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Autore: holls    22/10/2013    10 recensioni
Un investigatore privato, solo e tormentato; il suo ex fidanzato, in coppia professionale con un tipo un po' sboccato per un lavoro lontano dalla luce del sole; il barista del Naughty Blu, custode dei drammi sentimentali dei suoi clienti; una ragazza, pianista quasi per forza, fotografa per passione; e un poliziotto un po' troppo galante, ma con una bella parlantina.
Personaggi che si incontrano, si dividono, si scontrano, si rincorrono, sullo sfondo di una caotica New York.
Ma proprio quando l'equilibrio sembra raggiunto, dopo incomprensioni, rimorsi, gelosie, silenzi colpevoli e segreti inconfessati, una serie di omicidi sopraggiungerà a sconvolgere la città: nulla di anormale, se non fosse che i delitti sembrano essere legati in qualche modo alle storie dei protagonisti.
Chi sta tentando di mettere a soqquadro le loro vite? Ma soprattutto, perché?
[Attenzione: le recensioni contengono spoiler!]
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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12. Faccia a faccia
 
 
 
11 gennaio 2005.
Aveva sognato.
Si trovava ad Hunts Point, insieme a Hank, come di consueto. Il freddo a intorpidirgli il naso, le battute stupide del suo amico, e l’attesa di qualche cliente che si fermasse. Poi, una macchina. Il solito scambio di battute, e poi la domanda, “Quanto prendi?”.
Ma, come il cliente abbassava il finestrino, si rendeva conto che lì dentro c’era Alan.
Aveva scoperto tutto.
Il tempo si era come fermato: le altre macchine non esistevano più, così come Hank e il freddo. Il suo nuovo ospite era il terrore, e si era impossessato di lui.
Voleva fuggire.
Provò a muovere una gamba, per fare un passo indietro da quella scena, ma non ci riusciva; provava allora a spostare l’altra, ma si sentiva come una scultura di pietra nata solo per la metà superiore.
Non poteva e non voleva arrendersi; provò nuovamente il desiderio di scappare, sempre più lontano, anche se non ci riusciva. Vedeva Alan davanti a sé avvicinarsi sempre più, nonostante non riuscisse mai a raggiungerlo.
Voleva scappare, ma non si muoveva; Alan si avvicinava a lui, ma non arrivava mai abbastanza vicino da toccarlo.
Lo spazio e il tempo avevano smesso di esistere, almeno nella forma canonica che aveva sempre conosciuto: la notte sembrava essere stata risucchiata dal buio, i suoni erano distorti in stridii incomprensibili. E i movimenti, anche i più banali, sembravano impossibili da compiere.
Poi, la calma. Nathan si trovava sulla strada, da solo. La notte aveva riavuto le sue stelle, le auto il loro clacson da suonare. Il terrore aveva lasciato il posto a un’innaturale tranquillità. Dentro di lui, sentiva che c’era qualcosa di brutto, nell’aria, ma la calma apparente di tutto ciò che lo circondava lo convinse a stare tranquillo.
 
Aprì gli occhi. Gli ci volle qualche secondo per realizzare che, davanti a lui, c’era lo schienale di un divano. Qualche altro secondo per capire che, su quel divano, ci era disteso.
Aveva dormito lì.
Qualcosa gli pizzicò il mento, e si rese conto che aveva, sopra di sé, una coperta di lana. Il problema è che lui non ricordava di essere andato a dormire con una coperta di lana sopra.
Fu un flash.
Improvvisamente, tutti i ricordi della sera prima gli tornarono alla mente. Si sentì mancare l’aria e un qualcosa bloccargli l’ossigeno in gola.
Si voltò istintivamente verso il resto della stanza, ma non c’era nessuno, e non gli ci volle molto a riconoscere il soggiorno della casa di Alan. Si tirò un pizzicotto su una guancia, tanto per assicurarsi che quello non fosse il proseguimento di quel sogno assurdo che stava facendo; ma, con suo sgomento, il pizzicotto gli fece male, lasciandogli una sensazione più che vivida sulla guancia.
 
Era notte fonda. E ciò lo preoccupò decisamente, visto che sapeva di non riuscire a dormire con un pensiero martellante in testa.
Ripensò alla scena della sera prima. Non era svenuto di proposito, ma era stato così grato al suo corpo per aver reagito in quel modo. Poi si ricordò di come Alan lo aveva invitato a casa e di quella battuta infelice. Gli tornò in mente quel pianto dirottato accovacciato in un angolo del bagno, forse sperando che Alan bussasse più e più volte per chiedergli come stava.
Per un momento barcollò tra il sogno e la realtà, chiedendosi se tutto quello fosse realmente accaduto. Si portò una mano alla testa e notò la benda. Almeno la caduta era stata reale.
Dopo qualche minuto, il senso di torpore lasciò la sua mente e il mondo intorno a lui acquistò maggiore credibilità.
 
