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Autore: holls    15/10/2013    10 recensioni
Un investigatore privato, solo e tormentato; il suo ex fidanzato, in coppia professionale con un tipo un po' sboccato per un lavoro lontano dalla luce del sole; il barista del Naughty Blu, custode dei drammi sentimentali dei suoi clienti; una ragazza, pianista quasi per forza, fotografa per passione; e un poliziotto un po' troppo galante, ma con una bella parlantina.
Personaggi che si incontrano, si dividono, si scontrano, si rincorrono, sullo sfondo di una caotica New York.
Ma proprio quando l'equilibrio sembra raggiunto, dopo incomprensioni, rimorsi, gelosie, silenzi colpevoli e segreti inconfessati, una serie di omicidi sopraggiungerà a sconvolgere la città: nulla di anormale, se non fosse che i delitti sembrano essere legati in qualche modo alle storie dei protagonisti.
Chi sta tentando di mettere a soqquadro le loro vite? Ma soprattutto, perché?
[Attenzione: le recensioni contengono spoiler!]
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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11. “Quanto prendi?”
 
 
 
10 gennaio 2005.
Era preoccupato.
Si trovava seduto alla sua scrivania in centrale, intento a pensare alle scoperte che Ashton gli aveva comunicato per telefono qualche giorno prima. Gli sembrava sempre di essere vicino alla soluzione, ma come cominciava a scorgerla, una sorta di luminosa barriera invisibile lo respingeva fuori, impedendogli di vedere cosa si celava dentro quell’alone dorato.
Alan tamburellava le dita sul tavolo e, quando si annoiava, cominciava a gironzolare per il suo ufficio aprendo a caso cassetti del suo schedario, per poi richiuderli poco dopo senza nemmeno averli guardati.
Si alzò dalla sedia e decise di cercare Ashton. Aveva voglia di saperne di più su quello che aveva visto, su quelle foto misteriose e sugli altri ragazzi ritratti nelle foto appartenenti a Sánchez.
Dopo aver chiesto ai colleghi dove si trovasse, si ritrovò ancora una volta davanti all’ufficio di Edmond.
Bussò, e il vocione del capo lo accolse. Sulla sedia di fronte a Edmond riconobbe la schiena di Ashton.
« Ehi, Alan, entra pure. Mi stavo giusto complimentando con Ashton per la quantità di informazioni che avete ricavato. Siete davvero brillanti, un’ottima squadra! »
Alan lanciò un’occhiata verso il collega, che non ricambiò; sembrava anzi che tentasse di nascondersi dietro la mano sulla tempia sinistra.
« Stavo pensando, perciò, di festeggiare il vostro impegno nella prossima cena di lavoro. Che ne pensate? »
Alan non disse nulla, e aspettò che fosse Ashton a compiacere il sorriso enorme del capo.
« Fantastico. Vi farò sapere il giorno e l’ora, anche se pensavo a metà febbraio. In questo modo, avrete tempo di completare il vostro lavoro senza intralci. Ora potete andare! »
 
Usciti dall’ufficio di Edmond, Alan notò che Ashton aveva affrettato il passo.
« Ashton, aspetta. »
Si sarebbe aspettato di dover insistere un po’, invece l’amico si fermò subito.
« Che c’è? »
« Tu mi stai nascondendo qualcosa. È da stamattina che sei strano, mi hai a malapena salutato. È successo qualcosa? »
Ashton si voltò e gli sorrise, poi scosse il capo.
« Non è niente, una cosa di poco conto. »
« Sei sicuro? »
Ashton esitò. Si vedeva che cercava di dire qualcosa, con quel respiro lasciato a metà. Ashton sospirò ancora, poi si passò le dita sulla tempia. Scosse di nuovo il capo.
« … non posso farlo. Non ci riesco. »
« Ashton, di cosa si tratta? »
L’altro continuava a non rispondere, cercando di sfuggire lo sguardo di Alan, che invece continuava a fissarlo, come se sperasse di imprigionare il suo sguardo non appena si fosse voltato.
« Ha qualcosa a che fare con l’indagine? Qualcosa a che fare con… Nathan? »
Come pronunciò quel nome, Ashton si trovò evidentemente senza parole. Alan lo vide annaspare nel tentativo di trovare qualcosa da dire, ma la gola sembrava bloccata.
« Ho capito. C’entra Nathan. È per questo che non vuoi dirmelo. »
« Alan, non è questo, è che… Non so come dirtelo, né se dovrei farlo! »
Alan gli puntò un dito addosso.
« Stasera ti aspetto all’uscita. Qualunque cosa sia, me la dirai. »
Abbassò il dito e tornò verso il suo ufficio. E mentre faceva dietro-front, pronunciò due parole che solo lui fu in grado di sentire.
Ti prego.
 
