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Autore: Katekat    21/10/2013    5 recensioni
Rabastan ha undici anni quando incontra per la prima volta la futura sposa di suo fratello.
[Rodolphus/Bellatrix/Rabastan]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Quel pianoforte

 

 

 

 

 

L’elegante pianoforte a coda giace addossato alla parete di fondo dell’ampio salone, tronfio nella sua lustra livrea nera. Gli Elfi di casa lo tirano a lucido con scrupolosa attenzione – sanno quanto la loro padrona tenga allo strumento, uno degli oggetti più cari e più preziosi contenuti nell’antica dimora, e realizzare i suoi desideri è il loro compito.

Rabastan rimane ammutolito per l’ammirazione ogni volta che sua madre si siede davanti alla tastiera perlacea, solleva l’ampia gonna con un gesto pieno di grazia e fa scorrere le dita sui tasti traendone sinfonie celestiali.

I suoi occhi sono accecati dal riflesso tagliente dei suoi orecchini sotto le gocce luminose del lampadario – si muovono insieme al busto che ondeggia lento seguendo l’armonia malinconica delle note, le sfiorano le guance quando la sua testa si volta in direzione della finestra e lo sguardo si perde assorto nell’indefinito, dimentico di tutto, forse della musica stessa.

Rabastan sa che non diverrà mai bravo al pianoforte quanto sua madre. Ma Madame Lestrange si premura lo stesso di impartire lezioni di musica a entrambi i suoi figli. Un essere umano è incompleto se non sa suonare il pianoforte, dice.

È profondamente convinta che la musica dia quel tocco di raffinata sensibilità e profondità di pensiero sempre più difficili da trovare al giorno d’oggi; insegna il valore della pazienza, della costanza, del sacrificio ricompensato a rate. Insegna la compagnia del silenzio, la solitudine come scelta e non come costrizione; insegna ad apprezzare meglio le parole, e a riconoscere quanto siano vuote le chiacchiere in confronto alle fiabe raccontate dalle note.

Non ha voluto maestri – esimi sconosciuti – per i suoi figli; si occupa personalmente delle loro lezioni. Un’ora al giorno, tutti i giorni, dovesse cascare il mondo.

Monsieur Lestrange ha liquidato quest’occupazione come – ahimè – un’inutile “perdita di tempo”.

«E’ fondamentale che un uomo conosca l’uso della spada e della parola, non quello dei tasti di un pianoforte. A che gioverebbe loro, nella vita, saper suonare uno strumento musicale quando si troveranno di fronte al pericolo e alla sfida? La musica non ha mai salvato la vita a nessuno.»

«Devo contraddirti, caro marito. La musica salva più della bacchetta, se la si sa usare nel modo giusto.»

Monsieur Lestrange scuote il capo ogni volta che affrontano il discorso. Stringe le labbra e alza gli occhi al cielo. Un profondo sospiro gli si gonfia nel petto e il suo sguardo manda fulmini e saette.

«Li farai diventare due effeminati. Bada bene, moglie: non ho intenzione di tollerare che il nome dei Lestrange sia disonorato.»

«Non temere, caro. Non sarà la musica a renderli meno onorevoli e rispettosi nei tuoi confronti – o meno degni del tuo affetto.»

«Lo spero bene.»

E così le lezioni di piano sono continuate, nonostante la perplessità contrariata e i rimbrotti sottovoce – rivolti più a se stesso che a qualcuno in particolare – dell’austero padrone di casa. La sua avversità per quell’arte “da femminucce”, tuttavia, non gli impedisce talora di accomodarsi sul divano del salone – un bicchiere di vino di Borgogna in mano, lo sguardo che si bea del meraviglioso paesaggio fuori dalle ampie finestre che affacciano sulla scogliera, sull’oceano dispiegato lì sotto come una lustra coltre blu cobalto – e dilettarsi la mente e il cuore con la melodia che scaturisce dagli anonimi tasti bianchi e neri, che diventano all’improvviso così vivi, custodi di sonanti meraviglie che rapiscono lo spirito, sotto le dita di sua moglie.

Lei suona sempre per prima, poi si alza con grazia e, con un incoraggiante cenno del capo, invita i suoi figli a imitarla. A questo punto, in genere, Monsieur Lestrange si sente autorizzato ad abbandonare il salotto.

C’è una disparità evidente tra i due fratelli, in quanto ad abilità con lo strumento. Per quanto si sforzi, infatti, Rodolphus non riesce a coordinare il ritmo che ha in mente con il movimento delle dita e, frustrato, smette quasi subito di suonare – alza le spalle e liquida con un sorriso i tentativi di sua madre di non darsi per vinto.

«Non sono tagliato per la musica, madre.»

«Non dire sciocchezze, figlio. La musica è un dono cui ognuno di noi ha diritto. Sei tu a non amarla abbastanza. Forse…» gli scocca all’improvviso un’occhiata da sotto un sopracciglio inarcato con sagacia, «forse perché nel tuo cuore c’è già l’amore per qualcos’altro.»

Rodolphus, a quella domanda, sposta puntualmente lo sguardo fuori dalla finestra – le mani incrociate dietro la schiena, l’espressione improvvisamente pensosa, un sorriso a incurvargli impercettibilmente le labbra.

«Probabilmente sì. Lo sapete, madre, che diventare un eccellente Mago è la mia passione.»

«Puoi ingannare tuo padre dicendogli ciò che vuole sentire lui, ma non pensare di ingannare una madre, Rodolphus…»

Rodolphus sorride e non dice nulla. Sua madre resta a sogguardarlo per qualche istante, poi scuote la testa con un sospiro e poggia una mano sui capelli scompigliati del figlio minore che già siede avido e compunto davanti allo strumento, così piccolo che i suoi piedi ondeggiano nel vuoto a una buona spanna dal pavimento.

«Anche tu sei pieno di segreti, Rabastan?» gli sussurra, accarezzandogli i capelli. «Ah, non badare a cosa dice questa donna, figlio mio. Suonami qualcosa. Avanti, dammi la mano. Segui i miei movimenti.»