Si ributtò sul divano, e cominciò a pensare. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la questione con Alan – capendo che era quello il vero motivo per cui l’aveva portato a casa sua -, ma non sapeva davvero da dove cominciare.
O forse, ciò che più temeva era uno sguardo sprezzante e disgustato. Che cosa avrebbe pensato Alan, una volta avuta la conferma di ciò che era il suo lavoro?
Sapeva che Alan, come chiunque altro, sarebbe esploso, e che l’avrebbe sommerso di cattiverie e insulti. Era condannato a quell’evento, e il sapere che sarebbe accaduto lo faceva stare ancora peggio.
 
Sentì dei passi. Si rintanò frettolosamente nella sua coperta, faccia a faccia con il divano. I passi si fecero sempre più vividi, finché Alan non arrivò in soggiorno.
Trattenne il respiro e aspettò che Alan si muovesse. Lo sentì andare in cucina, che si trovava dietro di lui, aprire il frigo e prendersi qualcosa da bere.
Il fiato cominciava a mancargli, così rilasciò l’aria a poco a poco, per poi ispirarne altra con lo stesso ritmo. Continuò a centellinare l’ossigeno finché non gli fu chiaro che Alan era tornato in camera. Era già pronto a tirare un silenzioso sospiro di sollievo, quando si accorse che la luce della camera era rimasta accesa. Tenne gli occhi aperti per una manciata di minuti, ma la luce era sempre accesa; gli fu chiaro quasi subito che Alan non aveva intenzione di tornare a dormire e che, probabilmente, si era messo a fare qualcosa.
Si trattava di scegliere il momento della sua esecuzione. Alla fine, dopo aver raccolto tutto il coraggio di cui era capace, tirò fuori una gamba dalla coperta. Pensò a lungo se tirare fuori anche l’altra o se continuare a stare rintanato, al sicuro, sotto quei quadrati rossi di lana. Dopo attimi di esitazione, spostò tutta la coperta verso il divano, scoprendo completamente il suo corpo. Si mise seduto sul divano e infilò le ciabatte su cui planarono i suoi piedi, che riconobbe poi essere quelle che usava abitualmente a casa di Alan – e che non ricordava di aver messo sotto al divano. Fece un respiro profondo. Il silenzio di quella stanza era riempito soltanto dal battito del suo cuore e da qualcosa che gli sembravano dita battute sui tasti di un computer.

