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Autore: Love Your Sin    25/10/2013    2 recensioni
Louis/Harry
Stepbrothers!AU
Conteggio: 8.9K
[Perché a Louis i ti voglio bene di Harry non bastavano più. E non gli bastavano nemmeno gli abbracci o i baci sulla guancia, o le sere passate con la testa appoggiata al petto o sulle gambe del più piccolo a guardare i loro film preferiti. Louis con Harry voleva farci l’amore in quel letto che aveva accolto i loro abbracci e le loro parole. Louis con Harry voleva passarci il resto della sua vita, voleva averlo tutto per sé. Louis le labbra di Harry le voleva sulle sue, per assaporarle e consumarle fino a quando non ne sarebbe rimasto più nulla.]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Two hearts...One love.'
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[I personaggi non mi appartengono. Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo. Stravolgimento (mica tanto) dell'orientamento sessuale – slash]

REALITY IS DIFFERENT FROM DREAMS

 
Bianco. Fuori dalla finestra il paesaggio era solo e completamente bianco. Quel bianco quasi ossessivo, a volte opprimente. Harry non avrebbe mai voluto ritrovarsi là fuori, in quel momento, immerso e circondato dal bianco, da solo. E soprattutto il bianco era monotono. Sempre il solito bianco. Quel bianco candido che ricopriva le strade nei mesi più freddi dell’inverno, il bianco della neve che scendeva lentamente dal cielo a volte un po’ cupo di dicembre, il bianco della stessa neve che ricopriva i giubbotti della gente che passava per le strette vie di Londra. E in quel momento Harry si trovava ad osservare dalla finestra della sua piccola stanza il grande cortile dell’orfanotrofio ricoperto di neve. Guardava le impronte che i piedi lasciavano al loro passaggio sul manto precedentemente immacolato, guardava il rigoroso ordine in cui passavano da quelle più profonde a quelle che si faceva quasi fatica a notare, leggermente accennate. Osservava i fiocchi depositarsi sui rami secchi e spogli degli alberi che poi ricadevano con un tonfo sommesso al suolo. Li guardava scendere dal cielo come le stelle cadenti nella notte di San. Lorenzo o come milioni di goccioline di pioggia a novembre o ancora come se fossero degli angeli, angeli con delle grandi ali bianche, che scendevano sulla Terra tutti insieme per restarci, stanchi di stare lassù. Angeli come quelli dei cartoni che Harry guardava quando ancora aveva una casa, una mamma e un papà che gli volevano bene e una sorella che alla fine, nonostante fosse fastidiosa e voleva sempre scegliere il canale su cui girare, gli piaceva. E, mentre guardava la neve, a Harry scappò una lacrima. Perché niente era più come prima. Ed era tutta colpa sua. Colpa di quel qualcosa di indefinito che quando aveva voglia iniziava a scendere dal cielo senza che nessuno glielo chiedesse. Quando era piccolo al riccio piaceva la neve, tanto. Gli piaceva uscire con Gemma, appena tornavano da scuola, per buttarsi sul manto bianco e fare l’angelo. Gli piaceva fare le battaglie a palle di neve con i suoi amici fuori dall’istituto o durante l’intervallo. O  ancora gli piaceva correre  dalla mamma, con i vestiti bagnati e pieni di neve, per chiederle una carota e una sciarpa perché al pupazzo mancava il naso e aveva freddo. Gli piaceva anche, il giorno di Natale, stare con i suoi cuginetti davanti alla finestra a guardare la neve che scendeva lentamente, come in quella palla che gli aveva regalato la nonna qualche Natale prima, vicino al fuoco scoppiettante nel caminetto che il papà e lo zio alimentavano con la legna che lui stesso aveva preso durante la gita in montagna. Eppure qualche giorno dopo Natale, la neve a Harry non piaceva più, nemmeno un po’. Aveva otto anni, niente pensieri per la testa, niente problemi, tanti amici e solo tanta tanta voglia di giocare e divertirsi, come tutti i suoi coetanei d’altronde. A quel tempo Harry diceva sempre di essere grande, non piccolo. Diceva che, cavolo, aveva otto anni! Era davvero grande ormai. Poteva benissimo andare da solo al parco per giocare con i suoi amici o tornare a casa da scuola da solo, oppure raggiungere la casa della nonna senza che qualcuno lo accompagnasse. Eppure non era ancora pronto per quello. Non era pronto per restare da solo. Non era pronto per ritrovarsi all’improvviso senza una stupida sorella che gli gironzolava sempre in mezzo ai piedi e che voleva impossessarsi del telecomando o che non voleva che entrasse nella loro camera quando c’erano le sue amiche. Non era pronto nemmeno per ritrovarsi senza una mamma che la mattina lo svegliasse con un dolce bacio sulla fronte e che poi gli preparasse il latte con tanto miele, come piaceva a lui; senza una mamma che la sera, prima di andare a dormire, gli rimboccasse le coperte e gli augurasse sogni d’oro. E non era pronto nemmeno per ritrovarsi senza un papà a cui, nonostante passasse la maggior parte della giornata al lavoro, voleva bene, tanto. Un papà che alla fine, quando non lavorava, nei weekend prendeva la sua famiglia e la portava al bungalow in montagna. Era successo poco dopo Natale. I suoi genitori e sua sorella lo stavano andando a prendere dal suo amico Zayn, da cui era andato a giocare approfittando dei giorni di vacanza prima dell’inizio della scuola.
Era ancora a casa di Zayn, nonostante i suoi genitori sarebbero dovuti arrivare già da un bel po’. Ma di questo non si preoccupava più di tanto il piccolo Harry, anzi “Meglio no? Così possiamo giocare di più, non credi Zaynie?” si era ritrovato a chiedere al suo migliore amico, quando questo aveva ribadito per l’ennesima volta di quanto i suoi genitori fossero in ritardo. “Sì! Hai ragione Harry! Forza che ne dici di una partita alla wii?”. “Mario Kart?” chiese allora il riccio, con una nota di speranza nella voce. “Tanto ti straccio, Curly!”. E così avevano iniziato a giocare, perdendo la cognizione del tempo, fino a quando Trisha, la mamma di Zayn, non era entrata in camera velocemente, sbattendo la porta e con il respiro leggermente affannato, gli occhi rossi e gonfi ancora pieni di lacrime trattenute a stento. “Mamma! Che è successo? Perché piangi?” aveva iniziato il moro, correndo incontro alla madre che l’aveva stretto in un abbraccio. “Senti amore, ora devo parlare un attimo con Harry. Perché non scendi in cucina a preparare qualcosa per la merenda così poi noi ti raggiungiamo?” rispose la donna con la voce leggermente incrinata a causa del pianto. E Zayn obbedì, perché conosceva sua mamma e anche i genitori di Harry. Non avrebbero mai lasciato il figlio un minuto in più in giro senza prima avvisare. Zayn aveva capito. Aveva capito che era successo qualcosa e che sua mamma sapeva. Ma ora era il suo amico a dover sapere. “Senti Harry, tesoro, perché non ti siedi un attimo qui vicino a me?” chiese la donna al riccio, che si era quindi avvicinato e successivamente seduto sul letto del suo migliore amico. “Che è successo Trisha?” aveva poi chiesto. “Harry. Ecco vedi i tuoi genitori hanno…hanno avuto un incidente” rispose balbettando, per poi scoppiare a piangere, liberando le lacrime che aveva trattenuto fino ad allora. E Harry in quel momento capì. Il loro ritardo, il fatto che non avessero avvisato. E quando guardò Trisha per sapere di più, questa scosse il capo in segno di disapprovazione. No, non ce l’avevano fatta. E Harry ora era rimasto solo.
 
