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Autore: eighteen    21/10/2013    0 recensioni
Jonathan Morrison era cresciuto piuttosto bene.
Gli buttai le braccia al collo e lo abbracciai. Fui sorpresa sentendo che la presa veniva ricambiata. Sentivo il suo corpo premere sul mio. Mi mancava il respiro.
Vivere in casa con lui, dopotutto, non sarebbe stato così facile.
Sentii le sue labbra premere sulla mia guancia. Ora era fatta, ero rossa come un pomodoro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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E se solo fossi realmente mio.

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Capitolo uno.
 
Spesso i fatti non avvengono nel modo in cui li immaginiamo, spesso accadono soltanto e neanche te ne accorgi, li ignori fino a quel momento in cui, accorgendoti della realtà, puoi avere solo due opzioni : avere un crollo emotivo, o continuare a nascondere tutto.
Ma quasi sempre non hai tempo di scegliere, ti accade una delle due e non puoi farci nulla.
Mi è successo questo quando ho scoperto chi ero veramente.
 
Era un mattino estivo come gli altri, quel poco di vento del quale si poteva godere alle sette faceva danzare le fronde degli alberi in giardino. Ero seduta sul letto, i piedi piantati a terra, il viso riscaldato dal sole, i miei occhi erano chiusi, che lo volessi ammettere o no, ero ancora addormentata.
Mia madre era passata altre due volte a domandarmi se volessi rimanere a casa a dormire invece di accompagnarla alla stazione dei treni ed io le avevo detto che non potevo essere più sveglia di quanto lo fossi in quel momento.
Non mi andava di lasciarla andare da sola, senza sua figlia che la salutava con il fazzoletto e le lacrime agli occhi. In realtà non ero così. Avrei rivolto un sorriso a mia madre e l’avrei abbracciata al massimo. Sapevo che non stava andando incontro alla morte, ma solo a lavorare per un anno in Italia. Dopo avremmo deciso insieme dove stare.
Sempre con gli occhi chiusi, allungai la mano per prendere la borsa sul letto, poi mi alzai e fui costretta sentire il fastidio della luce.
Sospirai e chiusi la porta della stanza dietro di me.
“Mitchie sbrigati! Non vorrai farmi prendere il treno!”
Posai la mano sul corrimano e scesi lentamente le scale.
Se io di mattina non riuscivo a compiere azioni di quella semplicità, come avrebbe fatto lei a prendere un treno per arrivare a Los Angeles e dopo un aereo diretto che l’avrebbe portata a Roma?
Uscii di casa e vidi la donna bionda che mostrava i suoi quarantacinque anni con classe, mi faceva segno si sbrigarmi. Vedevo il suo sorriso e mi chiedevo quanto tempo doveva passare prima che svanisse, perché a quel punto sarebbero cominciati i suoi ripensamenti riguardo alla partenza.
Mi sedetti con cautela sul sedile del passeggero temendo che potesse scoppiare in un pianto isterico da un momento all’altro. Accesi la radio. Breath easy dei Blue. Cominciai a canticchiare. Quella canzone la sentivamo sempre quando ero piccola, e la cantavamo in macchina. Lei mi accompagnò inventando alcune parole perché non ricordava il testo.
Accese il motore e partimmo sorridenti verso la stazione di West Midnight.
“Sai che non so se mi mancherà Midnightwood?”
Ecco il momento che più temevo. Mi voltai e rimasi a guardarla per alcuni secondi. La riuscivo a capire, ma non condividevo il suo pensiero. Sapevo che se un giorno sarei riuscita a scappare da lì e fossi riuscita a trasferirmi a New York avrei sentito la mancanza di quel buco di cittadina più di quanto sarei riuscita ad ammettere.
Adoravo ogni singola strada, ogni piazza di Midnightwood. Perfino il bosco era parte di me. Mi affascinava, anche se da sola pensavo che non sarei mai riuscita ad attraversarlo.
“Preferisci le grandi città.” Affermai. Lei annuì mostrando l’accenno di un sorriso. Adoravo il suo sorriso, era un’esplosione di gioia, quando era sincero.