Mentre Rodolphus, in piedi accanto al pianoforte, si perde in pensieri fuggevoli che annegano nell’azzurro e nel rosa del cielo al tramonto, suo fratello beve direttamente dalle dita incantatrici di sua madre la beltà della musica.

Non c’è da stupirsi se Rabastan sia diventato molto più bravo di lui, con gli anni. Serio, concentrato, non distoglie lo sguardo dallo spartito fino all’ultima nota. In realtà, da molto tempo non ha più bisogno dello spartito: conosce a memoria ogni traccia, ma fissare i righini neri sulle pagine bianche che sanno di vecchio gli dà concentrazione e sostegno, soprattutto quando è chiamato a esibire il suo precoce talento davanti a tutta la famiglia riunita.

Sotto i loro occhi giudicanti, il ragazzino si fa tutt’uno con la sua musica. Solo alla fine, si alza in piedi e accoglie l’applauso con un misuratissimo inchino, senza sorridere, senza dire nulla.

Per Rabastan la musica è un mezzo di comunicazione con il Superiore – per Rodolphus una specie di magia, una di quelle che non riuscirà mai a fare.

 

---

 

Una volta, Rodolphus ha parlato del singolare talento musicale di suo fratello al suo amore segreto. Lei ha insistito per ascoltare. Rodolphus se n’è stupito, perché lei non sembra essersi mai interessata a nulla che lo riguardasse.

Così l’ha portata a casa – un pomeriggio di fine agosto, prima dell’inizio della scuola.

I suoi non ci sono; Rodolphus ha progettato accuratamente il tutto. L’ha fatta accomodare nel salotto luminoso, sul divano rivestito color panna; le tende frusciano bianche al vento caldo che entra dal terrazzo e profumo di rose viene dal giardino, come in un sogno. Si è scusato solo un attimo; è uscito dalla stanza prendendole la mano come un perfetto gentiluomo.

È andato in cerca di Rabastan, l’ha trovato nel giardino: il fratello minore guarda a occhi socchiusi e pensosi l’oceano in lontananza, accovacciato con le braccia intorno alle ginocchia come se si nascondesse da qualcosa. Rodolphus non lo nota; non  nota la sua posizione strana, né l’espressione vacua e sognante dei suoi occhi scuri. Il suo cuore pompa gioia nervosa in ogni arteria del suo corpo e lui obbedisce all’imperativo della propria felicità; non ha occhi per altro che non sia se stesso o la sua bella.

Con la sua voce più chiara e distinta – quasi cristallina – Rodolphus ha chiesto a Rabastan, con gentilezza, con cortesia, se può, per favore, suonare qualcosa per la sua fidanzata.

Fidanzata, sì. E’ la prima volta che usa questa parola, la prima volta che Rabastan gliel’ha sentita pronunciare. Rabastan volta la testa verso il fratello maggiore. Gli occhi di Rodolphus sono fissi su di lui, ma non guardano lui.

Rabastan ha compiuto undici anni questo mese. Il suo primo giorno di scuola si avvicina. L’unica cosa che lo aiuta a sopportare il pensiero senza mettersi a gridare è sapere che non sarà solo; c’è suo fratello a tendergli la mano, dall’altra parte della sua paura. Rabastan probabilmente farebbe qualsiasi cosa per lui.

Il bambino ha aperto la bocca per rispondere – il vento gli sbuffa dispettoso sul viso, soffiandogli i capelli negli occhi; mentre solleva le dita a sistemarseli, il suo sguardo scivola verso la portafinestra che dà sul giardino. La ragazza è lì in piedi che lo guarda. L’amore segreto di Rodolphus è immobile con una mano sullo stipite, avvolta dallo svolazzo disordinato delle tende. Guarda oltre il pendio discendente, verde e umido, che degrada verso il giardino; oltre le aiuole curate e i sentieri di ghiaia; oltre la spalla e i capelli lucidi di Rodolphus. Guarda lui, dritto negli occhi. Lo tiene fermo con il suo sguardo, lo costringe a doversi concentrare per poter respirare.

Anche a quella distanza, l’undicenne Rabastan deve reprimere un brivido. C’è qualcosa che non va, non capisce cosa, ma l’istinto lo avverte che è meglio tenersi alla larga dall’amore dei Rodolphus.

Dall’amore.

Distoglie quasi subito lo sguardo dalla ragazza – si staglia nera sul bianco delle tende, e lui ha pensato immediatamente ai tasti di un pianoforte, o all’inchiostro sulle pagine. Lo sguardo è durato un paio di secondi, ma è bastato perchè Rabastan si senta diverso, si senta più adulto.

Cresciuto, e allarmato.

Apre di nuovo la bocca – Rodolphus lo guarda con le labbra socchiuse e gli occhi fissi, in vigile aspettativa, ma sicuro di sé. Quando gli risponde, le parole non sono quelle che Rodolphus aveva in mente.

«Non mi va di suonare, oggi.»

Proprio così dice. Il piccolo Rabastan non sa da dove siano rotolate fuori quelle parole. Fino a un momento fa era ansioso di esaudire una richiesta del suo fratellone. Prima di Bellatrix, Rabastan avrebbe fatto qualsiasi cosa per Rodolphus. Ora, si rifiuta perfino di suonare.

Rodolphus non si è aspettato che il suo ordine di fratello maggiore venga ignorato. Rodolphus, fino a questo momento, non ha mai avuto un dubbio su Rabastan. Affiderebbe la propria vita a quel bambino acuto e silenzioso. Che ora lo sta guardando con un’espressione insolita. Sembra vigile come una preda. Rodolphus lo guarda accigliato.

«Cosa hai detto?»

Rabastan non lo guarda. Getta un altro sguardo verso la portafinestra spalancata, ma sa che vi vedrà solo il biancore cangiante delle tende che si gonfiano come una nuvola investita dal sole. La cornice della porta, ora, è vuota.

«Ho detto che non ho voglia di suonare il pianoforte. Mi dispiace per la tua fidanzata

Pronuncia il nome con cautela, come cercando dentro di sé l’esatta intonazione con cui Rodolphus stesso lo ha pronunciato. Come se temesse di sbagliare il senso della frase.

