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Autore: Eynieth    20/10/2013    3 recensioni
Matilde ha una sola paura. E tanti sogni, ma sono collegati l'uno all'altro.
Sogni. Paura.
Paura. Sogni.
E i suo sogni la conducono per nove mesi in Francia, dalla famiglia Ulliel. Per realizzare i suoi sogni stravolgerà la sua vita, ma non stravolgerà solo la sua...
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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La mia più grande paura, è essere dimenticata. Il mio nome, per un po’, correrà sulle vie del tempo, ma arriverà un momento, in cui non varrà più niente neanche per la mia famiglia. Sarò dimenticata, solo un nome sulle pagine infinite del tempo.

Io, purtroppo, non ho ancora la possibilità di scegliere, come Achille: “Se non andrai in guerra, avrai una vita lunga e felice, e verrai amato. Ma i figli dei tuoi figli, dimenticheranno il tuo nome. Se invece andrai in guerra, morirai, ma il tuo nome verrà ricordato negli annali del tempo, e non sarà mai dimenticato.”

Questa è la mia più grande paura. Non il buio, la solitudine, i ragni. L’essere dimenticata.

Per questo credo nei miei sogni. E faccio di tutto per realizzarli. Studio, mi impegno. Ed è per questo che sono arrivata in Francia. Essendo la migliore dell’Università, mi hanno dato questa possibilità.

Nove mesi in Francia, a lavoro dalla famiglia Ulliel. È un piccola opportunità che non va sprecata.

In questo momento sono sull’aereo, destinazione Boulogne-Billancourt.

Mi chiamo Matilde Laffranchi, e ho ventitre anni. E ho passato quasi tutta la mia vita sui libri, o china su un tavolo per cucire.

È tutto merito mio, se sono arrivata dove sono adesso, non ho avuto l’aiuto di nessuno.

Non penso di poter essere considerata una ragazza bella.

Ho lunghi capelli mossi, castano scuro, che ogni giorno vanno dove vogliono, formando una massa informe attorno al viso ovale e pallido. Le labbra sono carnose e rosee, sotto il piccolo naso coperto di lentiggini. Gli occhi, contornati da lunghe ciglia nere, sono grandi di un grigio-azzurro metallico, ma li copro con grandi occhiali. Io non amo truccarmi, niente mascara o fondotinta.

Il corpo è nella media, un metro e settanta, il seno appena accennato, un punto vita sottile. Con tutto quello che conosco, potrei valorizzare molte cose del mio corpo, ma preferisco non farlo, per adesso non mi interessa.

Amo le cose belle, ma non addosso a me. Io giro con pantaloni e felpe larghe, comode. Infatti tutti si stupiscono quando dico loro cosa studio. Perché io studio moda, anche se non sembra. E sono una delle ragazze più promettenti. Ma tutto questo, perché le cose belle, stanno meglio agli altri, ma di certo non a me. Quando esco dall’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, finite tutte le cose burocratiche come il ritiro delle valigie, mi si avvicina un uomo sulla trentina, con un completo blu e un cappello.

«Lei è la signorina Matilde Laffranchi?» chiede in un italiano un po’ stentato.

«Sì» rispondo io in francese. Non sono mai stata in Francia, ma mi sono sempre piaciute le lingue e me la cavo abbastanza bene.

L’uomo fa un sospiro di sollievo, anche se non capisco se lo fa, perché ha indovinato persona, o perché parlo francese.

«Sono Gabriel, l’autista della famiglia Ulliel, la prego, mi segua…»

Sono diffidente per natura. Come faccio a sapere che questo Gabriel è l’autista della famiglia che mi ospiterà? «Ha con sé qualcosa che lo dimostri?» chiedo, tanto per essere sicura.

L’uomo sorride, come se si fosse aspettato una domanda del genere. «Ecco a lei…» disse passandomi un foglio che conferma le sue parole e sotto posso leggere la firma della signora Ulliel.

Sorrido a Gabriel e mi avvicino alla macchina, portandomi dietro i due trolley.