Si alzò, e il cigolio prodotto dalle molle indicò chiaramente che lui si era alzato. E Alan doveva averlo capito, se stava attento ai rumori di casa.
Il ticchettio delle dita sulla tastiera cessò. In compenso, però, sentì Alan alzarsi dal letto e cominciare a camminare.
Usciva dalla camera.
Attraversava il piccolo corridoio.
Arrivava in salotto.
Lì, davanti a lui.
Nella penombra concessa dalla luce dell’alba, i loro sguardi non poterono far altro che attrarsi. Alan lo fissava, ma Nathan fu incapace di capire quale sentimento si stesse agitando nell’altro. Era un sguardo privo di qualsiasi espressione e di qualsiasi smorfia.
Nathan era profondamente irritato; avrebbe voluto dire qualcosa per spezzare quell’aria irrespirabile, ma l’impenetrabilità dei sentimenti di Alan gli impedivano di dare la giusta intonazione alla sua frase. Forse doveva solo tenersi più neutro possibile, ma non era sicuro che fosse la soluzione migliore.
Quando fu convinto di aver trovato il momento giusto – o meglio, quello meno sbagliato - , disse la prima sciocchezza che gli passò per la mente.
« Sei sveglio. »
Era sicuro che la voce gli avesse tremato, e forse non era la sola cosa; ogni attimo che passava in cui Alan stava zitto, senza muovere un muscolo del suo viso, faceva crescere in Nathan la voglia di tornare indietro nel tempo, di non accettare l’invito a rimanere, o di non alzarsi più da quel divano.
« Perché? »
Pronunciò quella domanda con un’intonazione talmente ambigua che Nathan non seppe bene cosa rispondere. Rispose quasi mangiandosi le parole.
« Niente, così, sai, pensavo dormissi. »
Alan sbuffò talmente forte che Nathan si zittì subito, capendo al volo di aver scelto la risposta sbagliata. Alan non gli stava chiedendo perché gli interessava che fosse sveglio; gli stava chiedendo il perché di un’altra cosa.
E così, quel momento era arrivato. Il momento in cui avrebbe sputato fuori tutta la sua verità. E sapeva che sarebbe stato orribile, perché avrebbe rivangato ricordi spiacevoli e la situazione sarebbe solo peggiorata. Avrebbe sofferto inutilmente; ma forse, pensò, se lo meritava.
« Voglio sapere tutto. »
Pensò che sarebbe stata un’altra frase atona, e invece caricò quel ‘tutto’ di qualcosa che somigliava a un sentimento. Sembrava che Alan stesse cercando di mantenere un certo aplomb, ma il tono di voce più basso al termine della frase tradiva ogni sua sicurezza.
Alan cominciò a trafficare con qualcosa alla sua destra, sbatacchiando continuamente un piccolo oggetto che sembrava essere di plastica; ma solo quando la luce della lampada si accese, illuminando fiocamente l’ambiente, capì che stava solo cercando l’interruttore della luce. Adesso erano davvero faccia a faccia, e non poteva più beneficiare del buio, che avrebbe potuto nascondere qualche incertezza.
Nathan buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni e si mordicchiò un labbro, mentre cercava le parole per iniziare la sua confessione.
« Avevo… »
Si interruppe. La frase era già stampata nella sua mente, ma gli sembrava così banale! E allora provò a cambiare qualche parola, il loro ordine, a cercare dei sinonimi. Cestinava alcune parti e poi le ripristinava, per poi buttarle di nuovo.
« Ti ascolto. »
Ancora una volta, Nathan non riuscì a capire: Alan non tradiva la minima emozione. Alla fine, si rese conto che era inutile la forma che cercava di dare al suo racconto; non avrebbe fatto cambiare il contenuto.
E così maledisse ogni tentativo di limare e studiare il suo discorso.
Fece nuovamente un respiro profondo, poi cominciò.
« Avevo diciotto anni. Vivevo in casa con i miei. Una famiglia felice, come tante altre. All’epoca ero fidanzato con un ragazzo, il primo che avessi mai avuto. Ovviamente, in casa nessuno sapeva niente. »
Nathan cominciò a prendere confidenza con quella chiacchierata, e si spostò nuovamente sul divano, dove si sedette. Continuò.
« Volevo molto bene ai miei genitori, e non mi andava di mentirgli ancora. Così, una sera, tornai a casa con il mio ragazzo di allora, con l’intento di presentarlo a tutti, ma trovai solo mio padre in casa. Come lo vidi, capii che non avevo abbastanza coraggio per dirgli tutto. E così decisi di rimandare. Il caso volle, però, che mio padre stesse guardando fuori dalla finestra proprio mentre stavo baciando Harvey, per salutarlo. Mio padre non era un cretino e capì tutto subito. Che avevo un fidanzato e che era un ragazzo. Ma, purtroppo… »
