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Autore: potters_continuous    21/10/2013    2 recensioni
Kurt e Blaine non sanno più nulla l'uno della vita dell'altro dal giorno in cui il giovane Hummel è volato in Svezia. Dopo anni una serie di sfortunati eventi li porterà a riallacciare il loro rapporto e a chiedersi se, nonostante siano cambiate un'infinità di cose, per loro ci sia ancora una possibilità.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Titolo: Tanto piovve che nacque un fungo. 
Personaggi: Blaine Anderson; Kurt Hummel; Sophie Anderson, Sebastian Smythe. Soltanto nominati: Santana Lopez, Brittany Pierce, Eve e Stephan Winchester.    
Paring: Blaine/Kurt.
Rating: Giallo/Arancione (per la scena di violenza). 
Genere: Angst; Romantico; Fluff. 
Avvertimenti: Au; Slash; Contenuti forti (Scene di violenza).  
Beta: Tanti baci a Nori!
Note: Au!Klaine. La storia è già stata scritta, quindi non dovrei avere grandi problemi nella pubblicazione; aggiornerò ogni trequattro giorni e la staria sarà composta da quattro capitoli (+ epilogo)
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Baci, Potters. 
 


Blaine fece scivolare l’hamburger ormai cotto sul piatto di ceramica, congratulandosi con se stesso per essere riuscito a cucinare anche quella sera senza provocare danni irreversibili.
“Papà! La forchetta va a destra o a sinistra?” urlò Sophie, arrampicata su una sedia ed intenta ad apparecchiare la tavola proprio come le aveva insegnato la nonna.
“…Sinistra!” rispose, sperando che la sua mente stanca avesse ricordato correttamente.
“Ecco qui!” esclamò, servendo la figlia con un mezzo inchino e facendola ridacchiare.
“Grazie mille!”
Dopo circa sette ore di iperattività, Blaine si sedette, godendosi la piacevole sensazione.
“Sei stanco, papà?” domandò la bimba, spostandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.
“Un po’.” ammise, allungandosi per tagliare la carne nel piatto della piccola.
“No!” Lo fermò “Oggi zia San me l’ ha insegnato… vuoi vedere?” chiese speranzosa, afferrando in modo goffo coltello e forchetta, chiaramente troppo grandi per le sue manine, e iniziando a dilaniare ciò che aveva davanti.
“Bravissima!” la incoraggiò il padre, poi prese a mangiare il suo hamburger.
“Ti sei divertita oggi con Santana?” disse, appuntandosi mentalmente di ringraziarla per aver badato a Sophie, nonostante l’avesse avvertita con pochissimo anticipo.
“Sì, abbiamo guardato Rapunzel! Quel cartone è bellissimo e la principessa assomiglia alla zia Brit!”spiegò entusiasta.
“E com’è andata la scuola?”
La bambina si incupì per un attimo, poi disse: “ Papà, posso chiederti una cosa?”
Come se non lo facessi dalla mattina alla sera, tesoro.
“Certo!”
“Il mio amico Andrew…” Blaine tentò di fare mente locale e collegare quel nome ad uno dei bambini che sua figlia gli aveva presentato. Faticò un po’, data l’estrema facilità con cui socializzava, ma riuscì ad inquadrarlo: Andrew, 7 anni, genitori antipatici. “Lui ha detto che tutti i bambini devono per forza avere una mamma e un papà per nascere. Ma io non ho una mamma, come sono nata?”
Blaine lasciò quasi cadere la forchetta; non che non si aspettasse quella domanda, prima o poi, ma Sophie era così piccola. Dio, non aveva neppure compiuto cinque anni! Peccato che fosse così intelligente da passare la gran parte del suo tempo con bambini più grandi.
Prese un respiro profondo e allontanò leggermente la sedia dal tavolo; in quanto genitore single non poteva declinare a nessuno quell’ ignobile compito.
“Fungo, vieni qui!” la chiamò, allargando le braccia e invitandola a sedersi sulle sue ginocchia. La bimba sorrise per il soprannome affettuoso, perché sotto sotto quel nomignolo, nonostante fosse stato scaturito dalla forma dei suoi capelli, le piaceva e obbedì.
“Allora, è un po’ complicato da spiegare… Tu non sei sempre stata qui con me. Tu sei nata in un posto molto lontano, soltanto che i tuoi genitori non potevano prendersi cura di te e quindi io sono venuto a prenderti…” spiegò, tentando di romanzare il più possibile una pratica complessa come l’adozione.