L’uomo, mi segue e mi prende le valigie, caricandole nel bagagliaio dell’auto, e mi fa cenno di sedermi nei sedili dietro.

Mi siedo e stringo al petto la mia borsa. Dentro ho tutto quello che mi serve. Il mio computer e i miei disegni. Gran parte del mio futuro risiede in quella borsa.

Per mezz’ora guardo il paesaggio parigino sfrecciare sotto i miei occhi. Per nove mesi questa sarà la mia nuova casa… nove mesi non sono tanti. E uno di questi giorni devo assolutamente andare a Parigi, non si può andare in Francia e non visitarla.

Ci dirigiamo vero la periferia di Boulogne-Billancourt ed oltrepassiamo un cancello i ferro battuto. La macchina percorre un lungo viale d’ingresso alberato e si ferma davanti a una fontana. Dietro alla fontana posso vedere quella che sarà la mia casa. Una bella villa su tre piani, con grandi finestre decorate e un grande giardino tutto attorno. Per arrivare all’ingresso della villa, bisogna salire una grande scala in marmo decorato. Di certo, non pensavo di vivere in una villa, anche se solo per nove mesi.

Gabriel scende dall’auto e mi apre la portiera con un inchino formale.

Io, con i miei jeans un po’ larghi e bucati e la mia felpa colorata, mi sento del tutto fuori posto. Per la prima volta nella mia vita desidero essere vestita in modo decente, magari con un mio bel vestito addosso…

Aspetto Gabriel, che sta prendendo le mie valigie, e poi ci avviamo su per l’imponente scalone di marmo. L’autista suona al campanello, e poco dopo una donna dai capelli scuri viene ad aprire.

«Gabriel, porta pure le valigie in camera. Conosci la strada…» l’uomo se ne va, scompare su per un’altra scala di legno intarsiato. Così rimango solo io sulla porta. La donna comincia a guardarmi, con occhio critico da stilista.

«Sei Matilde Laffranchi? Ti immaginavo un po’ diversa… Io sono Annalise, e dovremo assolutamente fare qualcosa per i tuoi vestiti…» dice indicandoli.

Arrossisco abbassando lo sguardo. Sono così brutti? In effetti, in un ambiente così sono fuori posto, ma io di certo non giro tutti i giorni in ville eleganti.

«Sei capace di cucire?»

Annuisco convinta. Sono capace di cucire. I jeans che indosso, li ho cuciti io.

«Bene, allora direi che, per vedere come lavori, ti fai qualche bel vestito da mettere…»

Mi arresi a stravolgere il mio guardaroba. E pensare che non c’era riuscita neanche mia madre, e la mia migliore amica dopo di lei. Doveva arrivare una donna francese, per me sconosciuta, per obbligarmi a vestirmi in modo diverso. Bene, molto bene.

«Vieni, ti porto in camera.»

Annalise si avvia spedita su per le scale, senza guardare se la seguo o se sono rimasta indietro. Aumento il passo e sento le mie scarpe da ginnastica scricchiolare sul parquet. No, non era per niente il suo ambiente. Ma si sarebbe abituata, ne dipendeva il suo futuro.

«Stiamo ristrutturando parte della villa, quindi abbiamo poche stanze libere.» dice aprendo una porta in rovere intagliato. Entra e io la seguo, esitando.

Dentro, contro una parete c’è un grande letto a baldacchino blu, il materasso alto e niente drappeggi che scendono dalla struttura. Tutta una parete della stanza è occupata dalle finestre, e c’è anche un piccolo balconcino in pietra che dà su un bellissimo e curatissimo guardino verde.

Sull’altra parete si aprono due porte. Annalise le indica.

«Nella prima c’è un piccolo studio, ti ho messo una macchina da cucire, alcuni manichini e tutto quello che ti può servire. L’altra porta è quella della cabina armadio. Ci sono ancora alcuni vestiti di Gaspard, ma non ti preoccupare.»

Ci impiego un po’ per capire chi è Gaspard, non collego subito il nome alla persona. All’attore. Io lo conosco per “Hannibal Lecter”, che è uno dei miei libri preferiti, ma di certo non ho intenzione di fare scenate. Certo, è una persona famosa, è un uomo anche molto bello e attraente, ma è troppo lontano dal mio obiettivo. E di certo, una persona come me, non attirerà la sua attenzione.