 
E ora eccolo lì, dopo quasi otto anni dalla morte dei suoi genitori, in quello stesso orfanotrofio che lo aveva accolto quando nessuno si era offerto di prenderlo in affidamento. E Harry era un quindicenne pieno di risentimento. Perché sapeva di essere la causa della morte dei suoi genitori, ma non ci voleva credere. Era per questo che incolpava la neve. Quella stupida sostanza fredda e bagnata. Era tutta colpa della neve. Ma il riccio sapeva o meglio credeva che non era così, però doveva cercare di auto convincersene. Dal giorno dell’accaduto Harry  non aveva più parlato con nessuno, se non con un ragazzo. Biondo, occhi chiari, un anno più grande di lui, un marcato accento irlandese, simpatico. Si chiamava Niall e in quello stupido, noioso e orribile posto era l’unico a capirlo. Anche lui aveva perso i suoi genitori, l’aereo si era schiantato. ‘Dovevo morire anche io con loro. Ora la mia vita non ha più senso.’ Lo diceva sempre. E Harry lo capiva. Perché anche la sua di vita ora non aveva più un senso. I suoi genitori non dovevano morire. Sua sorella non doveva morire. E se questo era successo, nonostante si ostinasse ad incolpare la neve che in quei giorni ricopriva le strade, era colpa sua. Colpa sua e della sua stupida testardaggine, colpa del fatto che con un paio di occhi dolci e un battito di ciglia riusciva ad abbindolare chiunque. E quella volta era successo con i suoi genitori, li aveva convinti a mandarlo da Zayn anche se avevano altri programmi per la giornata.
Zayn. Chissà che fine ha fatto… Non l’aveva più rivisto da quando era stato portato in quell’insulso posto. All’inizio gli era mancato, tanto. Gli mancava il suo migliore amico, le partite a Mario Kart in cui alla fine lui perdeva sempre perché Zayn era il migliore, le partitelle a calcio nel parchetto dietro la scuola, le sere che restava a dormire da lui e si addormentavano sul divano mentre guardavano i loro film preferiti, i pomeriggi in cui si trovavano a casa di uno o dell’altro per fare i compiti in cui finivano irrimediabilmente con un joystick in mano e un panino con la nutella in bocca. 
 
