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Autore: Dorobestiola    20/10/2013    3 recensioni
Attraverso il vetro spesso della maschera, non riusciva a vedere altro che un cielo grigio come piombo. Haru, accanto a lui, fissava impassibile le rovine di casa sua, cercando di scorgere il benché minimo movimento al di sotto delle macerie. Ma non c'era nulla, solo silenzio.
«Andiamocene, Haru.»
{Ta-dà! Salve a tutti, io sono Dorothy e posto oggi la mia prima fanfic su Free!
Ho preso spunto da una canzone, NeapolitaN appunto, cantata dal Vocaloid YOHIOloid e scritta da Apol. Check first! ♡
Le recensioni sono ben accette, sia positive che negative. Il pairing è RinHaru~
Alla prossima! ♡
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haruka Nanase, Rin Matsuoka
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Attraverso il vetro spesso della maschera, non riusciva a vedere altro che un cielo grigio come piombo. Haru, accanto a lui, fissava impassibile le rovine di casa sua, cercando di scorgere il benché minimo movimento al di sotto delle macerie. Ma non c'era nulla, solo silenzio.
«Andiamocene, Haru.»
«No.»
Non si girò, non compì alcun movimento. Semplicemente rimase seduto, mentre un vento di morte spazzava crudele il suolo. Rin osservò brandelli di vestiti e buste di plastica venire trascinati via.
«Ti prego. Sta per piovere.»
«Cosa vuoi che me ne importi.»
«Haru...»
«Resto qui un altro pò.»
Non disse altro. Ma il rosso lo sapeva, stava trattenendo le lacrime. Andò a sedersi vicino a lui, su un frammento di muro.
Quando la prima goccia cadde dagli occhi del moro, non potè fare altro che abbracciarlo, mentre il suo cuore veniva crudelmente dilaniato da bestie invisibili. Stavano divorando il suo muscolo cardiaco con voracità, e lui non poteva fare nulla. Sentiva Haruka piangere, farsi minuscolo fra le sue braccia, singhiozzare sempre più disperatamente e chiamare la madre e il padre con la voce tremante. Diceva anche qualcos'altro, fra i singulti, ma non riusciva a capirlo.
Troppe emozioni per il cuore di un bambino.
«Andrà tutto bene, Haru.»
Ma neanche lui ne era sicuro.
 
|NeapolitaN|
 
Non c'è posto per gli orfani, in tempo di guerra.
Rin stringeva Haruka fra le braccia, ai lati delle strade invase da volti estranei, e cercava i suoi genitori. Haruka dormiva, da quando casa sua era stata bombardata dormiva sempre. Era un corpicino fragile fra le sue braccia, inerte nell'impermeabile blu e con i calzini a stelle strappati. Il viso sporco che faceva capolino dal cappuccio era smagrito e pallido.
Rin fissava le persone che scappavano, un'evacuazione di massa. Le voci agli altoparlanti dicevano questo, e ogni giorno annunciavano i caduti in battaglia.
Era sicuro di aver sentito il nome dei genitori di tutti i suoi amici, e i suoi vicini di casa.
Il cognome Matsuoka, non l'aveva mai sentito pronunciare. O forse aveva finto di non averlo fatto.
In undici anni di vita, mai avrebbe pensato di ridursi a mendicare, a gettarsi sulle gambe degli ufficiali e singhiozzare chiedendo qualche moneta. Quando lo faceva, svegliava Haruka e gli chiedeva di piangere. Facevano schifo, lo sapeva, ma ogni tanto allungavano loro dei pezzi da dieci. Altre volte veniva solo preso a calci, e Haru doveva tirarlo sul marciapiede per evitare che fosse calpestato. Le razioni arrivano una volta al mese, ed andavano scarseggiando.
Loro avevano fame.
Sempre più spesso il moro piangeva per il dolore allo stomaco, e Rin poteva solo ascoltare. Si sentiva impotente. Gli sembrava di vivere un incubo, di quelli che fanno sudare freddo. Aveva bisogno del bacio di conforto di sua madre, della sua voce rassicurante.
Non voleva essere come un padre per Haruka, né tantomeno perderlo. Non sapeva cosa pensare.
Quella mattina si svegliò talmente presto che per strada non c'era nessuno. La comunicazione radio non c'era stata e, naturalmente, Haru dormiva.
Il rosso lo strinse, istintivamente. Il moro sussultò, per poi stringere i pugni e affondare il viso nella spalla dell'amico. Era così fragile, a vederlo così.
«Haru...»
«Rin... ?»
«Sei sveglio?»
L'amico si stropicciò gli occhi e aprì la bocca in uno sbaglio assonnato.
«Sì. E anche tu.»
Rin lo strinse più forte e gli baciò i capelli sporchi e annodati, scompigliandoli con la mano libera.
«L'hai notato, allora.»
Una piccola risata, simile a un campanello.
«Forse sei sonnanbulo.»
«I sonnanbuli non parlano.»
«Come fai a saperlo?»
«Esperienza.»
«Sul serio?»
«No.»
Un'altra risata.
Ma quella mattina, Rin se ne rese subito conto, c'era qualcosa che non andava. Non c'era nessuno per le strade, il sole non voleva alzarsi e Haruka continuava a lamentarsi.
«Mi fa male la testa, Rin» diceva tirandogli la manica e toccandosi le tempie, «Fa male dappertutto.»
Inizialmente Rin credette che fosse un espediente per attirare la sua attenzione. Gli diede un bacio sui capelli, li scompigliò e gli disse che andava tutto bene, che sarebbe passato. Indossarono le maschere e andarono alla cisterna a lavarsi i capelli.
Haruka era riluttante a bagnarsi.
«Non voglio, quest'acqua mi fa paura.»
Rin non riusciva a credere alle sue orecchie. Haru non aveva mai avuto paura dell'acqua.
«Vieni qui, ti lavo io i capelli. Prenderemo i pidocchi di questo passo.»
«Ma l'acqua è cattiva, Rin.»
Qualcosa non quadrava.
«Forza. È solo acqua.»
Mentre si lavavano i capelli, Rin diede un altro sguardo al cielo. Non c'erano neanche bombardamenti, nemmeno un singolo areo. Solo nuvole spesse come batuffoli di cotone che uccidevano il sole. Tornò a guardare Haruka e si accorse dell'ennesima stranezza: teneva le labbra serrate, come se non volesse che l'acqua gli andasse in bocca. Gli pettinò i capelli con le mani e prese una ciocca fra le dita.
«Fra poco dovrò tagliarti i capelli.»
Il moro annuì, sovrappensiero.
«Tagliali corti, soffrirò meno il mal di testa.»
Rin sorrise, stringendolo a sé.
«Va bene. Cercherò di tagliarli più corto possibile.»
Ormai il loro rapporto si basava sul contatto.
Il calore sottopelle che veniva scambiato stando vicini per molto tempo, le cosce bianche che i vestiti coprivano male, solcate da cicatrici rossastre e altre più pallide, le clavicole sporgenti, il posto perfetto per versare lacrime. Il suo odore penetrante di guerra, uomini uccisi e polvere da sparo, i 'bum!' dei fucili che spesso mimavano quand'erano in pace, quando giocavano alla guerra rotolandosi e usando i bastoni.
Pace.
Se non fosse stato per le morti bianche e quelle nere, avrebbero detto di essere in pace.
Sono le morti dei bambini a fare la differenza,
muore tanta gente ogni giorno.
   
 
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