In un angolo della camera, che è composta solo da un comò antico, un paio di poltrone, e una scrivania, ci sono le mie valigie.

Annalise esce dalla camera e mi indica un’altra porta. «Quello è il bagno, lo userai solo tu.» le sorride incoraggiante. «Se hai fame, chiedi a Gabriel o a Rose, la domestica, di indicarti la cucina, e poi sarà servita la cena…» detto questo, scende dalle scale e scompare alla mia vista.

Rientro in camera ed entro nello studio. Di certo non era nato per essere uno studio di cucito, ma Annalise l’aveva attrezzato bene. Poso la borsa sul tavolo da lavoro e prendo l’album dei disegni.

Lo sfoglio per un po’, indecisa su cosa creare.

I vestiti che creo e disegno, di certo non li immagino sul mio corpo, li immagino per le modelle dal fisico longilineo e perfetto.

Nello studio c’è anche uno specchio. Mi tolgo la felpa e i jeans e mi guardo allo specchio.

Alla fine opto per una gonna svasata e a vita alta, guardo tra le stoffe che Annalise mi ha dato. Ne scelgo una blu con dei ricami di una tonalità più scura. Mi metto subito al lavoro.

Per l’ora di cena sono riuscita a finire la gonna, non mi sono fermata neanche un attimo. A un certo punto, ero così stanca, che mi sono punta le dita con l’ago per rimanere sveglia.

Ma ci sono riuscita.

Sono le sei e mezza. Corro in bagno per farmi una doccia veloce e torno in camera.

Apro le valigie sul letto e inizio a disfarle.

Amelia, la mia amica, mi ha regalato una camicetta perfetta per la gonna a vita alta che aveva appena fatto.

La trovò in fondo alla valigia, fortunatamente, non si era stropicciata.

Indosso la gonna, che fortunatamente mi va bene, e la camicia bianca.

Non mi guardo neanche allo specchio, non mi piacerebbe quello che vedo, come al solito, quindi non perdo tempo.

Nella valigia cerco degli accessori da abbinare. Trovo una cintura che sicuramente ci sta bene. Poi inizio a sistemarmi i capelli, la parte più complessa.

Alla fine riesco a sistemarli in una massa di boccoli abbastanza decenti, che arrivano a metà schiena.

Indosso gli occhiali e mi guardo dall’alto in basso. Mi avvicino di nuovo alla valigia, più piccola, quella delle scarpe. Quando la apro, campeggiano sulla massa di scarpe da ginnastica e scarpe basse, un paio di parigine blu notte, con il tacco alto. Avrei infamato Amelia, lei e le sue fisse dei tacchi alti.

Mi sedetti sul letto e provai le scarpe.

Quando mi alzai in piedi, barcollai sulle scarpe troppo alte. Non ero abituata alle scarpe alte. Ai tacchi n generale.

Provo a camminare per la stanza, sostenendomi ai mobili quando rischio di cadere.

Faccio un sospiro profondo ed esco dalla porta della camera.

E scendo dalle scale. Giro per un po’ per i corridoi della villa, ma tutto mi sembra uguale. Dove diamine è la cucina? O la sala da pranzo? Mi basterebbe anche una persona!

Ad un certo punto, mi trovo la strada chiusa da del nastro. Probabilmente sono arrivata alla parte della villa che stanno sistemando.

Scoraggiata torno indietro. Sento già i piedi doloranti e le gambe pesanti. Vorrei almeno tornare in camera.

«Signorina Matilde!» sento urlare. Riconosco la voce di Gabriel, e mi affretto in quella direzione.

Quando vedo la figura familiare di Gabriel mi tranquillizzo e traggo un profondo sospiro di sollievo.

«Gabriel! Grazie al cielo! Mi ero persa!» esclamo fermandomi con il fiatone davanti all’autista.

L’autista mi sorride e mi accompagna in giro per la villa, per i corridoi immensi e labirintici.

