Brian, e lo vizio da morire: è il mio soprammobile preferito.”
Ero sicuro che il cuore mi si fosse fermato nel petto, almeno finché non lo sentii esplodere; perché Kurt, allontanando la bocca dal mio orecchio, aveva sfiorato le mie labbra con delicatezza, quasi in un soffio.
“Ah, e per la cronaca …” aggiunse, guardandomi negli occhi “Sono gay anch’io.”

                                                                                          The end.



*Incipit di "Harry Potter e il Calice di Fuoco". 
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