Si interruppe. Nella sua testa si formò un ricordo che troppo spesso aveva cercato di non richiamare e che, forse, aveva cercato di seppellire in qualche luogo recondito della mente. Suo padre che gli sbraitava contro, che lo insultava con epiteti che non riusciva a ricordare, forse a causa di una censura involontaria, e quelle cinque dita che gli lasciarono più di un segno. Quello, purtroppo, lo ricordava fin troppo bene.
« Tuo padre non l’ha presa bene. »
« No. »
Nathan si alzò e cominciò a percorrere avanti e indietro lo spazio che intercorreva tra il divano e la finestra subito dietro. Quel ricordo gli passò per la mente attimo dopo attimo, e solo quando fu finito riuscì a smettere di camminare isterico.
« Mi ha cacciato di casa. Mia madre era sempre stata troppo debole per imporsi a lui, e così non riuscì a fare niente per riportarmi indietro. Poi, legalmente, non avevo nessun obbligo di rimanere con loro. Mio padre era inattaccabile. D’altra parte, con un clima del genere, nemmeno io morivo dalla voglia di tornare. E così, presi i pochi risparmi che avevo e mi trovai una catapecchia dove stare. E mi trovai un lavoro. »
La smorfia sul viso di Alan costrinse Nathan a fare una precisazione.
« Un vero lavoro. In un ristorante. »
Nathan fece una pausa. Raccontare quella parte non era stato facile, ma almeno era una cosa che riguardava soltanto lui. Si rese conto che la parte successiva aveva a che fare anche con Alan, e si sentì improvvisamente macchiato di qualche peccato, nell’aver condotto due vite così spudoratamente. Si sedette di nuovo sul divano e proseguì.
« Andai avanti così per circa tre anni, ma vivevo di stenti; le spese erano tante e io non ce la facevo più. Non mi concedevo mai uno svago, niente. Dovevo pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Non potevo farcela. In altre parole, avevo bisogno di tanti soldi in poco tempo, almeno per respirare un po’. E così… »
Fino a quel momento si era sforzato di guardare Alan negli occhi il più possibile; ma in quell’istante la sua corazza cadde in un colpo, e abbassò lo sguardo repentinamente. Si rese conto che si vergognava: sia per ciò che stava raccontando, sia per il solo fatto di aver cercato un simile lavoro.
« Ho capito. »
Nathan cercò di scrutare i movimenti di Alan. Aveva le sopracciglia abbassate e le palpebre tese. Si aspettò che dicesse qualcos’altro, ma le labbra così serrate gli suggerirono che avrebbe voluto parlare il meno possibile.
« Non l’ho fatto volentieri. »
Alan urlò.
« Ho capito! »
Le labbra di Alan si serrarono ancora di più, fino a che non le rilassò e non parlò ancora.
« Ho capito. Non aggiungere niente. Non voglio sentire altro! »
Nathan si alzò in piedi, stringendo i pugni.
« Io invece voglio che tu sappia che la cosa mi faceva ribrezzo! »
« Stai zitto! »
Di fronte a quelle urla, Nathan si zittì davvero. Ma, passato quell’attimo di sgomento, ribatté.
« Ci pensavo a te, mi sentivo in colpa, mi faceva schifo tutto quanto! »
Alan si avvicinò a grandi passi verso di lui, sovrastandolo con la sua altezza.
« E allora perché non mi hai chiesto aiuto, quando hai potuto? Perché? »
« Non volevo certo essere il tuo mantenuto! Volevo essere indipendente, non mi sarei mai abbassato a chiederti dei soldi! E poi, per quanto? Per quanto tempo sarebbe andata avanti, la cosa? »
« Se tu avessi abitato da me, non avresti avuto bisogno di un lavoro così! Ti saresti potuto accontentare di un vero lavoro al bar o dove ti pare! »
« Non volevo venire a vivere da te solo perché non ero capace di mantenere me stesso! »
« Potevi almeno parlarmi dei tuoi problemi economici. Ma no, hai ragione, più facile così. E poi, be’, io della tua vita è meglio se non so nulla, vero? Tanto decidi tu cosa mostrarmi. »
« Non volevo essere un peso anche per te. Non volevo che anche tu fossi costretto a badare a me, a mantenermi. »
Alan scosse il capo e si allontanò, dandogli le spalle.
« Basta, non voglio più sentire le tue scuse patetiche. »
« Non sono scuse patetiche! È la verità! »
Alan stava per imboccare il piccolo corridoio che portava in camera sua, ma si fermò poco prima, rivolgendosi verso Nathan.
« Sì, hai ragione. Non sono le tue scuse a essere patetiche. Tu sei patetico. »
Alan lo fissò sprezzante per qualche istante; poi, entrò in camera sua e ci si chiuse dentro.