«Ma che ti prende?» Rodolphus fa qualche passo verso di lui. Inspiegabilmente, ora ha un’aria minacciosa. Come minaccioso è il suo modo di torreggiare dall’alto sul fratello ancora accovacciato per terra. «Suoni sempre, davanti alla famiglia. Non dici mai di no. Non perdi occasione per esibirti. Perché non oggi?»

Rabastan solleva lo sguardo, scrutandolo da sotto la fronte aggrottata. Rabastan, fino a dieci minuti fa, non avrebbe mai pensato di mentire a suo fratello. Lui e Rodolphus si sono sempre detti la verità, non hanno mai avuto segreti, hanno sempre condiviso tutto.

Ma ora Rabastan è cresciuto. Crescere significa dover mentire, qualche volta.

«Suono perché sono obbligato. Detesto il pianoforte.»

Rodolphus trasale. Rabastan lo fissa da sotto in su con una strana combinazione di aggressività e paura, come a sfidarlo a non credere alle sue parole, o a obbligarlo anche lui. Con quella confessione inaspettata mette alla prova l’affetto che Rodolphus sente per lui.

Anche tu vuoi obbligarmi, come tutti loro? Ora che sai il mio segreto, da che parte stai?

Rodolphus non appare convinto. Ha davanti agli occhi l’immagine di suo fratello, sempre così preso, così assorto, davanti al suo pianoforte. Così portato… tutti lo dicono che ha un dono di natura, che diventerà un artista – invece diventerà un Mangiamorte, ma chi potrebbe prevederlo?

Non può credere che sia stato sempre tutta una finta. Lo ferisce crederlo, perché significherebbe che anche lui, suo fratello, è stato ingannato. E non è possibile, perché lui e Rabastan si sono promessi di non agire mai intenzionalmente male l’uno nei confronti dell’altro.

«Ti ho chiesto solo un favore» dice, la voce ancora bassa e pacata. «Non ti costa molto. Solo per stavolta. Ti prego, Rab.»

Rodolphus ha pregato. Rodolphus non ha mai dovuto pregare fino a oggi; ha sempre ottenuto tutto ciò che voleva da suo fratello. Rabastan capisce che è davvero importante per lui. Per la prima volta Rabastan si sente importante. Prova una curiosa sensazione di calore che gli si scioglie e si smuove liquida intorno al suo cuore, sguazzandogli nel petto. Soddisfazione. È riuscito a rompere il legame gerarchico che fino a questo momento c’è stato tra loro. E’ salito alla pari con Rodolphus; anche se lui è a terra e Rodolphus in piedi, è come se lo stesse guardando dritto negli occhi.

Rodolphus ha detto “ti prego, Rab”. E Rabastan ha scoperto, in quell’istante, che è misteriosamente e inspiegabilmente bello sentirsi supplicare da qualcuno. È la  prima volta che lo sente. È questo che ricorderà per farsi forza mentre si inginocchierà davanti a un uomo spietato e accoglierà il suo marchio sulla carne e il suo veleno nel sangue. 

Magari è diventato un Mangiamorte perché un pomeriggio d’agosto di tanti anni prima gli è piaciuto sentire Rodolphus supplicare chiamandolo per nome. E da allora una parte di sé è vissuta nell’ardore di risperimentare quella sensazione esaltante.

Rabastan ha capito di avere un potere, oggi. Ha capito che Rodolphus farebbe di tutto per avere un suo sì. E’ un’ebbrezza che gli dà alla testa. A undici anni ha scoperto cos’è il potere. E ha rovesciato le dinamiche del rapporto con suo fratello. Ha imparato un sacco di cose, oggi – tra queste, il piacere di tenere sulle spine una persona.

Prende tempo, muove la lingua contro il palato come a tenere ferme le parole. Rodolphus lo guarda con ansia. Un principio di rancore sale dal fondo dei suoi occhi. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo perché penetri la coltre di incredulo stupore che li permea.

C’è qualcosa che trattiene e rallenta il suo scoppio di rabbia. Martella incessante al centro della sua mente il desiderio di tornare dentro: non vuole far aspettare oltre la sua donna; è un richiamo silenzioso che urla nelle sue orecchie come un potente corno da caccia. L’unica cosa che ancora trattiene la sua collera verso suo fratello è il pensiero che la cosa invariabilmente degenererebbe in lite, e lui non vuole assolutamente che lei senta, attraverso le porte dischiuse.

Ma, prima che possa far ragionare Rabastan, gli occhi di suo fratello guizzano fulminei verso un punto alle sue spalle. L’attimo prima che Rodolphus si giri a seguire il suo sguardo, scorge un’espressione strana sul volto del fratellino. Nuova, sconosciuta. Rodolphus corruga la fronte, si chiede cosa sia. Un vago senso di allarme gli serpeggia profondo nello stomaco; un’inquietudine ancora senza nome.

Se si fosse osservato allo specchio questa mattina, mentre si preparava per incontrare lei, Rodolphus riconoscerebbe subito quell’espressione. Ma lui non ha occhi per vedersi dall’esterno. E anche se Rabastan è il suo doppio, quasi il suo gemello, e lui lo conosce come le sue tasche, il ragazzino di oggi non è più quello di ieri. È cambiato qualcosa in lui, e  Rodolphus si chiede cosa sia.

Ma prima che possa soffermarsi su questo pensiero, una mano gli si posa sulla spalla. Leggera ma ferma. Riconosce nel tocco quella determinazione che l’ha colpito da subito, in lei. E invincibilmente si trova a voltarsi. Incontra il suo respiro leggero sulla bocca, e poi i suoi occhi che scintillano, incastonati nei suoi.

Le pupille nere di Bellatrix bucano le sue. Il bianco delle sclere ha una sfumatura azzurrina. È la prima volta che Rodolphus lo nota. È come ipnotizzato dagli angoli affilati dei suoi occhi, dal modo in cui possono restare fissi, immobili, come dipinti, tanto a lungo senza nemmeno batter ciglio, mentre altre volte scivolano così velocemente sotto le palpebre come uno sfarfallio di ali impazzite.