Ma tutto questo ormai faceva parte del passato, erano solo ricordi, ricordi belli che con il tempo Harry si era imposto di rimuovere, perché l’unica cosa che poteva permettersi di ricordare era la sua famiglia. La voce calda e accogliente di sua mamma, le urla strozzate di sua sorella e la voce possente del padre che salutava tutti quando tornava a casa dal lavoro e si rifugiava subito nel suo piccolo ufficio. I loro visi, i lineamenti sottili e sinuosi delle donne di famiglia, gli occhi scuri della madre e quelli verdi di sua sorella, l’accenno di barba sul mento che suo padre tanto odiava, la bocca sottile di Gemma. Eppure piano piano, giorno dopo giorno, anche questi particolari che Harry si era intimato di conservare stavano man mano sparendo. E il riccio, anche se era consapevole che prima  o poi sarebbe successo, si sentiva in colpa. Così come si sentiva in colpa ogni volta che Marta, la direttrice, lo avvisava che una famiglia sarebbe andato a conoscerlo quel giorno. Per Harry questa cosa non esisteva. Non voleva un’altra famiglia, non meritava un’altra famiglia. Avrebbe procurato solo guai, problemi, angoscia e tristezza. E inoltre, nessuna famiglia avrebbe mai  e poi mai potuto rimpiazzare la sua. Harry non voleva ricominciare a vivere, non senza i suoi genitori e sua sorella, non voleva tradire la sua vera famiglia. E per questo ogni volta si comportava sempre peggio, urlava, diceva brutte parole, trattava male le figlie delle coppie. E tutte alla fine se ne andavano. E Harry di questo ne era felice.
 
E anche quel giorno di metà dicembre il ragazzo si era imposto di fare la solita cosa. “È una famiglia per bene Harry, hanno un figlio più grande di te di qualche anno, diventerete ottimi amici. Ti prego tesoro, fallo per me, per te, comportati correttamente. Almeno questa volta. Ti troverai bene con loro e ti prometto che se così non fosse potrai tornare qui.” E forse erano state quelle parole di Marta a convincerlo a comportarsi diversamente quella volta. Per questo in quel momento era davanti alla finestra della sua stanza, ad osservare la neve, aspettando che una macchina voltasse nella stradina solitaria che portava all’orfanotrofio per poi fermarsi rumorosamente nel cortile. Ed era quasi in ansia, perché sapeva che se avesse fatto bella figura, quella sarebbe stata la volta buona. Avrebbe preparato il suo borsone e se ne sarebbe andato da quella che, fondamentalmente, era diventata la sua casa.  Ed eccola. Una Range Rover grigia, finestrini scuri da cui però riusciva a percepire la presenza di tre persone. Qualcuno bussava alla porta e Harry nemmeno se ne era accorto. “Harry, sono arrivati. Forza vieni.” Era Marta. Il riccio sapeva che erano arrivati, ma nonostante questo e i più richiami della donna, non si era ancora schiodato dal punto in cui aveva fissato i piedi. La verità era che aveva paura. Ed era talmente orgoglioso da non ammetterlo. “Harry, ti prego! Ce la farai, andrà tutto bene” disse la direttrice, prendendo il ragazzo e spingendolo fuori dalla porta. Ed eccoli. In fondo alle scale di marmo lucido che Maria, l’aiutante, aveva pulito quella mattina stessa quando ancora tutti i ragazzi dormivano. Una donna abbastanza alta, capelli lunghi, castani e labbra carnose. Aveva un gonna grigia che arrivava al ginocchio e un golfino di lana, il collo avvolto da una sciarpa rigorosamente nera. Era tenuta per il fianco da un uomo alto, in giacca e cravatta. Suo marito. E poi, leggermente nascosto dalla coppia, un ragazzo. I capelli castani nascosti dal berretto azzurro, alcune ciocche che ricadevano sul viso coprendo leggermente gli occhi, il cui colore Harry non riusciva a distinguere da quella distanza, la bocca nascosta da una sciarpa rossa, un giubbotto scuro sotto il quale si intravedevano una maglia bianca a righe blu e delle bretelle, pantaloni rossi, con un leggero risvolto sul fondo che lasciava intravedere le caviglie fini e, infine, lo sguardo puntato a terra. In quel luogo quasi lugubre quel ragazzo si distingueva perfettamente. Appena Harry arrivò davanti alla famiglia, alzò lo sguardo e il riccio si perse in quegli occhi, in quel blu mare, in quell’oceano senza fine, mentre il ragazzo accennò un leggero sorriso, che fece subito arrossire il più piccolo. “Ciao Harry, io sono Johannah, ma mi puoi chiamare Jay. Lui è mio marito Mark, mentre lui è nostro figlio, Louis” disse la donna, sorridendo al riccio, seguita dal marito. Louis invece alzò la mano a mo di saluto per poi riportarla immediatamente nelle tasche del giubbotto. E Harry si ritrovò a pensare che alla fine non sembrava poi così male come famiglia. E inoltre, quel ragazzo aveva un non sapeva che cosa di affascinante. Forse si sarebbe davvero trovato bene con loro, forse sarebbe riuscito a tornare a parlare con gli altri, forse avrebbe legato con Louis, si sarebbe fatto nuovi amici. Forse. Ed era proprio quel forse che spaventava Harry. Il non avere la consapevolezza di quello che sarebbe successo se avesse lasciato quelle quattro mura in cui si sentiva al sicuro, protetto da tutto e tutti. Aveva passato così il resto della giornata, perso nelle sue riflessioni, nei suoi pensieri, nei suoi dubbi, nei suoi forse e nei suoi ma, mentre Jay gli offriva un gelato e gli raccontava della loro vita, della scuola che avrebbe frequentato, la stessa di Louis. Quel Louis che in quel momento lo guardava, lo fissava, anche un po’ scettico. Guardava i suoi occhi verdi che avrebbero potuto illuminare il mondo intero se solo fossero stati anche solo un po’ felici. Guardava le sue labbra carnose sempre sigillate che a volte si schiudevano per prendere aria. Guardava i suoi ricci ribelli che venivano scompigliati dal vento freddo di dicembre. Guardava i leggeri sorrisi che a volte accennava a sua madre in risposta al suo infinito monologo, come per dire che sì, la stava ascoltando. Guardava i suoi piedi scalciare i sassolini della ghiaia della stradina del parco. Guardava il suo sguardo perso, spaventato e nostalgico, ma al tempo stesso anche un po’ attento. E nel frattempo, mentre lo guardava come con nessuno prima d’ora, si ritrovava a pensare che era veramente bello. Ma era un ostacolo, non poteva vivere con loro. Sarebbe diventato il centro, l’universo per i suoi genitori, per i suoi parenti, gli avrebbe rubato gli amici. Era assolutamente una cosa da evitare. Eppure ora si ritrovavano di nuovo in quell’orfanotrofio, seduti su delle poltrone ormai consumate, dal tempo e dalle persone, in una stanza abbastanza grande, molto accogliente, mentre Harry saliva al secondo piano per prepararsi.
 