Si ferma davanti a una porta intagliata.

Mi liscio la gonna e passo una mano tra i capelli. «Grazie Gabriel…» sussurro prima di entrare.

È una stanza molto luminosa quella che mi si presenta, al cui centro c’è un grande tavolo apparecchiato per tre. Annalise è seduta accanto a un uomo brizzolato con degli allegri occhi celesti e stanno parlando. L’unico posto libero è quello davanti ai due padroni di casa.

Mi fermo davanti alla sedia.

«Scusate se sono arrivata in ritardo ma… Mi sono persa…» dico arrossendo leggermente. L’uomo scoppia a ridere e mi indica la sedia.

Imbarazzata mi siedo, e mi perdo a lisciare le pieghe immaginarie della gonna.

Annalise mi guarda, posso vedere il suo sguardo su di me. «Così va molto meglio.»

Chiama Rose e iniziamo a mangiare.

Quando abbiamo finito, Annalise mi ferma. «Domani alle nove ti voglio pronta, con qualcosa di decente addosso. Vieni alla mia boutique, iniziamo subito a lavorare.» mi fa un sorriso e scompare nei labirinti della villa.

Salgo in camera di corsa, per quanto mi consentono i tacchi, mi cambio, indossando dei pantaloni comodi, e ricomincio a lavorare a dei pantaloni, scelgo una stoffa marrone chiaro e lavoro gran parte della notte.

La mattina dopo, indossando i pantaloni nuovi, le parigine e una cravatta color caffè, presa in prestito dalla cabina armadio di Gaspard, esco dalla camera venti minuti in anticipo, così, anche se mi perdo nei corridoi labirintici, sarò comunque giusta con i tempi.

Quando arrivo, dopo essermi persa un paio di volte, Annalise mi aspetta davanti alle scale.

«Buon giorno Matilde…» mi sussurra con un sorriso. Spero di aver fatto tutto giusto… voglio farle una buona impressione.

«Andiamo…» e mi indica la porta.

La seguo traballando sui tacchi. Qualcosa mi dice che dovrò imparare a camminare sui tacchi. E bene, anche.

Dopo un mese e mezzo che sono dalla famiglia Ulliel, mi sento più a mio agio con Annalise, Gabriel, Rose, George, il signor Ulliel, e Elizabeth Cammile, o semplicemente Lisa, la figlia dei signori Ulliel. Quest'ultima non la vedo molto spesso: abbiamo orari diversi e lei è quasi sempre fuori con il suo fidanzato, Frederic. Ho imparato a camminare sui tacchi e ho stravolto il mio guardaroba, disegnando e creando vestiti sempre nuovi. Non mi sento ancora a mio agio con tutti questi vestiti, preferirei le mie larghe felpe e comodi pantaloni, ma ho imparato a non contraddire Annalise in fatto di abbigliamento, e forse ha ragione, dovrei curare un po’ di più la mia immagine. Una stilista che veste male, non ispira molta fiducia. Però, quando stiamo in casa, non ascolto minimamente Annalise e indosso tutte le felpe larghe e pantaloni che voglio.

Siamo a cena quando Annalise mi dà la notizia.

Indosso un vestito che arriva a metà coscia, verde smeraldo, con le maniche in pizzo bianco, così come l’orlo. Lo scollo a barchetta e delle decolleté bianche come il pizzo. I capelli sono lisci e sciolti sulle spalle. Annalise tiene molto a vedermi vestita bene durante i pranzi e le cene. E io la accontento.

«Gaspard verrà a farci visita domani…»

Come la prima volta, devo pensarci un po’ per capire chi è Gaspard. Poi mi ricordo. L’attore, certo. Ci penso un attimo. Questo dovrebbe cambiare qualcosa per me? No, certo che no. Avrei finito i miei nove mesi e sarei tornata a Milano alla mia vita, al mio studio. Al mio obbiettivo.

Conoscere o no Gaspard Ulliel, non avrebbe cambiato i miei obiettivi.

Finii di mangiare e salii in camera per mettermi a lavorare al mio futuro.

   
 
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