***
 
Gli era dispiaciuto aver trattato Ashton in quel modo. Ma sapeva bene che intorno a Nathan aleggiava qualcosa di strano e misterioso, e gli rodeva pensare di sapere qualcosa in meno rispetto ad altri.
Se da una parte era curioso, dall’altra sentiva un vago sentimento di paura.
 
Ashton era proprio lì, fuori dall’ingresso principale della centrale ad aspettarlo. Aveva le sopracciglia aggrottate, come se fosse piuttosto preoccupato, e si mordicchiava il labbro inferiore.
« Non pensavo che mi avresti aspettato davvero. In ogni caso, scusa per i miei modi. »
Ashton continuò a fissarlo in silenzio. Poi due parole sussurrate uscirono dalla sua bocca.
« Mi dispiace. »
« Per cosa? »
Ashton fece un respiro profondo.
« Per quello che sto per mostrarti. »
 
***
 
« È meglio se guido io », gli aveva detto. Alan aveva accettato e aveva preso posto nel sedile del passeggero. Avevano preso una macchina di servizio, all’apparenza uguale alle comuni auto, con i finestrini lievemente oscurati.
Ogni tanto si voltava a guardare verso Ashton, e non poteva non notare il suo terribile nervosismo. Quando guidava, in genere, assumeva sempre posizioni piuttosto rilassate: in quel momento, invece, la schiena era drittissima e la presa sul volante piuttosto salda.
« Mi stai facendo preoccupare, Ash. Dove stiamo andando? Pensavo volessi portarmi da lui, ma casa sua l’abbiamo passata da un pezzo. »
Ashton non rispose; Alan non riuscì a capire se era troppo concentrato o se avesse finto di non sentirlo. Provò a parlare ancora per verificare.
« Ah, siamo nel Bronx. Perché stiamo passando da qui? »
Ancora nessuna risposta. Alan cominciò a spazientirsi.
« Insomma, Ash, vuoi rispondermi? Dove stiamo andando? »
Ashton ancora una volta non gli rispose, e Alan dovette ringraziare le cinture di sicurezza per non essere saltato addosso ad Ashton nel tentativo di estorcergli qualche risposta.
« Vedrai tutto quando saremo là, Alan. Mi dispiace. »
Notò che continuava a dispiacersi.
Ma di cosa?
 
Terminata la 149th, si sarebbe aspettato di svoltare a sinistra per il Bruckner Boulevard; ma, invece, Ashton proseguì a dritto, verso Hunts Point.
Il cuore cominciò a battergli più forte.
Sperò che Ashton si fosse solo perso e che non volesse davvero andare in quella direzione: sapeva per cosa era famosa quella zona. Poi, come un flash, gli tornò in mente la prima vittima di Victor Sánchez.
« Ci siamo quasi, Alan. »
Se fino a quel momento avevano sfrecciato veloci, adesso si accorse che Ashton stava rallentando. Non poté fare a meno di notare le numerose donne sul marciapiede, con addosso abiti succinti e con curve prosperose; poi, poco più in là, cominciò a intravedere anche qualche figura alta e robusta, un po’ troppo per essere un corpo femminile.
Pensò a voce alta.
« Non ci sono solo donne, quindi. »
Più Ashton rallentava, più si sentiva esplodere. La tensione stava salendo e, anche se non voleva ammetterlo, stava capendo come mai Ashton l’avesse portato lì.
Il suo collega rallentò sempre più e lui, d’istinto, smise di guardare gli abitanti di quel marciapiede, cominciando a fissare la trama dei suoi jeans.
Ashton si fermò.
Sapeva che, se avesse alzato gli occhi, avrebbe avuto davanti a sé esattamente lo spettacolo che si aspettava. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma impedì loro di uscire.
« Alan, siamo arrivati. »
Si accorse che la voce di Ashton tremava. Alzò lo sguardo verso di lui che, a sua volta, stava guardando proprio il lato della strada che si rifiutava anche solo di sbirciare.
Ashton gli afferrò la mano, con una presa salda almeno quanto quella al volante.
Lo guardò negli occhi, e si accorse di essere stato davvero sgarbato ad averlo trattato in quel modo, perché nel suo sguardo c’era solo un sentimento di grande e profonda amicizia.
Si sarebbe aspettato di volersi voltare poco alla volta, e invece lo fece tutto insieme.
 