Il borsone si trovava ancora sotto al grande armadio a parete della stanza che Harry condivideva con Niall. Quando lo prese una nuvola di polvere si levò nell’aria, facendo tossicchiare leggermente il riccio, che istintivamente portò una mano alla bocca e corse ad aprire leggermente la finestra, nonostante la temperatura là fuori fosse alla lunga al di sotto dello zero e si gelasse. Riprendere in mano quel borsone era come far tornare a galla tutti i ricordi di quegli anni. Il giorno in cui l’aveva preso per la prima volta, quando aveva otto anni, per riempirlo di piccole maglie con stampe della Disney. Quando era arrivato in quel luogo, la sua nuova camera, il momento in cui si era ritrovato a disfarlo e a riporre i vestiti nell’armadio mentre un bambino biondo con uno strano accento continuava a parlare e non taceva un attimo. E tutti i momenti vissuti fino ad allora in quel posto passarono davanti agli occhi di Harry in un nanosecondo. Quando si girò per tornare all’armadio e prendere gli ultimi vestiti lo vide, vide l’unico amico che aveva avuto in quegli otto anni, l’unica persona che alla fine gli era stata veramente vicina, appoggiato malamente allo stipite leggermente scrostato della porta grigia, le braccia incrociate al petto e un espressione triste in volto. “Vuoi una mano?” chiese poi, avvicinandosi leggermente al piccolo riccio, che ormai tanto piccolo non era più. “No grazie, ho quasi finito” rispose il ragazzo accennando un sorriso. Un sorriso ricambiato. Un sorriso pieno di malinconia, di tristezza, di nostalgia, di parole che i due non avevano il coraggio di dirsi, di mi mancherai e di ti voglio bene, di ricordi, di loro, di Niall e Harry. Di due ragazzi che infondo si amavano come nessun altro. Un amore strano il loro, quello di due amici speciali, che alla fine va ben oltre l’amicizia. Quell’amore fatto non di baci, ma di abbracci e sguardi d’intesa. Perché i due avevano legato così tanto in quegli anni che ora si ritrovavano a capirsi anche solo con uno sguardo. E poi non ci fu più spazio per le parole, ma solo per un abbraccio che sembrò non finire più, un abbraccio che raccolse le lacrime del biondo e le parole di rassicurazione del riccio. Ci rivedremo, ti verrò a trovare, uscirai anche tu da qui, un giorno andremo insieme a mangiare un gelato, resterai a dormire da me e chiacchiereremo tutta la notte, come facciamo sempre. Parole infondate, a cui nessuno dei due credeva veramente. “Ti voglio bene Nialler, ricordatelo” disse infine il più piccolo iniziando a scendere le scale. “Te ne voglio anche io Harry, te ne voglio anche io” rispose l’amico con desolazione. Stavano perdendo il loro unico amico e così sarebbero rimasti soli. Soli come prima di trovarsi. Non avrebbero avuto più nessuno. Mentre stava per aprire la porta il biondo lo fermò, stringendolo per un polso: doveva salutarlo per l’ultima volta, ma la verità era che non aveva il coraggio di dire quella piccola parolina, quelle cinque lettere, quelle che portano sempre e solo lacrime, quelle che segnano la fine, ma al tempo stesso un nuovo inizio, quelle che hanno con sé dei rimorsi e quelle che, alla fine, ogni persona nel corso della sua lunga ma breve esistenza si ritroverà a dire almeno una volta. Addio. Ma Niall no. Lui non aveva il coraggio di metterle insieme quelle cinque lettere. Significava prendere consapevolezza del fatto che, d’ora in poi, il suo migliore amico non sarebbe più stato lì con lui, che la notte avrebbe dovuto dormire nel silenzio totale, al quale ormai non era più abituato.
Poi il riccio uscì. Uscì per non rientrare più, per lasciarsi alle spalle tutti quegli anni, il passato, ogni cosa, i ricordi. Uscì trovando il coraggio di andare avanti. Uscì per ricominciare a vivere, per farsi una nuova vita, con una nuova famiglia e dei nuovi amici. Uscì mentre il suo migliore e praticamente unico amico era sulla soglia dell’istituto con gli occhi azzurri gonfi e ancora pieni di lacrime. Uscì sotto lo sguardo attento del suo nuovo fratellone e quello apprensivo di Jay e Mark, con un borsone molto pesante. Uscì per poi girarsi e dire addio a quella che era stata la sua casa. Uscì per non tornare mai più.
 