“Oh, e perché non potevano?” chiese Sophie; il moro sperò che il suo tono fosse sorpreso e non dispiaciuto.
“Io… non lo so. Non li ho conosciuti…” balbettò. I due tacquero per alcuni minuti, durante i quali la piccola assimilò la notizia e pensò a quali altre domande porre e il riccio iniziò a cadere in un baratro di terrore.
Stava rovinando tutto? Avrebbe dovuto dirle:” Te lo spiegherò quando sarai più grande.”?
“Sono nata molto lontano?” domandò, sinceramente curiosa. “Una volta Seb-Sebastian” disse, concentrandosi enormemente per pronunciare il nome francese. “Mi ha fatto vedere la Franca, si chiama così?”
“Si dice Francia.” la corresse, sorridendo sollevato dal fatto che non fosse ancora fuggita via in lacrime.
“…Su quella palla che gira… Quel coso che abbiamo nella stanza che non usiamo mai!” spiegò, alludendo chiaramente al mappamondo sistemato nella camera degli ospiti. “Fammi vedere questo posto!”
“Certo…” disse Blaine, portandola su per le scale in braccio e rimanendo in silenzio finché non si trovarono difronte alla grande sfera verde-blu.
“Noi siamo qui!” le mostrò, poggiando un dito sul quadratino nero che segnava la posizione di New York. “ E tu sei nata qui...” proseguì, ruotandolo verso destra e indicando il sud-ovest dell’arcipelago giapponese.
“Ma è lontanissimo!” esclamò divertita. “ E come siamo arrivati qui, papà?”
“Con l’areo. Un areo grandissimo!” le sorrise.
Erano appena tornati in salotto, quando Sophie disse: “Quindi tu hai fatto come Timon e Pumba con Simba?”
“Ecco, esattamente così.”
Era piuttosto certo che il suo sorriso non potesse allargarsi di più.
“Come le fatine con Aurora. O la matrigna di Raperonzolo, però tu sei buono. Ti voglio bene, papà.” finì, prima di poggiare la testolina sulla sua spalla per la stanchezza.
“Ti voglio bene anche io, funghetto.” mormorò, baciandole i capelli. “E se ti dicessi che per stasera puoi dormire con me e ti promettessi una doppia razione di coccole?”
“Ti voglio tanto bene, papà!” esultò, abbracciandolo più forte.
Un’ora dopo mentre abbracciava Sophie addormentata sotto la calda coperta del letto matrimoniale, Blaine sorrise. Sorrise perché nonostante fosse indubbiamente complicato crescere una bambina da solo, non l’aveva mai considerata un errore.
Aveva sempre desiderato dei figli e, soprattutto, non voleva averne troppo tardi. Da bambino aveva sofferto moltissimo l’esagerata differenza d’età che intercorreva tra lui e suo padre e non voleva assolutamente che i suoi figli provassero quello stesso sentimento. Così, anche quando lui e Josh avevano bruscamente rotto, dopo quasi due anni di convivenza e quattro di relazione, non aveva aspettato poi molto prima di contattare l’agenzia di adozioni. 
Ovviamente, tra il lavoro e la bambina non aveva più il tempo di far nulla, ma era certo che, seppure avesse avuto il tempo necessario per pentirsi, non l’avrebbe fatto.  
 
***  
Tre ore più tardi Blaine fu svegliato dal motivetto poco orecchiabile che per puro masochismo aveva impostato come suoneria. Guardò la radiosveglia e, quando i suoi occhi riuscirono a mettere a fuoco i numeretti sulla sveglia, rabbrividì. Erano le 4.12. Doveva essere successo qualcosa di decisamente importante e, molto probabilmente, non troppo piacevole.
Afferrò velocemente il cellulare, schizzò fuori dalla stanza per non disturbare il sonno pesante di Sophie e rispose, nonostante non riconoscesse il numero sul display.
“Pronto..?” esordì titubante e spaventato.
“S-sono Kurt.” balbettò l’uomo dall’altra parte del telefono. Blaine si pizzicò forte il braccio destro, credendo di star sognando, ma quando, nonostante il dolore, continuò a sentire il respiro affannato di Kurt attraverso il microfono si paralizzò. In parte per la sorpresa e in parte per lo spavento.