Mi voltai per guardare avanti. L’automobile tremava sul sentiero non asfaltato come un ubriaco che barcollando cerca la via per tornare a casa. Poggiai il capo contro il finestrino per sentirmi scuotere come l’auto. Chiusi gli occhi e sentii l’oscurità afferrarmi e tirarmi giù con se.
Al mio risveglio il motore si stava spegnendo. Sorrisi alla bionda che mi aveva donato un dolce sguardo nel momento stesso in cui i miei occhi si erano aperti.
Mi diedi una spinta appoggiandomi alla maniglia della portiera per tirarmi su. Appena misi piede sull’asfalto barcollai. Mi accasciai subito sull’auto chiudendo gli occhi dalla stanchezza.
“Neanche stanotte hai dormito.”Disse, e non era una domanda.
Erano passati mesi dall’ultima volta che avevo realmente dormito di notte. Si era trattato sempre di riposare gli occhi per una, o due ore al massimo, per poi vagare insonne per la casa.
Non sapevo perché mi succedesse ciò e non avevo neanche voglia di vedere uno specialista. Ne avevo già visti alcuni e non erano serviti a nulla.
“Tranquilla.” Tagliai corto.
La vidi irrigidirsi. Riuscii a capire che aveva stretto i denti.
“TRANQUILLA?? Michela Clarissa Hudson non permetterti di dirmi una cosa del genere. Sto partendo per l’Italia e non si sa quando riusciremo a vederci di nuovo. Ti sto lasciando qui con tua nonna nella casa vicino e un amico di famiglia poco più grande di te. Non posso stare tranquilla.”
Abbassai il capo. Quando reagiva così non si poteva replicare. Mi avvicinai, le diedi un abbraccio e poi mi offrii di portarle la valigia.
Era sempre stato così tra di noi. Un momento di pace seguito dalla tempesta che subito dopo dava spazio ad altra pace.
“Non è poco più grande di me, ma troppo grande per me. E poi non sono il tipo di ragazza che piace a quelli più grandi quindi non preoccuparti.”
Rise. Mi diede una specie di pacca sulla spalla ed entrò.
Non prestai attenzione a ciò che fece, mi accorsi solo che in pochi secondi ci stavamo già avviando alla piattaforma del binario numero tre.
Il tempo passò così velocemente che mi è difficile ricordare le cose che ci siamo dette in quegli ultimi attimi ma ricordo di aver sentito più che mai la paura di perderla. Le domande più stupide nascevano nella mia testa. Starà meglio senza di me? Si accorgerà che sono sempre stata di troppo nella sua vita? Deciderà di rimanere lì senza di me?
Molte volte, quando andava fuori di testa, mi diceva le cose peggiori che le potessero uscire dalla bocca. Io volevo solo sotterrarmi in quei momenti.
Quando fu tempo dei saluti la strinsi più forte che potei e sentii una sua lacrima bagnarmi la pelle. La ignorai. Avrebbe reso tutto più difficile.
Mi fece ancora più male vederla che mi salutava con la mano mentre saliva sul treno.
Quando vidi sfrecciare quella striscia di colori sbiaditi lontano da me mi sentii sola. Era come se fossi rimasta solo io in quella piattaforma, come se mi avessero abbandonato tutti.
Respirai profondamente e sentii diversi odori, molti dei quali erano poco piacevoli.
Una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai di scatto. Precipitai nel cielo, o almeno fu quella la sensazione. Mi ritrovai a fissare dei maestosi occhi azzurri. Erano accompagnati da un sorriso familiare. Indietreggiai di poco e vidi la maglia bianca a mezze maniche che gli aderiva sul corpo e mostrava la sagoma dei pettorali, e lì dove le braccia erano scoperte si potevano vedere i suoi bicipiti. Cercai di non fargli notare che rischiavo uno svenimento.
Jonathan Morrison era cresciuto piuttosto bene.
Gli buttai le braccia al collo e lo abbracciai. Fui sorpresa sentendo che la presa veniva ricambiata. Sentivo il suo corpo premere sul mio. Mi mancava il respiro.
Vivere in casa con lui, dopotutto, non sarebbe stato così facile.
Sentii le sue labbra premere sulla mia guancia. Ora era fatta, ero rossa come un pomodoro.
 
 
  
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