Il viaggio in macchina sembrò durare un’ eternità. Non aveva parlato nessuno, anzi era calato un vero e proprio silenzio imbarazzante. Louis era seduto accanto a Harry, con le cuffie nelle orecchie e lo sguardo perso davanti a sé. Mark guidava e aveva gli occhi perennemente puntati sulla strada. Jay stava leggendo una rivista che aveva trovato in uno dei tanti sportelli della macchina. Harry invece era rivoltò verso il finestrino, a guardare la strada scorrere velocemente al loro passo, perso, come sempre in quelle ultime ore, nei suoi pensieri. Ti troverai bene Harry…è una famiglia per bene…diventerete ottimi amici… Le parole di Marta gli rimbombavano nella testa e sperava veramente tanto che quella fosse la verità.  Quando arrivarono lo sguardo di Harry si posò su una villa enorme, con un giardino che era circa cento volte quello della sua vecchia casa. Si sarebbe sicuramente perso.
Quando scesero Jay accompagnò il ragazzo fino all’entrata, per poi aprire e dare luce ad un corridoio grande quanto la sua stanza all’orfanotrofio. I muri erano ricoperti di quadri, un grande attaccapanni in legno si trovava proprio di fianco alla porta e più avanti c’era un grande mobile sovrastato da uno specchio che, a giudicare dalla ‘cornice’, doveva essere abbastanza antico. “Appoggia pure qui il tuo giubbotto, caro” gli disse la donna rivolgendogli un sorriso. “Vuoi mangiare qualcosa?” L’unica cosa che Harry in quel momento voleva fare era appoggiare la testa su un cuscino, chiudere gli occhi e mettere a tacere tutte quelle voci che urlavano nella sua testa. “A dir la verità sarei un po’ stanco”, rispose infatti. “Oh certo, Lou perché non accompagni Harry nella sua stanza?” continuò Jay. “Certo, vieni” gli rispose accennando un sorriso. Harry, dopo avere naturalmente ricambiato, prese il suo borsone e seguì il ragazzo su per le scale. Camminarono in un lungo corridoio e alla fine Louis aprì una porta bianca sulla destra.”Eccoci. Se hai bisogno di qualcosa la mia stanza è questa davanti” disse, indicando la porta davanti per poi continuare “Beh, io vado ora” concluse, sorridendo e voltandosi quando “Louis..” disse Harry, con un filo di voce. Il ragazzo si girò per “Dimmi” sospirare. “Grazie” finì il riccio con un enorme sorriso in volto. Il liscio ricambiò e entrò nella camera davanti.
 