Kurt era stato il suo primo amore, il suo ragazzo del liceo, ma anche quando, durante gli anni dell’università, la vita vera li aveva separati, era rimasto il suo migliore amico. Fino a quando il giovane Hummel non aveva incontrato Jared. Jared era un uomo in carriera, qualche anno più grande di loro, che, logicamente, non aveva indugiato un attimo prima di attrarlo nella sua rete. Lo aveva sedotto, l’aveva fatto sentire importante, in un periodo in cui Kurt cominciava a pensare che il grande amore non esistesse, e, neppure un anno dopo il loro primo incontro, l’aveva convinto a seguirlo a Stoccolma. Blaine, assieme a Santana, Rachel e a tutti coloro che gli volevano bene, aveva provato in tutti i modi a farlo ragionare, a spiegargli che non valeva la pena di abbandonare il suo grande sogno newyorkese per una relazione così giovane, a pregarlo perché restasse, ricevendo in cambio soltanto una serie di frasi velenose, che ancora bruciavano sotto la sua pelle, come se fossero state iniettate, e la totale e drastica interruzione di ogni tipo di rapporto.
Forse era stata proprio la partenza di Kurt a convincerlo a firmare quei plichi e a spedirli all’agenzia, probabilmente perché si sentiva solo oppure perché non voleva permettere a nessun uomo di entrare nella sua vita in quel modo e sconvolgerla e temeva che la voglia di creare una famiglia l’avrebbe portato ad abbassare la guardia. Blaine si era fatto queste domande milioni di volte, senza mai riuscire a trovare una risposta adeguata, sapeva soltanto che Kurt non aveva smesso di mancargli, mai, neppure per un secondo. E in quel momento era lì, o meglio era ancora a Stoccolma probabilmente, ma era dall’altra parte del telefono e lo conosceva fin troppo bene per non sapere che ciò significasse che aveva disperatamente  bisogno di lui.
“Kurt?”
“Oddio… I-io mi dispiace… Non dovevo chiamare… E io- scusa. Oh, cazzo, da te sono le quattro di mattina! Io attacco immediatamente!” disse sconnessamente con la voce chiaramente rotta dal pianto. 
“Hey, stai calmo e non provare a posare quel telefono, ok?” cominciò, tentando di assumere un tono tranquillizzante.
“Respira e parlami.” continuò il moro, l’altro produsse un suono strozzato e ricominciò a singhiozzare.
“I-io solo… Ho bisogno di un-n posto a N-new York… E so che non ho il diritto di chiederti nulla, ma…”
“Puoi chiedermi tutto. Vieni qui quando vuoi.” lo interruppe, non riuscendo più a sopportare tutta la sofferenza che quella voce spezzata gli stava trasmettendo. “Solo… Puoi dirmi cos’è successo?”
“Io… Il mio aereo atterra domani alle… Undici, ora americana… Adesso devo posare. Grazie. Grazie mille…” concluse, evitando l’argomento e cambiando tono, come se stesse cercando di darsi un contegno. “Solo… Non dire a nessuno che arriverò, okay? Ti prego…”
“Tutto quello che vuoi.” affermò, perché alla fine era sempre stato così, avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarlo.
“Buonanotte, Blaine.”
“Buonviaggio, Kurt.”
 
***  
Blaine si passò nervosamente una mano tra i capelli, rivolgendo per la centesima volta lo sguardo sul monitor che annunciava gli atterraggi.
Aveva portato Sophie da sua madre, dicendole semplicemente che si sarebbe dovuto trattenere a lavoro più a lungo, e, subito dopo la fine delle lezioni, aveva guidato fino all’aeroporto, ingurgitando un cheeseburger mentre era al volante.
Dopo una notte di meditazione, trascorsa a fissare il soffitto, cullato dal respiro regolare della sua bambina, Blaine aveva realizzato che avevano fatto bene a non parlare per telefono, qualunque cosa fosse successa, avevano decisamente troppo da dirsi per poterlo fare senza guardarsi negli occhi.
Si stava chiedendo quanto fosse cambiato, come avrebbe reagito quando gli avrebbe presentato Sophie, se l’avrebbe abbracciato, cosa fosse successo, ma la figura di Kurt, accompagnata da un piccolo trolley rosso, gli apparve davanti interrompendo tutti i suoi pensieri.
“Blaine!” lo chiamò, prima di velocizzare il passo e stringergli le braccia al collo; ricambiò la stretta, senza pensarci, e non si stupì più di tanto quando una lacrima rotolò lungo la sua guancia.