Non ebbe nemmeno bisogno di fissarlo meglio, per riconoscerlo: conosceva troppo bene Nathan per avere qualche dubbio.
Indossava vestiti assolutamente normali, e conversava altrettanto normalmente con un altro ragazzo in piedi accanto a lui.
Sentì il cuore stringersi e impietrirsi allo stesso momento: vedere Nathan lì, sul marciapiede, in attesa di qualcuno… Lo immaginò salire sulla macchina di uno sconosciuto e soddisfare i suoi piaceri; si limitava a qualche lavoretto o si faceva anche possedere da quegli uomini?
Gli tornarono in mente gli anni passati insieme, le volte in cui facevano l’amore.
Ripensò all’odore della sua pelle che, a quel punto, poteva essere il profumo di un qualunque sconosciuto; ripensò alle parole d’amore che Nathan gli sussurrava, e si chiese se in realtà non le dicesse anche ai suoi clienti; ma il pensiero che lo infastidì più di tutti fu senz’altro il fatto che le sue non erano le uniche mani che accarezzavano quel corpo, la sua non era l’unica bocca che ne sentiva il sapore; a molte altre persone era stato concesso quel privilegio.
Il privilegio di averlo. Il privilegio di unirsi con lui in una cosa sola.
Nathan non era stato solo suo.
Il pensiero di incontrare un qualsiasi uomo a New York e pensare che era stato a letto con il suo Nathan gli provocò una sensazione di disgusto e ribrezzo.
 
Nonostante questi pensieri, tirava ogni volta un sospiro di sollievo per ogni macchina che non si fermava. Ma se Ashton lo aveva portato lì, doveva avere delle buone motivazioni.
 
Passarono almeno dieci minuti buoni, ma nessuno si era ancora fermato. Come se non stesse respirando da ore, inspirò ed espirò profondamente, scacciando via un po’ di tensione. Si voltò verso Ashton, che gli stava ancora tenendo la mano.
« Non si è ancora fermato nessuno. Non è che forse ti sei sbagliato? »
Ashton scosse la testa, deciso.
« No, Alan, non mi sono sbagliato. Non ti avrei mai portato qui, se non ne fossi stato sicuro.  »
« E allora mi spieghi perché sono dieci minuti che siamo qui e ancora nessuno si è fermato? »
« Alan, non lo so, sarà un caso. Ma sono sicuro di quello che ho visto, era inequivocabile! »
Alan strinse le labbra, finché le parole non gli esplosero in bocca.
« Stai dicendo una marea di cazzate, Ashton! Dove sono le prove? Voglio le prove! »
« Se davvero vuoi le tue cavolo di prove, fingiti un cliente e chiedigli quanto vuole per succhiartelo! »
Alan rimase interdetto. Sentiva il corpo tremargli, anche se non sapeva se fosse evidente dall’esterno. Si sentiva solo posseduto da un fuoco violento, capace pure di spezzargli il respiro.
Deglutì.
« Va bene. Andiamo. Mi fingerò un cliente e gli chiederò quanto vuole per succhiarmelo. »
Si riallacciò la cintura di sicurezza, e aspettò che Ashton facesse altrettanto.
« Alan, scusami… »
« Ci muoviamo? »
Ashton rimase immobile qualche secondo, poi si agganciò la cintura. Rimise in moto l’auto, e fece il giro dell’isolato in modo da trovarsi sullo stesso marciapiede dove si trovava Nathan.
Fu sorpreso quando Ashton si fermò una decina di metri prima.
« Davvero te la senti? »
« Vai. »
 
Non sapeva bene cosa aspettarsi. Il corpo gli tremava ancora, ma non era più rabbia. Era paura. Quella verità che per anni aveva nascosto a se stesso stava per rivelarsi in tutta la sua potenza.
Sapeva che Nathan non poteva vederlo da fuori, ma lui riusciva a vedere benissimo quel ragazzo così mingherlino.
Come Ashton fermò la macchina davanti ai due, Nathan si avvicinò per sentire cosa volevano.
Alan si limitò ad aprire un piccolo spiraglio abbassando di poco il finestrino, la quantità necessaria per far udire la sua voce.
Fece un respiro profondo.
Domandò.
« Quanto prendi? »
Un senso di sporco gli si attaccò addosso.
Nathan ridacchiò.
« Be’, dipende da quello che vuoi, bello. »
Alan abbassò completamente il finestrino, finché i loro sguardi non si incrociarono.
 