Proprio in questo momento gli occhi di Bellatrix si svincolano dai suoi e rapidissimamente si appuntano sul piccolo Lestrange. Stringe impercettibilmente le palpebre. Gli tiene ancora la mano sulla spalla: ora, riflette confusamente Rodolphus, sembra lo stia trattenendo, tenendolo fermo dove si trova.

Ha sentito tutto, pensa Rodolphus, e si sente bruciare di vergogna e orgoglio ferito. Cosa penserà di lui, se non è riuscito nemmeno a farsi obbedire dal suo fratellino?

Bellatrix fa qualche passo in avanti, lasciandogli scivolare la mano giù dalla spalla. Rodolphus la osserva un po’ preoccupato avvicinarsi a suo fratello. I raggi del sole si nascondono tra le pieghe del suo vestito quando si accoccola davanti al bambino.

«Quindi tu saresti il famoso Rabastan» sussurra. «Il fratellino geniale e riservato...»

Rodolphus ha gli occhi fuori dalle orbite. Mai, prima d’ora, ha visto Bellatrix inginocchiarsi davanti a qualcuno.

Rabastan si ritrae impercettibilmente. Le sue mani salgono a stringersi più forte le ginocchia. Sposta il peso più indietro sui talloni. Getta un rapido sguardo al volto della ragazza, così vicino, e lo abbassa sulle proprie scarpe lucide. Non dice nulla, ma un rossore strano gli è salito alle orecchie, che spuntano accaldate tra le ciocche scure. La frangia gli ondeggia sulla fronte a ogni movimento.

«Sei proprio un bambino carino, tu e tuo fratello vi somigliate tanto» bisbiglia Bellatrix. Rodolphus deve tendere le orecchie per sentirla, tanto la sua voce è bassa e gutturale. «E sei anche modesto. Adorabile, quando arrossisci. Dovresti farlo più spesso.»

Così dicendo Bellatrix solleva una mano e sfiora con l’indice la guancia di Rabastan, dall’alto verso il basso. Rodolphus si agita. Prende all’improvviso coscienza del cuore che gli sta contorcendo in gola; si infila un dito nel colletto cercando di allargarlo, ma continua a soffocare. Rimane a guardare; non tenta di fermarla.

Ma non trattiene un sussulto quando lei si china su Rabastan con lentezza esasperante. Apre la bocca per urlare qualcosa (fermati!), qualsiasi cosa (lascialo stare!), ma si ritrova a boccheggiare senza fiato. Lei piega la testa – i suoi capelli precipitano in cascate su una spalla – e sussurra qualcosa all’orecchio del bambino.

Rodolphus non riesce a sentire cosa, stavolta, ma vede nettamente le orecchie di Rabastan andare ancora più a fuoco. Il ragazzino non solleva lo sguardo da terra, ma prende a mordicchiarsi il labbro inferiore, trattenendolo tra i denti, cosa che fa solo quando è molto agitato. Di fronte ai loro parenti, per esempio, non lo fa mai – è contro l’etichetta.

Ma in quel momento ci sono solo lui, suo fratello e la sua micidiale ragazza dagli occhi acuminati come lame. La ragazza che, dopo avergli sussurrato quella cosa, si è rialzata e ha fatto un passo indietro, guardandolo dall’alto con un sorriso freddo.

«Ho chiesto a Rabastan se sarebbe così gentile da farmi sentire qualcosa» dice, voltandosi verso Rodolphus. «Gli ho promesso una sorpresa, se acconsente a suonare per me.»

«Che cosa gli hai promesso?» s’informa Rodolphus, accigliandosi. Non guarda lei ma Rabastan, che è sempre più nervoso.

«Ho detto che è una sorpresa. Non essere impaziente, Rod.» Ride, prendendolo sotto braccio. «Se tuo fratello è bravo come dici, se la meriterà. E scommetto che darà il massimo per non perdersela, non è vero, Rabastan?»

Il ragazzino non dice nulla. Se i suoi genitori fossero qui in questo momento, lo rimproverebbero severamente perché si sta mostrando scortese con l’ospite – lo stesso Rodolphus dovrebbe rimproverarlo dal momento che, in assenza dei suoi, è lui il padrone di casa, ma Rodolphus è troppo assorto nell’immaginare cosa la sua ragazza abbia promesso a Rabastan per ricordargli l’etichetta.

«Vieni, andiamo dentro. Sono impaziente.» Prima che possa reagire, Rodolphus, inerme, è costretto a fare una piroetta su se stesso e viene trascinato su per il pendio in direzione della casa. Lancia una breve occhiata al fratello da sopra la spalla. Rabastan non ha mosso un muscolo, ma ha la testa sollevata, il collo inclinato in una posizione innaturale che minaccia di spezzarglielo, e li guarda con occhi selvaggi. Occhi che Rodolphus ha perso improvvisamente la capacità di leggere.

Rodolphus si ritrova all’ombra del salone. Bellatrix gli è accanto, preme il corpo contro il suo e lo guarda strano. C’è un qualche intento fondo e oscuro dietro i suoi occhi così luminosi, così impenetrabili. Lo guarda con una certa fissità pensosa e calcolatrice. Rodolphus scrolla le spalle, pensando si tratti di una sua impressione – del suo solito brutto difetto di pensare troppo.

Si lascia trascinare docilmente verso il divano. Ora che lei è con lui, a rivolgergli tutta la sua attenzione, si sente meglio. Ma quel vago senso di allarme che ha provato prima non lo abbandona. Bellatrix gli si siede sulle ginocchia, a sorpresa – è la prima volta che si permette un gesto così intimo con lui. Nonostante siano ormai ufficialmente impegnati, fino a quel momento lui ha dovuto pregarla e inseguirla e metterla alle strette per spillarle anche una sola parola. Fino a quel momento Bellatrix ha giocato con lui, tenendolo sulla corda. Il suo improvviso cambiamento la dice lunga sull’onestà delle sue intenzioni, ma Rodolphus è giovane, ed è innamorato. Non riesce ad amare e insieme ad esser saggio.