Louis aveva riflettuto molto durante il viaggio dall’orfanotrofio a casa ed era arrivato alla conclusione che alla fine Harry non avrebbe portato casini. Era un ragazzino così innocente, aveva perso la sua famiglia quando era piccolo, era rimasto da solo per otto anni. E lui lo avrebbe aiutato a ricominciare, ad ambientarsi, sarebbero diventati amici, gli avrebbe fatto conoscere gente nuova. Semplicemente perché quel ragazzo se lo meritava. Aveva capito quanto soffrisse anche solo osservando i suoi occhi spenti, tristi. E gli occhi di un ragazzo di sedici anni dovevano essere l’esatto contrario.
 
Harry si buttò malamente sul letto a una piazza e mezza e iniziò ad osservarsi intorno. Le pareti erano di un azzurrino pallido, la porta finestra che dava su un piccolo balconcino aveva delle tende blu trasparenti. In fondo alla stanza, dalla parte opposta a quella del letto e del grande armadio, c’era una scrivania, di fianco a questa una libreria ancora da riempire e delle mensole. Vicino al letto un comodino con un abatjour del medesimo colore delle tende. Era molto accogliente e spaziosa. Non somigliava per niente alla sua vecchia cameretta, quella che condivideva con sua sorella, con le pareti arancioni, un letto a castello, i muri ricoperti di poster di principesse e supereroi, i giocattoli sparsi sul pavimento, i vestiti riposti malamente sulla piccola scrivania. Gli mancava la sua camera. E proprio ripensando a questa si addormentò, cullato da migliaia di ricordi.
Quando si svegliò, uno spiraglio di luce filtrava dalle tende leggermente scostate. Harry aprì gli occhi, ancora pesanti per il sonno, sbadigliando. Qualcuno bussò alla porta, nell’esatto momento in cui il riccio si sporgeva per controllare l’ora. Le 10:15. “Avanti” disse con la solita voce roca, tipica di un qualsiasi essere umano appena sveglio. “Buongiorno dormiglione!” esclamò Louis, entrando nella stanza e portando con sé quell’allegria che non gli aveva di certo visto il giorno precedente. “Buongiorno anche a te, Louis” rispose il riccio sorridendo al ‘fratello’. “Allora, che si fa oggi?” Possibile che pensava già a cosa fare nel pomeriggio? “Volevo sistemare le mie cose” rispose con una nota di desolazione. “Oh, allora ti aiuto, va bene?”. Dov’era finito il Louis che aveva conosciuto ieri? Quello che faceva quasi fatica a sorridergli e che lo guardava con astio? “Certo, grazie mille” esclamò il più piccolo. Così trascorsero la mattinata a sistemare le cose di Harry, tra mille risate e commenti stupidi, tra ‘questa maglietta me la dovresti prestare a volte’ e ‘questi sono veramente terribili, mi chiedo come facciano a metterli in vendita’. Dopo ben mezz’ora passata tra armadi, mensole e valigie, Louis si buttò sul letto, provocando un tonfo sordo che lo fece sbuffare rumorosamente. “Sono sfinito – iniziò, chiudendo gli occhi – Quante cose ti sei portato Harreh?” continuò poi, sollevando leggermente il busto per poter guardare il più piccolo. “Louis, ti ricordo che qui ci devo vivere, non passare una settimana in vacanza!” rispose questo, scoppiando in una fragorosa risata, in cui si poteva perfettamente distinguere una nota di tristezza e nostalgia, che subito contagiò il maggiore.”Non hai tutti i torti” acconsentì alla fine, asciugando gli occhi dalle piccole lacrime formatesi negli angoli.”Che ne dice di un bel film?” chiese poi, osservandosi intorno. “Mangiamo anche i popcorn?” chiese Harry, neanche fosse un bambino di cinque anni all’assidua ricerca di patatine. ‘Oh, il bimbo vuole i popcorn! Non è che per caso adesso mi costringi a guardare Bambi?” gli fece il verso il maggiore, scoppiando a ridergli in faccia. “Idiota” rispose il più piccolo, con un’espressione corrucciata e dando una leggera spintarella al ragazzo. “Hei, che è tutta questa confidenza?” chiese Louis. “Oh, scusa” balbettò il riccio, abbassando lo sguardo e, contemporaneamente, anche il tono di voce in leggero imbarazzo, pentendosi immediatamente del gesto. “Harry…stavo scherzando, non ti preoccupare. Forza andiamo, che film vuoi vedere? Horror, fantascienza..?” domandò quello, avvicinandosi all’altro e trascinandolo giù dalle scale per un braccio. ”Non so, scegli tu” rispose una volta arrivati in salotto, di fronte all’enorme mensola piena zeppa di DVD di qualsiasi genere.
 