Era quello l’epilogo che si aspettava. Per un attimo aveva sperato che Alan fosse più bendisposto nei suoi confronti; gli atteggiamenti della sera prima lo avevano ingannato. Era stato così premuroso nel soccorrerlo, nel preoccuparsi per lui, nel mettergli una coperta perché aveva freddo. Ma era stato uno sciocco nello sperare che quelli fossero i suoi veri sentimenti riguardo a tutta la faccenda. Capì che la sera prima Alan era stato probabilmente preso alla sprovvista dall’incidente, e quindi si era concentrato solo su quello, lasciando da parte tutto il resto.
Ma le parole di Alan erano state indubbiamente taglienti.
In un attimo pensò addirittura che avesse ragione. Le sue erano scuse patetiche, e lui stesso lo era.
Una lacrima gli rigò la guancia, e fu ben presto seguita dalle molte altre che, da tempo, scalpitavano per uscire.
Da una parte, però, si sentiva un po’ in colpa, perché Alan non gli aveva posto la domanda che, forse, aspettava più di tutti. Non si trattava tanto del perché lo avesse fatto; ma del perché avesse continuato, dopo la discreta somma che aveva accumulato nel tempo.
E per questo, quasi come una catarsi, era disposto ad accettare tutte le cattive parole che Alan gli aveva e avrebbe riservato, nonostante il dolore che gli provocavano.
Pensava di meritarselo.
Sgattaiolò sul divano, porgendo un orecchio ai rumori ambientali, sperando di captare qualche segnale da Alan, ma fu tutto inutile.
Passò gran parte del tempo a rimuginare su quanto accaduto: le parole gli Alan gli rimbombavano da un lato all’altro della testa, che ben presto gli fece male. Alla fine, si accorse che stava perdendo il contatto con la realtà; le parole diventavano sempre più sfumate, a tratti incomprensibili, fino a che la scena non svanì completamente.
 