Dopo un minuto, un rumore di passi si avvicina. Rodolphus ruota il capo verso la porta. Rabastan è sulla soglia, a testa bassa. Si morde ancora le labbra, sembra rimuginare qualcosa tra sé e sé. Non li guarda mentre attraversa il salone a grandi passi, circondato dai parati e dalle tende di organza impalpabile, sotto il cristallo dei lampadari che si riflettono negli ampi specchi e nelle vetrate separate da colonne. Si ferma contro la parete in fondo del salone, davanti al grande, lucido pianoforte d’ebano. Si siede, dando loro le spalle.

Lo sentono sfogliare gli spartiti inutili con i gesti gravi e misurati di un bambino diventato presto adulto. Il fruscio della carta è l’unico suono nel salone, a parte il sospiro intermittente del vento.

Bellatrix tiene le braccia intorno al collo di Rodolphus e sorride con un solo angolo della bocca. I suoi occhi sono fissi sulla nuca del musicista le cui spalle perfettamente diritte, la linea tesa e rigida della schiena sembrano tradire la sua consapevolezza di essere guardato.

«Ha qualche preferenza, Madamoiselle… ehm?» si interrompe, senza voltarsi. «Madamoiselle… chi?»

Rodolphus è scioccato dalla sua maleducazione. «Rab! Quante volte ti ho detto che-»

Ma lei lo interrompe indifferente: «Rabastan ha ragione. Non mi sono presentata».

Si alza all’improvviso, avvicinandosi al pianoforte. Gli gira intorno con un fruscio delle vesti inamidate fino a fermarsi davanti al ragazzino, faccia a faccia. «Mi chiamo Bellatrix Black. Puoi chiamarmi Bella.»

Rabastan le lancia il solito rapido sguardo, riabbassandolo poi precipitosamente sullo spartito. Borbotta qualcosa come “Piacere”, ma non le tende la mano, né accenna a baciare la sua.

Sente gli occhi scandalizzati di Rodolphus aprirgli buchi fumanti nella nuca. Sa che, dopo, dovrà sorbirsi una ramanzina con i fiocchi, non solo da parte di suo fratello, ma anche dei suoi genitori. Il suo comportamento è inammissibile.

Ma la ragazza dagli occhi acuminati non sembra aversene a male; anzi, appare divertita.

Di più: deliziata.

Si appoggia mollemente sul pianoforte, il mento su una mano; lo fissa con un sorriso e uno sguardo come a dire “Beh?”.

«Allora, Rab, cosa mi fai sentire?»

Rabastan preferirebbe che non facesse così. Che non lo chiamasse con quel diminutivo confidenziale – non si conoscono, non ne ha il diritto.

Preferirebbe che si allontanasse, portandosi via quel suo profumo strano, che non ha mai sentito prima – profumo di donna, ma non come quello di sua madre – che se ne torni sul divano a farsi cingere da Rodolphus: almeno non li avrebbe sotto gli occhi, a distrarlo.

Esita, fingendosi intento alla scelta di una sinfonia sui suoi spartiti. Le sue orecchie sono ancora rosse, e lui si odia per questo: ricordano la promessa loro sussurrata, per quanto la mente del loro proprietario cerchi di scacciarla per potersi focalizzare sulla performance. Alla fine, si sgranchisce le dita sottili e comincia a suonare.

Per tutta la durata dell’esibizione, Rabastan tiene gli occhi chiusi. In genere li tiene fissi sugli spartiti, incollati alla stessa riga, alla stessa nota, per tutto il tempo. Ma stavolta sente l’urgenza di sottrarsi a quello sguardo insistente, invasivo, scrutatore, provocatorio, che sente scorrere sui suoi lineamenti, spinto dalla curiosità di cercare nei suoi i tratti di Rodolphus o da qualcos’altro che non ha intenzione di scoprire.

Alle sue spalle, solo sul divano, sentendosi inesplicabilmente un imbecille, Rodolphus li guarda con la fronte aggrottata. Guarda la schiena perfettamente diritta del suo fratellino, i suoi capelli che da dietro somigliano proprio ai suoi, le dita che danzano sui tasti, e poi sposta lo sguardo sulla figura abbagliante che gli è accanto. La sua ragazza sposta di tanto in tanto il peso della testa da una mano all’altra, ma non accenna a staccare gli occhi dal musicista – senza peraltro guardare nemmeno una volta lui, e Rodolphus sa che è stupido (guarda me, accidenti), sa che è infantile (guardami, almeno una volta), e che non ha nessuna ragione di esserlo (ehi, sono qui! Sono il tuo dannato fidanzato!), ma non può non sentirsi trascurato e, sì, geloso… perché lei non toglie gli occhi di dosso a suo fratello finché questi non ha terminato.

A questo punto, cade il silenzio più totale.

Poi le bianche mani della ragazza si uniscono più volte, in un applauso secco, netto, preciso, che sembra frantumare il silenzio in una miriade di echi nelle orecchie arrossate del piccolo musicista che rimette a posto gli spartiti e abbassa il coperchio, accarezzandone la liscia superficie nera con tenero affetto.

Fa un breve cenno della testa nella sua direzione e, sempre senza guardarla, fa per alzarsi.

«Aspetta, non andartene! Voglio mostrarti una cosa.»

In un secondo, prima che possa rifiutare, andarsene, mettersi in salvo, lei è scivolata al suo fianco, aderendogli con l’ampia veste a balze contro la coscia. La seta del tessuto è liscia e fredda, e splende di mille riflessi alla luce. Ma nessuno, nessuno di quei riflessi è lontanamente comparabile allo scintillio che lei ha negli occhi – e nel sorriso – mentre si toglie i guanti che porta nonostante il caldo (al diavolo l’etichetta!) e li abbandona  distrattamente sul ripiano del pianoforte.

Per la prima volta Rabastan vede le sue mani nude: hanno la levigatezza e il candore di chi non ha mai lavorato in vita sua – di chi non ha mai avuto il bisogno di lavorare; le dita affusolate spiccano dalle nocche aguzze e terminano con pallide unghie perfettamente ovali.