Harry sorrise ripensando al pomeriggio passato con il nuovo fratello. Non c’è nulla di cui ridere Harry. Hai fatto la figura dell’idiota. Già, alla fine Louis aveva deciso di guardare uno degli ultimi film horror usciti nelle sale cinematografiche e Harry aveva passato tutto il tempo nascondendo il viso sotto un cuscino o sul petto del maggiore, chiudendo gli occhi e tappando le orecchie. Gli sarà sembrato una femminuccia. Iniziamo bene, ora Louis ha già un pretesto per passare il resto della sua vita a prendermi in giro. La checca che si spaventa per uno stupido film horror. Ma Harry sapeva benissimo di non essere una checca, come lui stesso si era definito. A lui piacevano le ragazze. O almeno, questo era quello che credeva. Nel corso della sua fanciullezza aveva avuto molti amici, ma erano per lo più maschi. Il ragazzo aveva sempre trovato che le femmine fossero stupide e noiose, sempre a parlare di quanto l’ultimo modello di Barbie con l’abito da sposa fosse bello o di come il nuovo vestitino che avevano comprato al Cicciobello gli stesse bene. Che poi Harry non aveva mai capito. Come fa a star bene un vestito ad una bambola? Mah…. Almeno aveva imparato una cosa: mai chiedere queste cose alle bambine se non si vuole finire rincorsi per tutto l’intervallo da delle femminucce che urlano con la loro vocetta stridula. Poi quando era cresciuto, in orfanotrofio, aveva conosciuto alcune ragazze della sua età, se non più piccole, ma non ci aveva mai parlato. Passavano il loro tempo a discutere degli attori e dei cantanti in voga in quel momento. Okay, forse non ne era pienamente convinto. Sappiamo benissimo che l’unica persona con cui Harry parlava in orfanotrofio era Niall. Già, il suo amico Niall. Quella notte Harry si addormentò pensando al suo migliore amico. Era passato solo un giorno, ma già gli mancava incredibilmente. Il suo sorriso dolce, i suoi occhi azzurri che gli infondevano sicurezza e che risplendevano anche nel bel mezzo della notte, il suo strano accento irlandese che lo accompagnava in ogni loro dialogo, le sue braccia che lo stringevano per poterci stare in un unico letto, le sue labbra che si posavano lievemente sulle tempie per il bacio della buonanotte. E ora Harry non aveva più nessuno con cui chiacchierare durante le lunghe notti che, già sapeva, avrebbe passato in bianco. Non aveva più nessuno che gli desse la buonanotte e che lo facesse sentire protetto anche con un solo sguardo. Dire che quella notte Harry dormì è proprio un’esagerazione. Non si sa se per il film horror che ancora ricompariva nella sua mente o se per la mancanza di Niall affianco a lui, ma quella notte rimase sveglio, o meglio in uno stato di dormiveglia, osservando il soffitto azzurro sopra di lui, liberando la mente da ogni suo pensiero.
 
Louis invece si era già addormentato, aggrovigliato tra il pesante piumone che lo riscaldava nelle notti gelide di dicembre. Aveva passato un pomeriggio stupendo. Alla fine si era veramente sbagliato riguardo al suo nuovo fratellino. È proprio vero che non bisogna dar conto ai pregiudizi. Harry era stato così dolce. A dir la verità non aveva immaginato che potesse aver paura dei film horror, ma ne era valsa la pena alla fine. Sentiva che con quel ragazzo avrebbe instaurato un legame forte in poco tempo.
 
Erano le 4:15 quando Harry decise di alzarsi e scendere in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. C’era solo un piccolo problema. Harry odiava camminare per stanza buie, ma se avesse accesso la luce c’era il rischio di svegliare qualcuno. Beh, sempre meglio questo piuttosto che morire ucciso da un assassino nascosto nel buio, no? E così ora era intento a scendere la lunga rampa di scale che portava al corridoio, con le luci di metà casa accese, attento a non fare il minimo rumore. Arrivato all’ultimo gradino iniziò a domandarsi da che parte fosse la cucina. Quella villa era talmente grande! A dir la verità non se lo ricordava proprio e quindi iniziò a gironzolare in giro, sbirciando di tanto in tanto in qualche porta per riuscire finalmente a trovare la stanza giusta. Una volta aver bevuto tornò in camera. Aveva spento le luci per evitare di creare scompiglio nel bel mezzo della notte. Ecco, forse era meglio se non le spegneva. Stava camminando a tentoni, appoggiando le mani qua e là per trovare la strada giusta, quando finì addosso a qualcosa, o forse è meglio dire qualcuno? La figura accesa la luce e Harry si ritrovò davanti un Louis alquanto stralunato, le palpebre ancora chiuse per il sonno, la bocca aperta in uno sbadiglio, le mani a stropicciare leggermente gli occhi. “Harry, si può sapere cosa stai facendo in giro a quest’ora?” domandò il più grande, cercando di assumere un’aria composta. ‘Scusa, sono andato a bere..’ rispose in un bisbiglio il riccio, abbassando lo sguardo intimidito. E nonostante il sonno e gli occhi che quasi si chiudevano in automatico il liscio sorrise. Quella situazione gli ricordava tanto quella del pomeriggio. Era mai possibile che il più piccolo si sentisse così in soggezione quando stava con lui? “Tranquillo Harry – iniziò Louis, che venne però subito interrotto da uno sbadiglio poco silenzioso – ma ora torno a letto, sono le 4:30 del mattino” finì, per poi avviarsi verso la sua stanza senza nemmeno dare il tempo al riccio di rispondere. “Sì, certo.” Una risposta flebile data al vuoto, che Louis aveva lasciato in quel corridoio.
 