Un rumore di passi lo svegliò di soprassalto, probabilmente perché si era addormentato, ma non era ancora entrato nella fase di sonno profondo. Istintivamente si tirò su e si voltò, trovando Alan lì, in piedi, dritto davanti a lui.
La maschera sul volto dell’uomo sembrava finalmente essersi sgretolata, almeno in parte, e si vedeva che non c’era più traccia di rabbia o disprezzo.
« Scusami, Nathan. Ho esagerato. Mi dispiace. »
Nathan scosse il capo.
« Non devi scusarti. »
Avrebbe voluto continuare, spiegare le ragioni per le quali non poteva accettare quelle scuse, ma si bloccò. Ogni parola in più gli sembrava superflua. Dal canto suo, nemmeno Alan insistette.
« Ci sono ancora delle cose che vorrei chiederti. E alle quali vorrei che rispondessi sinceramente. »
Nathan sorrise, disorientato.
« Non l’ho fatto, finora? »
Alan non disse nulla.
« Vorrei che tu mi parlassi di Sánchez. »
Nathan rimase in silenzio per qualche secondo. Scrutò la situazione e cercò di capire il perché di quella domanda, con scarsi risultati.
« Che cosa ti devo raccontare? »
« Tutto. Come vi siete conosciuti e cosa… »
« Non ci siamo conosciuti! »
« Va bene. Allora vorrei sapere come c’è finito nel mio letto. »
Alan si spostò verso la serranda dietro al divano, e la tirò su, facendo entrare i raggi del sole nella stanza, illuminandola. Nathan si coprì gli occhi socchiusi, aspettando che si abituassero alla luce. L’uomo prese poi posto accanto a lui, sulla poltroncina adiacente il divano.
Ogni tanto, Nathan era convinto di veder sparire dal volto di Alan quel sentimento di comprensione, soprattutto mentre fissava vacuo il pavimento per qualche attimo, aggrottando le sopracciglia e facendo sparire quell’abbozzo di sorriso riparatore.
« Erano i primi di ottobre. »
Nathan notò che Alan aveva spostato lo sguardo verso di lui.
« Una sera, lui si è finto un cliente. E mi ha minacciato. »
Pronunciava ogni parola con insolita lentezza, quasi a voler misurare l’effetto che ciascuna di esse poteva avere su Alan. Che, fino a quel momento, non sembrava eccessivamente turbato.
« Lui ci pedinava. Sapeva tutto di noi. Di me, di te… Tutto. Mi ha minacciato dicendo che voleva… »
Si portò la mano sulla fronte, e fece scorrere le dita su di esse, quasi nascondendo il volto col palmo della mano.
« Voleva possedermi qui, in casa. Se non avessi accettato, ti avrebbe spifferato tutto. Non so se lo avrebbe fatto davvero. Sapevo solo che aveva tutti gli strumenti per farlo. »
« E quindi tu hai pensato che era meglio cedere, piuttosto che dirmi tutto. Però, sono rientrato al momento sbagliato. E sai, Nathan, più mi parli di questa storia e più sono felice di essere tornato prima, quel giorno. Riesci perfino a farmi essere quasi felice dell’unica cosa che mi ha tormentato in questi ultimi mesi. »
Nathan si sentì nuovamente gli occhi pieni di lacrime. Ma era la sua punizione, si diceva; se lo meritava. Lasciò passare qualche momento, aspettando che il nodo in gola si sciogliesse.
« Avevo paura a dirti tutto. Non volevo… questo. »
Alan si alzò e prese a gironzolare per la stanza, pensieroso.
« Quindi non avevi effettivamente nessun legame con Sánchez. Potremmo dire che era ossessionato da te. »
Nathan scaraventò via la coperta che ancora lo copriva in parte, e scattò in piedi.
« Mi stai interrogando o stiamo parlando? »
Alan non rispose. Percorse il perimetro intorno al tavolino posto davanti al divano e alla poltrona, poi si fermò davanti a Nathan.
« Vai pure a casa, se vuoi. Non ho altro da chiederti. »
Pronunciò quelle parole con una tale freddezza che sembrava davvero la fine di un interrogatorio; anzi, forse il poliziotto di turno sarebbe stato più gentile, premurandosi di non far preoccupare colui che aveva di fronte. Alan andò verso la sua camera, senza mai voltarsi.
Ma non fece in tempo a imboccare il corridoio, che qualcuno suonò alla porta. Fu solo in quel momento che Nathan buttò un’occhiata all’orologio, notando che erano già le otto.
Con un sospiro scocciato, Alan andò ad aprire alla porta; guardò dallo spioncino chi era l’ospite e si fermò con la mano sulla maniglia.
Fuori si sentiva una voce che chiedeva di aprirgli.
Sospettò di essere lui stesso il motivo per cui Alan esitava nell’aprire la porta, ma la curiosità e una leggera ripicca lo spingevano a non muoversi di un millimetro dal salotto. Se Alan avesse aperto la porta, l’ospite si sarebbe subito accorto della presenza di Nathan.
Capendo che ormai non aveva più molta scelta, Alan aprì la porta.
L’ospite, un giovane ragazzo moro, salutò Alan con un bacio sulle labbra.
Poi si voltò verso Nathan, ed entrambi abbandonarono il sorriso che avevano tenuto fino a quel momento.
« Tu! »
Nathan puntò il dito verso Jack.
« Tu sei… sei il ragazzo dell’università! Quello che mi ha parlato! »
Alan aggrottò le sopracciglia e si rivolse a Jack.
« Che è questa storia? »
« Ci siamo parlati all’università, ma è stato un caso. Non avevo idea che tu fossi… »
Nathan scoppiò in una risatina sommessa e si avvicinò agli altri due.
« No, certo, non avevi idea. Prendi il primo studente che trovi, tra migliaia, e gli parli. Così, dal nulla. Cos’è, vi eravate messi d’accordo per spiarmi? »
Alan alzò le mani e si intromise tra i due, separandoli.
« Smettetela! Jack, che storia è questa? »
« Sì, Jack, è proprio così che ti chiamavi. Che cavolo volevi da me? »
Gli tornò in mente il pomeriggio della Vigilia in cui aveva bloccato Alan prima che andasse chissà dove, in macchina con qualcuno. Pensò che probabilmente, in macchina, c’era proprio Jack. Fece due più due e capì che i due uscivano insieme, e la cosa lo infastidì. Non che fosse uscito allo scoperto per riprendersi Alan, ma aveva sperato che le sue confessioni portassero il suo ex ad avere di nuovo fiducia in lui.
Jack, comunque, sembrò non gradire il suo tono e si avvicinò a lui, sfuggendo anche alla presa di Alan che cercava di controllare la situazione.
« Tu, piuttosto, che cosa vuoi dal mio ragazzo? »
« Smettetela tutti e due, non mi pare il caso di fare una scenata, qui e ora. »
« Allora, Alan, dimmi cosa ci fa il tuo ex qui! Credi che non abbia notato la coperta? Ha dormito qui da te? Perché? »
« Senti, carino, datti una calmata! »
Improvvisamente, il buio. Poi il salotto di Alan ruotato di novanta gradi.
Il colpo fu talmente forte e improvviso che finì a terra. Solo quando vide uscire il sangue dal naso ed ebbe la bella idea di toccarsi, sentì un dolore allucinante che gli fecero realizzare del tutto il destro che Jack gli aveva appena tirato.
« Che cazzo fai? Calmati, Jack! »
« E allora dimmi cosa ci fa qui! »
« È l’indagine su Sánchez, Jack, è solo l’indagine! »
Il respiro di Jack prese a diminuire in intensità e ritmo, tornando normale poco alla volta.
« L’indagine…? »
« Sì, il maniaco! Stiamo indagando, Jack, lo sai. È solo lavoro. »
Solo lavoro.
Quelle parole furono più letali di dieci pugnalate.
Era stato solo lavoro.
Lo aveva portato a casa perché voleva interrogarlo, non perché era preoccupato; e lo aveva costretto a dire tutto non perché ci tenesse, ma perché doveva ottenere informazioni sul maniaco.
Verificare informazioni.
Si trattava solo di quello.
« Va bene. Ma chi mi dice che questo qua non stia cercando di riprenderti? »
« Jack, fidati, per favore. »
Jack spostò il suo sguardo su Nathan, che si era appena rialzato e teneva un fazzoletto sul naso, cercando in qualche modo di fermare l’emorragia che si era creata. Jack lo guardava come se fosse la nuova minaccia terrestre, un essere mostruoso che andava estinto il prima possibile; teneva le labbra strette e a tratti tremavano, come se fremesse dalla voglia di farlo a pezzi con le sue mani.
« Jack, per favore, vai fuori un momento. Il tempo di chiarire questa faccenda. »
Jack tentò di ribattere, ma Nathan lo fece prima di lui.
« Nessun problema. Me ne vado io. »
Sapeva che Alan non l’avrebbe fermato, preso com’era nel trattenere Jack.
Si chiuse la porta alle spalle, e gli sembrò quasi che anche un altro capitolo della sua vita si fosse chiuso, con quel gesto. Lui aveva fatto pace con la sua coscienza, aveva detto tutta la verità ad Alan e aveva chiuso anche con lui, che ormai si era trovato un nuovo fidanzato.
Si chiese se l’avrebbe più visto e provò un senso di malinconia.
 