Quando quelle mani fanno per sollevare il coperchio del pianoforte, solo allora Rabastan si  riscuote dalla trance.

«No!» Il suo è quasi un grido d’agonia. Preme la mano sul coperchio, impedendole di aprirlo, consapevole dello sguardo fumante con cui Rodolphus lo sta trapassando, dal divano.

Lei lo guarda con un sopracciglio e un angolo della bocca educatamente sollevati, in attesa di una spiegazione alla sua maleducazione.

«Solo un Lestrange può suonarlo» chiarisce Rabastan, mangiandosi le parole per il nervosismo. È arrossito di nuovo, ancora più violentemente di prima. Consapevole che il suo comportamento diventa di minuto in minuto più maleducato, eppure incapace di frenarsi.

Non riesce a mostrarsi gentile con la ragazza. Non riesce a essere spontaneo. Lei lo mette in allarme. Non sa perché. Non sa perché vuole solo che se ne vada e che non metta più piede in quella casa, lei e il suo profumo sconosciuto.

«Oh, vi stanno a cuore gli oggetti di famiglia… Capisco.» Lei annuisce compunta, ma un sorriso furbesco le balugina negli occhi. «Ma io e tuo fratello ci sposeremo presto. Perciò sto per diventare una Lestrange a tutti gli effetti. Non glielo hai detto, Rod, al tuo fratellino?»

Si volta verso Rodolphus, sorridendo quel suo sorriso glaciale.

Gli occhi di Rabastan scivolano inconsapevolmente sul rilievo candido che, come una colonna di marmo, i muscoli scolpiscono nel suo collo, torto elegantemente all’indietro, e sulla fossetta alla base di esso, appena qualche centimetro al di sopra dell’orlo ricamato della scollatura, dove la pelle – più chiara, in qualche modo più tenera – si affossa nell’ombreggiatura di un solco che sparisce sotto la tulle sottile dell’abito.

La voce di suo fratello, fredda anch’essa, lo riscuote con un sussulto da quella vergognosa contemplazione: «No, non ho ancora avuto occasione di dirlo a Rabastan, Bellatrix».

«Beh, sono lieta di essere stata io a darti la notizia, allora.» Si volta di nuovo verso di lui, con i suoi occhi neri neri che non lo perdono un attimo. Quasi l’ha colto in flagrante a fissarle imbambolato il davanti dell’abito. «Lascia che ti insegni qualcosa io, piccolino.»

Lascia che ti insegni qualcosa io

Gli sposta la mano con noncuranza, facendogliela scivolare giù dal coperchio mentre lo solleva. Quel gesto, chissà perché, trafigge Rabastan come una pugnalata, come una violenza. Se ne sente offeso nel profondo, più che da quel “piccolino” dal sapore di scherno – e di lascivia.

Non ne sa ancora molto delle donne e dei loro perversi modi di mostrare interesse, ma un istinto che risale a migliaia di anni prima della sua nascita, inscritto fedelmente nei suoi geni di maschio, ha drizzato le antenne nel momento esatto in cui l’odore di questa capricciosa lady ha fatto irruzione nella stanza, trapelando dalla porta socchiusa, avviluppandolo in un abbraccio indesiderato, come indesiderata è la sua vicinanza.

Vorrebbe andarsene: alzarsi e correre via di lì, il più lontano possibile, dove quella strana essenza non lo inseguirebbe più, dove le sue orecchie tornerebbero finalmente al loro normale colore e alla consueta temperatura. Se le sente bruciare. Si sente bruciare tutta la faccia.

È talmente nervoso che presta poca attenzione al pezzo che le perfette dita femminili stanno riproducendo, anche se il suo orecchio allenato non può non percepire la maestria con cui ogni nota viene fatta scaturire dallo strumento, dando voce all’anima che esso custodisce dentro, in attesa che qualcuno con quel talento venga a portarla alla luce.

Ha appena iniziato a concentrarsi realmente sulla musica quando questa cessa bruscamente. Accigliato, volge lo sguardo verso la ragazza e trasale, trovando il suo incredibilmente vicino, puntato su di lui, come se non avesse smesso di guardarlo nemmeno mentre suonava.

«Vuoi provare?»

«Co…? No. Non sono in grado» si affretta a negare, ma la voce gli si spezza sulle labbra quando lei lo prende per mano, guidandolo sui tasti.

Crede che non riprenderà più a respirare normalmente, mentre sente il palmo caldo e asciutto di lei premere sul dorso della sua mano, con forza, e fissa quasi tramortito le sue dita intrecciate alle proprie, le sue unghie che scorrono sulla sua pelle, mentre lo trascinano in un vortice di suoni che hanno smesso di avere alcun significato per lui.

L’unica cosa che riempie le sue orecchie è il rimbombo affannoso del suo cuore che si ripercuote con frastuono contro le costole, minacciando di uscirgli dal petto. La sua vista è come appannata: vede tutto attraverso un velo – forse di sudore, forse di lacrime.

Il suo labbro inferiore ha preso inspiegabilmente a tremare; deve morderselo quasi a sangue per fermarlo. Si sente la gola improvvisamente inaridita, come se tutta l’acqua fosse evaporata dal suo corpo, tranne la patina di sudore che ormai gli imperla la fronte, nascosta sotto le ciocche nere.

Si lascia guidare senza obiettare. Troppo sconvolto da quel tocco inaspettato per poter fare alcunché, mentre lei lo trascina verso vette sempre più rapide, sempre più sussultanti, di suoni cristallini. Quando finalmente il tormento ha fine, quando la musica cessa, spera con tutto se stesso che lei non si accorga del tremore delle sue dita.

«Hai visto? Non era difficile... Magari con un po’ di pratica potresti diventare perfino più bravo di me.»

Rabastan sbatte le palpebre, scacciando i brividi.

Ha abbassato la guardia.