Nathan sbarrò gli occhi, e sbiancò; fissava Alan con talmente tanto terrore da non sbattere nemmeno le palpebre. L’uomo uscì dall’auto, senza chiudere lo sportello, forse spinto da un irrazionale desiderio di tirarlo a sé; ma il ragazzo, con ancora gli occhi fissi su di lui, indietreggiava a piccoli passi verso il muso dell’auto. Nathan cominciò a tremare, al punto da aggrapparsi al ragazzo accanto a lui; poi Alan lo vide alzare gli occhi al cielo, mentre il suo corpo sembrò perdere rigidità.
E poi, fu questione di un attimo. Se lo vide scivolare da sotto gli occhi e un tonfo sordo gli vibrò in tutto il corpo, spezzando quel silenzio ovattato che lo aveva avvolto fino a quel momento.
E un secondo dopo Nathan era a terra, inerte, mentre una chiazza di sangue si spandeva sempre più, come a marcare il suo territorio.
Ebbe appena il coraggio di mettere a fuoco quell'immagine, ma i suoi muscoli erano impietriti; la scena di Nathan che perdeva i sensi e sbatteva la testa sullo sportello dell’auto gli scorreva davanti agli occhi come la pellicola di un vecchio film.
E vedeva poi Ashton scuoterlo per farlo tornare alla realtà, mentre intimava all'altro ragazzo di non toccare Nathan fino all'arrivo dell'ambulanza.
Ambulanza. Nathan. Sangue.
Quell'ultima parola gli diede uno scossone, e si rese conto che tremava da capo a piedi, anche se la sua esperienza gli aveva insegnato a mantenere il controllo in certe situazioni.
Era così buffo: aveva vissuto molto di peggio nella sua vita, e aveva sempre mantenuto il sangue freddo in maniera impeccabile. Ma in quel momento, Nathan faccia a terra con un lago di sangue intorno alla testa, sentiva la mente come un paesaggio imperscrutabile coperto da una fitta coltre di nebbia. Cercava di raggiungere concetti razionali, ma avevano contorni troppo sfocati perché si potessero afferrare. Era solo l’istinto, in quel momento, a guidare il timone della sua mente.
Alzò gli occhi verso Ashton, che col tono più pacato possibile descriveva al centralino cos'era successo e dove si trovavano, nell'attesa che arrivasse l'ambulanza.
Fu solo in quell’istante che capì qual era la cosa più importante da fare: chiamare i soccorsi. Era così scontato, quante volte lo aveva fatto? Eppure aveva impiegato cinque minuti buoni per muovere il primo passo in quella nebbia, cercando di scacciarla con le mani.
Riusciva a malapena a toccare Nathan. Gli sembrò una delicata bambola che si era scheggiata per la caduta: e non osava sfiorarla, perché forse altri pezzi erano ancora incollati per miracolo, e non era il caso di rimetterla seduta col rischio di rovinarla ancora.
Ma Ashton aveva più sangue freddo di lui. Lo vide estrarre una manciata di fazzoletti, aprirli, e metterli uno sopra l'altro; poi li poggiò sulla ferita di Nathan, facendo una lieve pressione: cercava di fermare l'emorragia.
E in quel momento, Alan scacciò altra nebbia dalla sua mente, ma capì che era inutile, e che tutte quelle idee razionali gli venivano troppo tardi.
I minuti in attesa dell’ambulanza gli sembrarono un’eternità. Ashton pensava solo alla ferita, e non gli aveva rivolto la minima parola; o forse sì, e lui non se n’era nemmeno accorto. L’altro ragazzo se ne stava lì accovacciato, con un’evidente preoccupazione stampata sul volto. Gli sembrarono entrambi coscienti, mentre lui si sentiva risucchiato dal vortice dell’inerzia. Gli sembrò come se il mondo stesse andando avanti e lui fosse un mero spettatore che guarda un treno passare: provava a intervenire per cambiare le cose, a far fermare il treno alla sua stazione, ma era come se non esistesse, come se non potesse essere sentito.
Il suono della sirena lo fece tirare improvvisamente su. Come una scialuppa che cerca di farsi notare da una nave amica, aggirò l'auto e si affacciò sulla strada, in cerca dell'ambulanza; e come la vide cominciò a sbracciarsi, e per poco non si buttò in mezzo di strada, nel tentativo di attirare l'attenzione.
I soccorritori scesero subito dal mezzo e si avvicinarono a Nathan; reggendogli la testa, un paio di uomini lo caricarono sulla barella che un terzo uomo aveva già estratto dall'ambulanza. Dopo che fu su, uno dei soccorritori si rivolse a loro.
« Qualcuno di voi è un familiare? »
Alan si fece avanti.
« Io... io sono molto legato a lui. »
Il soccorritore scosse il capo.
« Mi dispiace, ma solo i familiari possono salire. »
L’uomo non aspettò nemmeno una replica e salì dal retro sull'ambulanza. Le sirene furono subito attivate, e quella piccola luce blu divenne sempre più piccola, fino a sparire.
 