Uscì dal condominio e si voltò per imprimere nella sua mente l’immagine di quella bella palazzina. La facciata rifatta da poco, i terrazzi adornati da piante dai fiori colorati e il prato curato e le siepi pareggiate che circondavano il condominio.
Il suo cellulare squillò. Si appartò poco più avanti e estrasse il telefono dalla tasca. Era il numero fisso di sua madre si preparò al peggio.
Esitò, ma rispose.
« Pronto? »
Un singhiozzo esplose dall’altra parte. E riconobbe la voce di Jimmy.
« Fratellone, vieni, ti prego! La mamma… »
Il cuore cominciò a battergli più rapidamente.
« Jimmy, che succede? Calmati! »
Ma dall’altoparlante provenivano anche altri suoni. Erano urla. E suo fratello continuava a singhiozzare.
« Va bene, non preoccuparti. Arrivo subito! »
Sentì Jimmy mugolare qualcosa, in preda al pianto. Lo rassicurò ancora, poi riattaccò.
Doveva muoversi.
 
***
 
Dopo quaranta minuti buoni, finalmente era arrivato. Sceso dalla metro, cominciò a correre verso casa di sua madre. In poco tempo fu davanti al portone, e portò il suo dito davanti al campanello.
Ma lo mandò a quel paese.
Estrasse il mazzo di chiavi dall’altra tasca, e aprì la porta.
Una ventata di urla lo freddò sulla porta, seguito poi da un rumore di porcellane che si spezzano. Avanzò a piccoli passi nel soggiorno, cercando di capire cosa stesse succedendo. I rumori provenivano chiaramente dalla cucina.
Non sapeva bene come comportarsi. Avrebbe prima dovuto cercare Jimmy? O tentare di capire cosa stesse accadendo?
Qualcuno bisbigliò poco lontano da lui.
« Fratellone…! »
Nathan si voltò e Jimmy gli corse incontro, il viso rigato dalle lacrime. Lo abbracciò forte a sé, cercando di calmare quei singhiozzi senza pace.
« Jimmy… »
Il bambino gli tappò la bocca con le sue manine.
« Ssh, ssh! Non farti sentire! »
Udì dei passi dietro di loro.
« Chi c’è? »
Sua madre era proprio lì, ritta sull’uscio della cucina, i capelli tutti spettinati e la vestaglia slacciata.
« Chi siete? »
Nathan si rivolse a Jimmy, che aveva già ripreso a piangere.
« Vai in camera, ci penso io qui. »
Aspettò che suo fratello si fosse chiuso nella sua cameretta, poi si diresse verso sua madre. La donna lo guardava sospettosa, forse domandandosi chi fosse quell’intruso nella sua casa.
Nathan gli posò le mani sulle spalle.
« Mamma, sono Nathan. Sono tuo figlio. »
« Chi sei? »
Gli si stava formando un groppo in gola. Cercando di non far tremare la voce, ripeté quanto detto poco prima.
« Sono Nathan, mamma. Mi riconosci? »
Improvvisamente, sua madre ebbe uno scatto del capo, come colpita da un’illuminazione. Nel cuore di Nathan si formò una nuvola di speranza.
« Pulizie… devo fare le pulizie. Devo spolverare. Chi sei, un domestico? »
Spezzata. Subito.
Ma almeno, gli parve, quella furia distruttiva si era placata.
« Ti aiuto a pulire, mamma. »
La donna tolse le mani di Nathan dalle sue spalle, e si diresse con sguardo smarrito verso la cucina.
Nathan tirò un sospiro di sollievo. Sempre che così si potesse chiamare.
Guardò sua madre allontanarsi verso la cucina, e fu come se quel macigno di piombo che aveva sul cuore fosse stato sostituito con uno di marmo. I suoi passi gli sembrarono ancora più goffi e lenti, il viso più smunto e scavato, la testa che ormai non c’era più. Varcando quella soglia, gli sembrò che sua madre stesse entrando in un mondo senza ritorno, un mondo pieno di mani nere e scure, avide di vitalità umana.
 
La aiutò a pulire tutti i cocci, e fu la cosa più straziante che avesse mai fatto: tra quei frammenti aveva anche riconosciuto la tazza che usava sempre da ragazzo, prima che se ne andasse di casa. Aveva intravisto anche quella di Jimmy, e gli si strinse il cuore sapendo quanto amava quella tazza; cominciava già a immaginare l’espressione rabbuiata di suo fratello, non appena lo avesse scoperto. Di contro, sua madre pareva essersi calmata del tutto:  ogni tanto farfugliava qualche frase sconnessa, ma almeno non rischiava di mettere a soqquadro l’intera casa.
Dopo che ebbero finito, le suggerì di schiacciare un pisolino e sua madre, fortunatamente, acconsentì.
 
Nathan si buttò sul divano, e sospirò. Si passò entrambe le mani sul viso, stanco e stravolto. Jimmy era rimasto in camera come gli aveva intimato, e pensò che fosse il momento buono per fare una telefonata importante. Decise di spostarsi verso l’ingresso di casa, sperando che né Jimmy né sua madre lo sentissero.
Compose il numero di suo padre e chiamò.
« Nathan, sei tu? Che succede? »
« Succede che devi venire, papà. La mamma è completamente fuori di testa e Jimmy è esasperato. »
Dall’altro capo ci fu un momento di silenzio. Poi un sospiro.
« Ho da lavorare, Nathan. Non puoi starci tu finché non torno? »
« Non me ne fotte un cazzo se devi lavorare! Jimmy è pur sempre tuo figlio, non puoi far finta che non esista! Ma non lo capisci che in questo momento è solo? L’avete fatto in due questo figlio, e ora non puoi tirarti indietro così, non puoi scaricare tutto sulle mie spalle! »
Si rese conto di aver urlato. Aveva pure il fiato grosso.
« Nathan… purtroppo il mio turno di lavoro finisce tardi, tutte le sere. Oggi guardo se posso venire, ma non credo di potermelo permettere tutti i giorni. »
Nessuno dei due disse nulla. Gli sembrò quasi che suo padre volesse dire altro, mentre lui fremeva dalla voglia di insultarlo, facendo grandi sforzi per trattenersi. Fu suo padre a continuare la conversazione.
« Sono costretto a chiederti un favore, quindi. »
Nathan esitò un attimo.
« Sentiamo. »
« Portalo da te. Lì almeno c’è pace, un ambiente tranquillo. E poi lui ti adora. »
« Da me? Ma come faccio? Ho l’università, altre cose a cui pensare… Non posso stare dietro a un bambino di nove anni! »
« Se non vuoi farlo per me, farlo per lui. Solo per un po’ di giorni, ti prego. Adesso devo andare. A presto. »
Gli riattaccò in faccia, così, senza nemmeno salutarlo.
Non che la presenza di suo fratello gli pesasse, semplicemente non sapeva nemmeno da che parte cominciare nel prendersi cura di un bambino. Anche perché, erano diversi anni che non vivevano più insieme. Ma a Jimmy voleva molto bene, ed era fortemente legato a lui. Forse uno sforzo poteva provare a farlo.
 