E all’improvviso – con sua somma costernazione – sente qualcosa di liscio, di fremente, spingersi contro i polpastrelli della sua mano sinistra, ancora intrappolata nella stretta di lei. Il suo sguardo scatta verso il basso, attratto invincibilmente, eppure inorridito da quello che potrebbe vedere.

La mano della ragazza tiene ferma quella di Rabastan, immobilizzata, sul proprio ginocchio. Ma a poco a poco – come se guardasse impotente la scena  con gli occhi di un estraneo – la vede scivolare sotto le balze, sotto le tulle, sotto i molteplici strati di lucida seta che trae riflessi dalla luce.

Va completamente in apnea quando la pelle nuda trova le sue dita. Emette un basso gemito, strozzato, che i denti e le labbra cercano di soffocare in un colpo di tosse mal riuscito.

«Rod non mentiva quando ha detto che hai talento. E’ proprio vero: potresti essere nato per la musica, Rab.»

Lo blandisce con la sua voce di velluto, e con la mano lo attira sempre più verso i segreti che si celano all’ombra della veste, verso i quali la mente del piccolo Rabastan ancora non è stata spinta a violarne il mistero, almeno fino a questo momento. La cosa sta sfuggendo pericolosamente al suo controllo – oh, sì – e non riesce in alcun modo a riprenderlo, a tornare sui suoi passi, a sottrarsi alla sua stretta persuasiva, fintamente delicata, in realtà imperiosa e prepotente.

Sussulta quando sente le labbra di lei sfiorargli l’orecchio, pronunciando per la seconda volta in pochi minuti parole destinate unicamente a lui: «Sei stato un bravo bambino, Rab. I bravi bambini si meritano una sorpresa.»

Ma l’unica cosa cui Rabastan riesce a pensare è che Rodolphus è lì – Rodolphus è lì –, seduto dietro di loro, sul divano, che li guarda. Non può vedere cosa stiano facendo, crede, altrimenti farebbe qualcosa. Fa’ qualcosa, lo prega dentro di sé – ma Rodolphus non si muove (perché non fai qualcosa?).    

Rimani lì, dice un’altra voce. Una nuova, che non sapeva di avere. È come un folletto malefico che si è risvegliato dentro di lui. Quella ragazza gliel’ha messo in corpo. Viene da lei, parla con la sua voce. E’ colpa sua.

Ma, nonostante questo, il sentimento predominante è la vergogna. Lui si vergogna come un ladro di essere lì, a pochi metri da Rodolphus, con la mano infilata sotto la gonna della sua fidanzata, la donna che sposerà, la futura Madame Lestrange, sua cognata

Rabastan si alza di scatto, come punto da una vespa. Strappa violentemente la mano dalla sua presa, rischiando quasi di farle perdere l’equilibrio. Lei vacilla, presa alla sprovvista da tale impeto, ma si raddrizza subito, facendogli quasi credere che l’abbia fatto apposta.

«Rab!» Rodolphus è scattato anch’egli in piedi, forse sorpreso della sua reazione spropositata, forse temendo che stia accadendo qualcosa che non deve.

«Io… io devo andare. Scusate.»

Rodolphus fissa incredulo suo fratello, incredibilmente rosso, incredibilmente scarmigliato, fare un brevissimo inchino e lasciare il salone – o meglio, fuggire da esso – come se avesse alle calcagna un mostro mangiatore di bambini.

«Rabastan!» Il suo richiamo si perde in un sussurro incerto, troppo debole perché suo fratello lo oda. E, anche se l’avesse udito, probabilmente non sarebbe tornato indietro lo stesso.

I suoi passi – in genere così silenziosi, così misurati – risuonano con tonfi sordi, cadenzati, sui lustri pavimenti di marmo. Rodolphus sente il portone d’ingresso ruotare sui cardini e poi riaccostarsi con un pesante tintinnio di batacchi, e capisce che suo fratello è uscito. Diretto dove, non lo immagina. Forse al giardino, forse alla scogliera. Questa seconda ipotesi, chissà perché, gli accelera il battito.

«Un tipo emotivo, tuo fratello.»

Si volge verso di lei, ancora seduta davanti all’elegante strumento a coda, un luccichio indecifrabile negli occhi. Lo guarda con la testa morbidamente inclinata su una spalla; ciocche nere le si inanellano intorno al collo.

«Devi scusarlo. In genere non è così scortese.»

Lei sorride – Rodolphus pensa all’improvviso che il suo sorriso nasconda molti segreti.

«Ti somiglia molto, sai? Anzi… è proprio come te.»

«Che vuoi dire?»

«Oh, niente. Solo… buon sangue non mente. Sento che andremo d’accordo, io e tuo fratello.»

 

---

 

Più tardi, dopo che lei è andata via, Rodolphus ha trovato suo fratello seduto tutto solo nel giardino, su una panchina rosa dal tempo, coperta di foglie secche, sulla quale si piegano lussureggianti i roseti di famiglia, carichi di grappoli di fiori rigogliosi.

Con la punta della scarpa, Rabastan smuove il terriccio intorno alla panchina – la testa bassa, gli occhi vacui. Rodolphus lo ha visto così e si è fermato da lontano a guardarlo, in silenzio. È un’immagine così triste che lotta con la rabbia che sente crescergli in petto.

Si ferma, improvvisamente indeciso sul da farsi. Fino a un attimo fa è stato completamente certo del proprio comportamento, ma ora… non più. Deve punire Rabastan… oppure no?

All’improvviso la testa scura di Rabastan si volta verso di lui, come se percepisse di essere osservato, e lo vede. A quel punto Rodolphus giudica ormai inutile continuare a esitare e si fa avanti.

Vede Rabastan rimpicciolire, rannicchiarsi nelle spalle, mentre gli si avvicina, come se avesse paura di lui. Dopo un attimo di esitazione, Rodolphus gli si va a sedere accanto.

Rimangono entrambi in silenzio, per lunghi minuti, lunghissimi, a guardare il giardino accarezzato dalla luce ormai calante del tramonto. Oltre i rami agitati dalla brezza, lontano lontano, luccica l’ultimo sole sulla superficie increspata dell’oceano.