***
 
L’attesa non era mai stata così straziante. Alan continuava a percorrere su e giù il corridoio dell’ospedale, risedendosi di tanto in tanto e rialzandosi nervosamente subito dopo. Inizialmente Ashton provava a parlargli seguendo con lo sguardo i suoi passi, ma si arrese quasi subito, comunicando con lui fissando un punto non meglio precisato del muro bianco di quel corridoio.
« Alan, stai calmo, sono sicuro che non è niente. »
Si fermò un attimo davanti a lui, poi riprese la sua camminata, scuotendo il capo.
« Ash, sono tranquillo. »
« Dai, siediti. Finché il dottore non esce, è inutile agitarsi. »
Quelle parole parvero in qualche modo calmarlo; Alan si sedette nuovamente accanto ad Ashton, per poi rialzarsi e appoggiarsi contro il muro adiacente. Incrociò le braccia, cominciando a picchiettare le dita su un fianco.
Ogni volta che vedeva qualcuno uscire dalla porta del reparto riservato, sperava sempre che fosse per comunicare a qualcuno notizie su Nathan, ma puntualmente i dottori entravano e uscivano per questioni personali.
« Vabbè, senti, io vado a prendermi da bere. A dopo. »
Ashton si alzò, facendogli un cenno con la testa, e Alan rispose con un sorriso nervoso.
 
Si sentiva in colpa. Nella sua testa, ogni pensiero era un ‘se’ o un ‘ma’. Si chiedeva cosa sarebbe successo se lui non si fosse recato lì quella sera, se non avesse lasciato lo sportello dell’auto aperto, se avesse avuto i riflessi più pronti per prendere Nathan mentre cadeva. Si augurò con tutto il cuore che la ferita riportata non fosse grave.
Il rumore delle porte che si aprivano gli fece alzare la testa, ma l’esito fu negativo anche stavolta. Si voltò verso le scale, e vide Ashton.
« Ho preso una cosuccia anche per te. »
L’altro gli porse una Lemon soda, e Alan ringraziò. Sollevò la linguetta e portò la lattina alla bocca: una bibita fresca era proprio quello che ci voleva.
Proprio mentre finiva di mandare giù un sorso, vide uscire dalle porte il dottore che si occupava di Nathan. Dopo essere riuscito a non soffocare, lo placcò come un giocatore di rugby.
« Dottore, come sta Nathan? »
Il dottore lo guardò con sguardo interrogativo, poi capì.
« Mi dispiace, ma il signor Hayworth non si è ancora svegliato e non possiamo rivelare il suo stato di salute. Purtroppo non ha lasciato disposizioni al riguardo, perciò non posso dirle niente. »
Il medico gli sorrise e fece per proseguire per la sua strada, ma Alan lo raggiunse di nuovo.
« Non si è ancora svegliato? È grave? »
« Le ripeto, non posso dirle niente. »
« Mi dica almeno se è grave! La prego. »
Il dottore sospirò un paio di volte.
« Senta, sta bene. Non è niente. Di più non posso dirle, però. Non avrei dovuto dire nemmeno questo. »
« Grazie, grazie davvero. »
Alan tirò un sospiro di sollievo.
Non è niente.
Improvvisamente si sentì più leggero. Nathan stava bene, non era ferito gravemente né in pericolo di vita. Si sedette accanto ad Ashton, che gli sorrise; poggiò la lattina semipiena accanto a sé, poi nascose il volto tra le mani e le fece scorrere fino alle tempie, allentando la tensione. Sbatté lentamente le palpebre e in un respiro fece svanire le sue preoccupazioni.
« Sono così sollevato, Ash. Non vedo l’ora che si risvegli, non vedo l’ora che esca da qui. Voglio stargli vicino. »
Ashton tossicchiò.
« Alan, senti… Sinceramente non trovo che sia una buona idea il fatto che tu rimanga qui. »
Sollevò il capo.
« Come sarebbe? »
« Credo sia meglio che non ti veda, almeno non subito. Non sappiamo se vuole vederti, e inoltre potrebbe essere ancora sotto shock. »
Quelle parole lo colpirono come una pugnalata secca.
Non aveva riflettuto molto sull’evento che aveva scatenato tutta quella situazione; si era preoccupato unicamente del fatto che Nathan stesse bene. Ma non aveva avuto tempo per pensare che il ragazzo poteva avere idee diverse in testa. Magari non voleva svegliarsi per paura che lui fosse lì accanto al suo letto; o forse non voleva uscire e fronteggiarlo.
Gli faceva molto male. Desiderava riabbracciare Nathan più di ogni altra cosa, ma non voleva fargli male ulteriormente.
Ci rifletté un poco, immaginando nella sua testa tutte le possibili sequenze, arrivando persino a figurarsi Nathan che sveniva di nuovo una volta uscito dalla sua stanza, non appena l’avesse visto. Magari avrebbe potuto sbattere la testa ancora una volta.
« E chi rimarrà qui ad aspettarlo? Non voglio che sia solo, quando uscirà. »
« Posso rimanere io. »
Alan sorrise.
« Grazie, Ash. Adesso dobbiamo solo aspettare che si risvegli. Spero non ci voglia molto. »
 