“Oh, scusa… Soltanto, grazie…” mormorò Kurt, allontanandosi.
Blaine si fermò un istante a guardarlo: i capelli fuori posto, i vestiti sgualciti, gli occhi di chi ha pianto troppo, il trolley microscopico. Capì quanto stesse male e combatté l’istinto di abbracciarlo di nuovo, semplicemente per proteggerlo.
“Andiamo a casa?” chiese stanco il giovane Hummel.
In macchina parlarono poco, Blaine voleva che tutto ciò che avevano da raccontarsi venisse discusso sul divano di casa sua, con litri di tisana a diluire le centinaia di novità.
Un’ora dopo stava aprendo la porta di casa sua, sentendosi leggermente sotto esame, come quando si presenta un fidanzato ai propri genitori o gli si porta una pagella.
“E beh, questa è casa mia!” esclamò, facendo un ampio gesto con il braccio destro.
“Sembra carina…” commentò Kurt, restando poi impalato accanto alla porta come se fosse un estraneo.
“Vado a preparare una tisana… Tu fa pure come se fossi- che sto dicendo! Kurt, sono io.” disse semplicemente, sperando che l’altro cogliesse il significato di quelle parole. Quando tornò in salotto con due tazze fumanti tra le mani, trovò Kurt rannicchiato sul divano, in una posa quasi infantile.
“Grazie…” sussurrò quando il moro gli porse la tisana.
Blaine si sedette di fronte a lui e stette in silenzio per un po’, poi fece l’unica domanda che avesse davvero senso fare.
“Perché sei qui? Cos’è successo?” Non ebbe neppure il tempo di finire di pronunciare questa parole che il più grande abbassò la testa, posando la fronte sulle ginocchia, che teneva piegate contro il petto.
“Io non posso… D-davvero, non posso…Non riesco a…” Blaine non riusciva minimamente ad inquadrare quell’atteggiamento, ma decise di cambiare argomento.
“Ti va se ti racconto qualcosa sulla mia vita? Oppure sei troppo stanco?” domandò in tono fin troppo pacato, quasi come se avesse avuto paura di fargli del male semplicemente alzando la voce.
“Sì, certo.” rispose, prendendo un primo sorso. “Lavori ancora alla NYADA?”
“Sì, dal punto di vista lavorativo non è cambiato molto… E’ un'altra la novità…” si fermò scenograficamente per un attimo. “Io ho una figlia.”
“Cosa?”
“Ho una bambina, ha quasi cinque anni e si chiama Sophie.” spiegò, quando notò che Kurt si stava guardando confusamente intorno, aggiunse: “E stasera dorme da mia madre.”
“Oh. Cioè, wow.” commentò, come se avesse problemi ad assimilare quell’informazione. “A-aspetta! Quindi hai anche un compagno! I-io non voglio che tu abbia problemi con lui a causa mia, davvero…” iniziò, cercando di alzarsi. “Io posso trovare un altro pos- ”
“Non ho un compagno.”
Kurt sembrò perplesso, poi azzardò: “Una… compagna?”
“No!” rise il riccio. “Dio, ne abbiamo già parlato, tipo quindici anni fa, sono gay al cento per cento!” Anche il castano sorrise al ricordo di quella giornata.
“Sono un genitore single, giuro che non è impossibile come sembra… Certo, facile no, ma…” disse, tornando serio.
“Hai detto che ha quasi cinque anni, giusto? Quindi non era piccolissima quando è arrivata qui, no? Altrimenti io l’avrei saputo…” ragionò ad alta voce.
“No, aveva due anni e mezzo. Ma non ricorda nulla del Giappone e sapeva dire soltanto konnichiwa.
“E’ giapponese? Dev’essere bellissima!” si esaltò.
“Lo è. E, non per vantarmi, ma è anche molto intelligente. Credo che ti piacerà…” sorrise.
“Ne sono certo. Mi dispiace solo di non averla conosciuta prima…”  sospirò, abbassando gli occhi.
“Non è mai troppo tardi, no?” disse Blaine, che forse non stava più parlando soltanto di sua figlia.
“Già. Blaine, sei sicuro che per lei non sia in problema? Sai, uno sconosciuto in casa…” s’informò.
“Non ti preoccupare, le parlerò domani mattina.”
“Blaine, io so che vorresti sapere cos’è successo, ma sono molto stanco e… non ho voglia di parlarne… Possiamo andare a letto?” mormorò e il riccio non riuscì a dirgli di no. 
   
 
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