I due fratelli si godono lo spettacolo del giorno che muore in un incendio sfolgorante di rosso e viola all’orizzonte. L’aria si fa rapidamente più fresca. Rabastan si stringe ancora di più nelle spalle e sbircia di soppiatto il profilo di suo fratello, ancora catturato dalla magia evanescente dell’orizzonte.

Prima che possa trovare le parole, è Rodolphus a parlare.

«Non sei stato molto educato, oggi».

Rabastan abbassa la testa. «Mi dispiace, Rod.» Dopo un attimo di esitazione, solleva uno sguardo implorante verso di lui. «Lo dirai a mamma e papà?»

Rodolphus non risponde per un lungo istante. Continua a fissare diritto di fronte a sé. Dopo quella che pare un’eternità, distoglie lo sguardo per puntarlo nel suo e lo squadra con freddezza inconsueta, soppesando dentro di sé le parole. Si sta vendicando di quando è stato il minore, prima, a tenerlo in pugno.

Rabastan si ritrova a trattenere il respiro, in attesa del verdetto che significherà, nel peggiore dei casi, un lungo mese in punizione. Non gli sarà permesso neppure di mettere piede fuori dalla sua stanza. Potrà guardare il giardino solo da lontano, da dietro le finestre della camera, il naso premuto contro il vetro, la bocca piegata in giù in una smorfia triste.

È un bambino e ancora non gli sono chiari i concetti di giustizia o di causa-effetto, ma comprende che se l’è meritato. Si è comportato male con Rodolphus ed è giusto che lui lo ripaghi con la stessa moneta. Qualcosa si è spezzato tra loro, per sempre.

«Non glielo dirò» dice alla fine Rodolphus. Scrolla le spalle e torna a fissare con noncuranza l’orizzonte.

Rabastan sente gli occhi diventare lucidi. Segue lo sguardo di suo fratello, sbatte le palpebre cercando di schiarirsi la vista.

«Grazie, Rod.» E’ poco più di un sussurro a increspargli le labbra. «Perché no?» aggiunge poi, più a se stesso che a suo fratello.

Al suo fianco, Rodolphus sorride alla curiosità malcelata nelle sue parole. «Sei il mio fratellino» risponde asciutto, «i fratelli condividono… segreti.»

Sarebbe stata l’unica cosa che avrebbero condiviso? Quel pensiero colpisce improvvisamente Rabastan con la forza di una sferzata.

Al tempo stesso, si sente più commosso e più in colpa che mai. In colpa perché lui ha voluto quello che è successo. O almeno una parte di lui sì; non si è opposta. Stringe forte le dita intorno al bordo della panchina, sentendole gelare nel profondo. Una foglia venuta chissà da dove, trasportata dal vento, gli cade in grembo. La prende per il picciolo, se la rigira tra pollice e indice, studiandone le venature arborescenti.

«Devi proprio sposarla?»

Rodolphus volta di nuovo, lentamente, la testa nella sua direzione, sorpreso dalla sua domanda. E dal suo tono, che sembra tranquillo, ma cela una profonda disperazione rassegnata.

«Non dovrei?»

Rabastan alza le spalle, fissando la foglia. «Ci sono tante ragazze, Rod. Perché proprio lei?»

Rodolphus rimane in silenzio per un attimo. «Perché nessuna è come lei, immagino.»

Rabastan annuisce, anche se è troppo piccolo per conoscere il mondo delle donne.

«La amo» aggiunge con semplicità Rodolphus, in un sussurro.

Rabastan non ha mai sperimentato il sentimento di cui parla suo fratello, ma è abituato a interpretare il colore della sua voce, le sfumature nel suo volto, le variazioni impercettibili nei suoi gesti e tutto, questo pomeriggio, ha parlato del suo amore per la ragazza straniera.

Tutto.

«La amo più di ogni cosa.»

Il cuore di Rabastan batte più forte. Anche più di me, Rod? Vorrebbe chiedergli, ma non lo fa.

«Nostro padre ci ha insegnato quanto sia importante il valore della famiglia, il prendersi cura l’uno dell’altro. Io, come tuo fratello maggiore, devo prendermi cura di te, Rab.» Rodolphus parla a se stesso ad alta voce. «Devo aiutarti a riconoscere il bene dal male, a trovare la giusta via, a non prendere sentieri sbagliati. Per il tuo bene. Lo capisci, Rab?»

Rabastan non capisce – non fino in fondo. Dove vuole arrivare suo fratello?

All’improvviso Rodolphus lo guarda dritto negli occhi. «Lei sarà sempre la mia prima scelta, Rab. Hai capito?»

All’improvviso un tuono rimbomba nel cielo, ora cupo e grigio, quasi violaceo. Si leva un vento freddo, sibilante. Rabastan, distolta momentaneamente l’attenzione da suo fratello, scruta attonito la tempesta che si prepara. Odia le tempeste. Lo fanno sentire inerme, in pericolo.

Sussulta quando qualcosa di caldo e pesante gli viene appoggiato senza troppe cerimonie sulle spalle. Rodolphus gli ha dato la sua giacca.

«Che razza di fratello maggiore sarei se ti lasciassi morire di freddo?» dice, in risposta al suo sguardo interrogativo.

Lo fai solo per senso del dovere, Rod, o perché t’importa veramente di me?

Non ha bisogno di riflettere molto per indovinare la risposta.

Lei sarà sempre la mia prima scelta

«Torniamo dentro. Non voglio che mamma e papà ci trovino qui al loro ritorno.»

Senza dire nulla, all’unisono, i due fratelli si alzano; attraversano il giardino, correndo sotto le prime gocce lunghe e fredde che il cielo bagnato strizza vendicativo sul loro capo.

 

---

 

Più tardi, quella sera stessa, Rabastan ha suonato per Rodolphus.

Ha suonato a occhi chiusi, di nuovo – un paio di guanti bianchi erano stati dimenticati sulla superficie levigata dello strumento, e Rabastan chiude gli occhi per non vederli.

Non li riapre fino alla fine della musica.

 

 

 

Fine

 

 

 

  
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