Alan ringraziò che l’orologio fosse lontano. Quando non aveva nulla da fare si metteva spesso ad ascoltare i ticchettii e lo trovava pure piacevole; ma quando poi cercava di liberarsene, quel rumorino secco continuava a tormentare la sua mente, distraendolo da qualunque altro pensiero. Provò a trascorrere il tempo scandendo gli attimi con i battiti del suo cuore, e dopo un po’ lo trovò addirittura ipnotico.
Il chiacchiericcio sommesso di due dottori attirò la sua attenzione, e si svegliò da quel senso di torpore non appena vide che uno dei due era quello che si occupava di Nathan. Dopo che ebbero finito di parlare, il dottore venne verso di loro.
« Il signor Hayworth ha riportato solo una ferita superficiale. È già stato sottoposto alle radiografie, che hanno escluso un trauma cranico. In altre parole sta bene, e potrà lasciare la struttura tra poco. »
Alan spalancò gli occhi e tentò di dire qualcosa, ma Ashton lo fece prima di lui.
« Se ci sta dicendo tutto questo, ne deduco che si sia svegliato? »
« Esattamente. »
« Grazie, dottore. »
L’uomo rispose con un cenno del capo e un sorriso, dopodiché si congedò.
« Non sai che sollievo. » Si voltò verso Ashton. « Devo proprio andarmene? »
« Alan, è meglio per tutti. Aspettaci fuori, almeno ho il tempo di spiegargli la situazione. »
Annuì, e si alzò. Salutò Ashton e cominciò a percorrere il corridoio, verso le scale.

***
 
L’attesa sopportata in attesa del responso del medico gli era sembrata la cosa più atroce che si potesse provare, ma quei minuti fuori dal pronto soccorso avevano certamente fissato un nuovo record.
Il battito del suo cuore aveva smesso di rilassarlo e anzi, lo agitava; il freddo pungente lo faceva rabbrividire e tremare più di quanto non stesse già facendo lui stesso, senza l’aiuto di agenti esterni, e quel camminare frenetico e un po’ paranoico, accompagnato da fugaci sguardi verso l’entrata, lo rendevano più ansioso che mai.
La verità è che aveva paura. Aveva paura di volgere lo sguardo verso la reception e vedere Nathan e Ashton uscire. Sapeva che era questione di poco – e anche il fatto che quel ‘poco’ non fosse quantificabile lo faceva andare fuori di testa.
Si voltò ancora una volta verso l’entrata della struttura, molleggiandosi sui piedi, nel tentativo di smorzare i brividi di freddo che aveva su tutto il corpo.
Ma non si vedeva nessuno. Non ancora, almeno. Decise così di fare un gioco stupido: avrebbe contato fino a dieci, dopodiché si sarebbe voltato e avrebbe smesso di fissare l’entrata. Poi avrebbe ricominciato, dopo un po’. Si rese conto che il gioco era totalmente assurdo, ma in quel momento non riuscì a pensare a un modo migliore per passare il tempo e sconfiggere l’ansia.
Continuò a fissare l’entrata.
Nove.
Otto.
Si spostò più lateralmente, come se volesse ridurre il suo campo visivo sull’interno della struttura.
Cinque.
Quattro.
Sporse appena la testa per scrutare l’identità dei passanti, ma non intravide né Ashton né Nathan.
Due.
Uno.