Riemerse dai suoi pensieri, e decise di andare a vedere come stesse suo fratello. Ma, non appena arrivò nei pressi della sua camera, vide un paio di manine sbucare dagli infissi della porta. Come si avvicinò alla porta, Jimmy ritrasse le mani e sparì nella sua cameretta.
« Ehi, campione. Per qualche giorno vieni da me, ti va? »
Jimmy si voltò, e lo guardò imbronciato per qualche secondo. Poi, scosse il capo energicamente. Continuava ad abbassare lo sguardo, come si vergognasse di qualcosa.
« Come sarebbe? Non vuoi stare con il tuo fratellone? »
« Tu non vuoi stare con me. »
« Io… cosa? » Era incredulo. « Ma che sciocchezze stai dicendo? Certo che voglio stare con te. »
Jimmy aggrottò le sopracciglia ancora di più.
« Hai detto che non vuoi prenderti cura di un bambino di nove anni. »
Suo fratello aveva ascoltato la conversazione, ne era ormai certo. Ma come poteva spiegargli perché aveva detto quella frase?
« Jimmy, non era quello che volevo dire. È… una cosa da grandi. Ma lo sai che farò di tutto per prendermi cura di te. »
« Spiegami la cosa da grandi. »
Rimase interdetto. Spiegare ai bambini le cose ‘da grandi’ era notoriamente una cosa complicata. O erano gli adulti a crederlo?
Si sedette sul letto accanto a lui, cercando un esempio adeguato.
« Allora, fammi pensare… Ecco! Ci sono. Supponiamo che preghi tanto la mamma  per comprarti un cagnolino. Si suppone che poi tu te ne prenda cura, giusto? »
Jimmy annuì.
« Ecco. Supponiamo ora che, per qualche motivo, tu non voglia più prenderti cura del tuo cagnolino e che la mamma sia costretta a farlo al posto tuo. Ma non per qualche giorno, ma per molti mesi o addirittura anni. Ti sembra giusto nei confronti della tua mamma? »
« No. »
« Esatto. Qui è la stessa cosa. Sono i tuoi genitori che hanno scelto di averti, e hanno delle responsabilità nei tuoi confronti. Io mi prendo volentieri cura di te quando ce n’è bisogno, ma nostro padre non può pensare che io prenda il suo posto, solo perché lui ‘ha da fare’; deve prendersi le sue responsabilità. Riesci a capire quello che voglio dire? »
Suo fratello assunse un’espressione pensierosa. Fissò un punto vacuo nella stanza, riflettendo su quanto aveva appena sentito. Poi trasse le sue conclusioni.
« … Quindi io sarei il cagnolino? »
Si era preparato a rispondere a qualsiasi domanda da parte di suo fratello, ma di fronte a quella rimase spiazzato. Gli strappò pure un sorriso il fatto che suo fratello si preoccupasse di essere ‘il cagnolino’.
« Ehm, sì, Jimmy, saresti il cagnolino. »
« E la mamma e il papà sono quelli che volevano il cagnolino? »
« Esattamente. »
« E tu sei quello che deve prendersene cura quando la mamma e il papà non lo vogliono più. »
Stava per rispondere ancora in modo affermativo, ma c’era qualcosa, in quella frase, che lo turbò.
« Non è che non lo vogliono più. È che… hanno altri pensieri in quel momento. Però non devono permettere che quei pensieri gli facciano trascurare il cagnolino. »
Jimmy si grattò il capo.
« Non ci capisco più nulla. Però va bene. »
« Scusa, faccio sempre esempi terribili. La cosa importante, comunque, è che starai da me per qualche giorno. E bada che lo faccio più che volentieri, per te. »
Il volto di Jimmy si aprì in un sorriso, e si buttò su di lui con le mani al collo.
« Grazie fratellone. Meno male che ci sei tu. »
Strinse forte a sé il suo fratellino, per poi scompigliargli i capelli in modo affettuoso.
« Ma con la mamma chi ci resta? »
« C’è papa, non preoccuparti. E, inoltre, verrò tutti i giorni a vedere come sta. »
« Come con il cagnolino. »
Nathan sorrise.

 

Buonasera a tutti! E così siamo giunti al Grande Chiarimento. Adesso Nathan ha sputato fuori tutte le sue verità... e Alan non l'ha presa molto bene, direi. Poi si è aggiunto anche Jack, a complicare tutto... Vi prego, non odiatelo! XD Avrà la sua occasione per riscattarsi e dimostrare com'è veramente, spero che quei capitoli arrivino presto :)
Ci vediamo il prossimo martedì con un capitolo... misterioso!
Ne approfitto anche per ringraziare di cuore tutte le persone che hanno messo la storia tra le seguite, preferite o che hanno recensito... significa molto per me, grazie! *__* È bello vedere che qualcuno apprezza il lavoro sul quale hai davvero lavorato sodo. Quindi grazie, grazie, grazie!
Adesso vi saluto davvero, a martedì :)
   
 
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