Niente. Di loro non c’era traccia.
Con sommo sollievo si voltò, dando le spalle all’edificio. Ma si accorse ben presto che lo stare girato aumentava la sua agitazione, piuttosto che diminuirla; e notò anche che il suo gioco, seppur stupido, aveva avuto l’effetto di distrarlo un po’. Così, decise di ritentare.
Si voltò.
« Alan! »
Fu preso alla sprovvista; ebbe come l’impressione che le due figure davanti a lui si fossero materializzate all’improvviso. Come vide Nathan, con la testa bendata da una garza bianca, provò subito il desiderio di abbracciarlo, ma qualcos’altro, invece, glielo impedì. E forse capì che non era il caso osservando il modo in cui Nathan fissava, con innaturale interesse, il sentiero lastricato davanti al pronto soccorso.
Alan aspettò che il ragazzo alzasse gli occhi, ma non accadde; spostò lo sguardo verso Ashton, che ricambiava. Anche lui sembrava in imbarazzo e indeciso sul da farsi. Alla fine, fu proprio lui a spezzare il silenzio.
« Vabbè, vi aspetto alla macchina. A dopo. »
« Aspetta, vengo con te. »
Alan rimase sorpreso: era stato Nathan a parlare.
« Nathan, aspetta, dobbiamo parlare. »
Il ragazzo sembrò non aver sentito e continuò ad andare dietro ad Ashton.
« Nathan! »
Alan raggiunse il ragazzo a passo svelto, e lo bloccò prendendolo per un braccio. Poi fece un cenno all’altro.
« Ash, vai. Ti raggiungiamo dopo. »
Dopo che se ne fu andato, Alan tornò a rivolgersi a Nathan, notando però che il ragazzo, ancora, non osava guardarlo.
« Come stai? »
« Voglio andare a casa. »
« È meglio se andiamo da me. Almeno posso starti vicino. »
Nathan alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
« Non ho bisogno di te, starò benissimo anche da solo. »
« Nathan, e se hai bisogno di qualcosa? E se ti senti male e non c’è nessuno con te? Non essere sciocco. »
Nathan sbuffò ancora, ma continuava a guardare tutto fuorché Alan.
« Se ho bisogno di qualcosa, chiamo il 911! E ora lasciami tornare a casa. »
« In quell’appartamento che cade a pezzi? E poi non è una zona sicura, la tua. Per diversi motivi. »
« È casa mia, non ti permetto di giudicarla! So badare a me stesso, ed è lì che voglio andare! »
Alan non ribatté. Fissò ancora il ragazzo evidentemente arrabbiato, col petto che si gonfiava e sgonfiava più del solito.
« Va bene. Vai pure a casa. Da solo, a piedi. Di notte. Magari trovi pure qualcuno ad aspettarti sotto casa.  »
Un lampo di terrore attraversò gli occhi di Nathan. E Alan se ne accorse perché il ragazzo spalancò gli occhi, e il suo respiro si mozzò di colpo.
Capì di aver detto qualche parola di troppo. Non era stato lui vittima di un maniaco sessuale, non era lui che era sfuggito per un soffio a una seconda aggressione, non era lui che viveva col terrore di mettere il naso fuori dalla finestra. Si ricordava ancora di come aveva trovato Nathan quella volta, sprangato in casa con le serrande talmente chiuse da non far penetrare neanche un filo di luce.
« Scusa. Ho esagerato. Ma sono preoccupato per te, e mi sentirei più al sicuro se tu stessi a casa mia. Possiamo passare da te a prendere qualcosa, se vuoi. »
Nathan scosse il capo.
« Ci vado domani. »
Poi non disse nient’altro, e si incamminò verso la macchina di Ashton.
 
***
 
Nessuno aveva aperto bocca dall’inizio del viaggio, tranne Ashton che si era voluto accertare dell’indirizzo di Nathan. Poi, da lì, il silenzio. La tensione era talmente densa, nell’aria, che si poteva quasi modellare come la plastilina, concentrata maggiormente nel posto del passeggero rimasto vuoto tra Alan e Nathan. Il ragazzo continuava a guardare fuori dal finestrino; ogni tanto Alan provava a intercettarlo osservando il riflesso sul vetro, ma gli occhi di Nathan scorrevano da un’estremità all’altra solo per seguire il paesaggio.
Rinunciò presto alla possibilità di avere un qualsiasi contatto con lui, mettendosi a sua volta a fissare qualsiasi dettaglio degno di un qualche interesse: il rivestimento del seggiolino, la maniglia per arreggersi, la lunghezza dello spazio per i piedi davanti a lui.
Dopo circa un quarto d’ora con il silenzio come ospite d’onore, arrivarono a casa di Alan.
« Grazie per il passaggio, Ash. »
« Figurati. Se avete bisogno di qualcosa, fate un fischio. »
Alan ringraziò ancora e scese dall’auto, seguito poco dopo da Nathan.
Non appena l’auto se ne fu andata, Alan provò un senso di disagio. Ne fu in qualche modo turbato: per tutta la sera aveva avuto Ashton accanto, e aveva pensato solo a Nathan e alla sua salute. Ma, in quel momento, Ashton non c’era più e Nathan stava bene. I pensieri sulla salute del ragazzo cominciavano a fare spazio ai pensieri sulla serata, prima dell’incidente. Stava cominciando a pensare al perché erano in quella situazione, a cosa era successo.
E forse, per la prima volta, capiva l’atteggiamento di Nathan nei suoi confronti.
Pensò rapidamente a cosa poteva fare per districarsi tra le fronde di quella ingarbugliata situazione tutt’altro che facile; ma, voltandosi verso Nathan, capì che ormai non poteva più tirarsi indietro e che doveva tener fede all’impegno preso.
Il ragazzo si teneva a debita distanza da lui, continuando a guardarsi intorno preoccupato. E, soprattutto, ancora non gli aveva concesso nemmeno un’occhiata, nemmeno per sbaglio. Alan provò ad attirare la sua attenzione.
« Vieni? Ho aperto. »
Nathan non parve affatto sorpreso, segno che stava seguendo i movimenti di Alan, anche se non lo dava a vedere.
 
Quando furono entranti in casa, il rumore del silenzio tornò a tormentarlo, e il disagio per quella situazione toccò punte estreme. Posò il mazzo di chiavi nel contenitore sul comodino dell’ingresso e si voltò verso Nathan, che aveva ancora lo sguardo falsamente perso in qualche dettaglio. Avrebbe voluto dirgli che quella situazione gli pesava, che voleva parlare il prima possibile per chiarire. E invece optò per la scelta opposta.
« Senti, per stasera andiamo a letto. Sono stanco anch’io. Puoi dormire nel letto, se ti va. »
« Dormo sul divano. »
« Il divano non è affatto comodo, parola mia. Dai, prenditi il letto e non protestare. »
Nathan non rispose, e Alan lo prese come segno d’assenso; si voltò e si incamminò verso il bagno, pronto a prepararsi per una lunga notte.
« Sei un insensibile del cazzo! »
Non fece in tempo a girarsi verso Nathan che il ragazzo lo superò con una spallata, per poi rifugiarsi in bagno, chiudendosi dentro a chiave. Avvicinandosi alla porta, lo sentì singhiozzare.
Poi capì.
Come aveva potuto inciampare su una cosa tanto ovvia?
Ripensò a quello che aveva visto quel pomeriggio d’ottobre. Nathan e il maniaco, che stava abusando del ragazzo.
Sul suo letto.
 
Cominciò a definirsi con i peggiori epiteti del mondo. Non solo aveva fatto soffrire Nathan sia fisicamente che emotivamente, quella sera; aveva avuto pure il coraggio di infierire, seppur in buona fede, costringendolo a stare da lui e invitandolo a dormire su un letto che lo aveva segnato per sempre.
Capì che forse l’unica cosa da fare era lasciare Nathan un po’ da solo, farlo respirare. L’atmosfera tra i due era quanto di più pesante potesse esserci.
 
***
 
I singhiozzi di Nathan si placarono dopo circa mezz’ora, anche se si erano alternati a momenti di relativa calma. Alan aveva deciso di andarsene a letto, ma non riusciva a prendere sonno. Dopo che la sua mente fu riuscita a calmarsi in merito al suo ultimo passo falso, si trovò solo con se stesso e cominciò a riflettere.
Quella sera erano successe talmente tante cose che forse non le aveva nemmeno assorbite tutte. Ogni minuto che passava, però, la scoperta di quella sera si faceva spazio sempre più prepotentemente.
Nathan si prostituiva.
Ogni sera si concedeva a una manciata di uomini e si curava del loro piacere.
Si accorse che faceva fatica a concretizzare quel concetto nella sua testa, a credere che fosse realtà e a farlo suo. Gli sembrava così improbabile che il suo Nathan potesse fare una cosa del genere.
C’era solo una parola che rimbalzava da una parte all’altra della sua testa.
Perché?
Per quanto cercasse una spiegazione razionale, non la trovava, anche se molti tasselli cominciavano ad andare al loro posto: il fatto che non ci fosse mai la sera, la sua stanchezza perenne la mattina o il solo essere stranamente irreperibile al bar. Ma non si sentiva arrabbiato con lui; provava solo un sentimento di rabbia verso se stesso. L’essere stato così cieco, fino a quel momento, gli aveva impedito di conoscere ogni lato di quel ragazzo nel suo bagno; se solo fosse stato un po’ più attento, si rimproverò, forse avrebbe potuto evitargli tutte quelle esperienze negative che aveva dovuto subire.
E forse sarebbero stati ancora insieme.
Forse.
 

Sera a tutti! XD Bene, siamo entrati nel vivo della vicenda u.u Adesso né Nathan né Alan possono più scappare, possono soltanto affrontare la situazione. Devo ammettere che è stato difficile scrivere questo capitolo, per cui spero che vi piaccia! 
Vi do appuntamento a martedì prossimo, dove vedremo le reazioni di entrambi di fronte alla doppia vita di Nathan...
Alla prossima :)
   
 
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