Harry pensò che qualcuno lassù dovesse volergli proprio male. Era più forte di lui, non riusciva a prendere sonno. Alla fine decise di accendere il piccolo stereo che aveva sistemato sulla scrivania. Le note di ‘Dream On’ degli Aerosmith risuonarono leggermente nella stanza.
 
Every time that I look in the mirror
all these lines on my face getting clearer
the past is gone
it went by like dusk to dawn
isn't that the way
everybody's got their dues in life to pay

Fuori dalla finestra il tempo era sereno, c’era solo qualche nuvola che intervallava il manto uniforme e un leggero venticello che si alzava di tanto in tanto. Il ragazzo uscì, appoggiandosi alla ringhiera del balconcino. Nonostante il freddo pungente e il vento fastidioso che gli scompigliava i capelli, Harry si trovava bene lì fuori, da solo, con la sua canzone preferita in sottofondo.
 
Yeah, I know nobody knows
where it comes and where it goes
I know it's everybody's sin
you got to lose to know how to win

 
Già, in sottofondo, ma comunque abbastanza alta per essere sentita da un Louis che si alzò sbuffando scocciato dal letto, facendo volare le coperte sul pavimento. “Non è possibile” sbottò tra sé e sé, mentre attraversava velocemente il corridoio e spalancava violentemente la porta della stanza del più piccolo. Il letto era vuoto, quasi intatto, se non per qualche leggera piega e stropicciatura. Lo stereo che lui stesso aveva appoggiato sulla scrivania quel pomeriggio era acceso e rilasciava le note di una canzone di un gruppo molto famoso di cui però il ragazzo, in quel momento, non ricordava il nome.
 
Half my life's in books' written pages
live and learn from fools and from sages
you know it's true
all the things come back to you

Una folata di vento gelido lo ridestò dai suoi pensieri, portandolo a volgere lo sguardo verso la finestra. Era aperta e una figura poco nitida si riusciva ad intravedere nel buio. Harry. “Hei…” disse al riccio, uscendo all’aria fredda della notte e avvicinandosi. “Hei…” rispose quello, con un cenno del capo. “Che ci fai sveglio a quest’ora, Harry?” chiese Louis arrivando dritto al punto, sperando di tornare il prima possibile nel suo caldo lettuccio. “Non riesco a dormire” rispose Harry, con un accenno di ovvietà nel tono. “Uh..come mai?” continuò il maggiore, senza però ricevere risposta.
 
Sing with me, sing for the years
sing for the laughter and sing for the tears
sing with me, if it's just for today
maybe tomorrow the good Lord will take you away

Aveva smesso di nevicare ormai, ma la neve era ancora attaccata al terreno, rendendo il panorama del tutto bianco. Quel bianco che Harry odiava tanto. E come quel giorno, in cui si era ritrovato davanti alla finestra dell’orfanotrofio ad osservare la neve che scendeva candida, anche quella sera al riccio, osservando la neve, scappò una lacrima.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on 

Una lacrima che non sfuggì di certo al più grande che “Hei, che succede Harry?”. Un’altra domanda senza risposta, un’altra domanda che lasciava intendere tutto e niente. Minuti di silenzio. Silenzio opprimente, come il bianco che circondava i due. Silenzio agghiacciante,  teso, tagliente. Un silenzio che si poteva squarciare con la lama di un coltello. Silenzio fastidioso, nostalgico, rumoroso, in cui vorticavano senza fine i pensieri dei due.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on 

I pensieri di un Harry che in quel momento voleva solo essere nella sua camera di orfanotrofio, nel suo letto, abbracciato a chiacchierare al suo migliore amico.  Perché niente in quella casa era suo, né mai lo sarebbe stato. E il riccio in quel luogo non si trovava a proprio agio. Troppo grande, troppo bianco, troppo silenzio, troppo vuoto. Ma la verità era che, nell’aria di quella casa, Harry ci sentiva solo tanta nostalgia.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on 

E insieme ai pensieri del riccio c’erano anche quelli di Louis. Un Louis che in quell’esatto momento si stava chiedendo perché non fosse rimasto nel suo letto a dormire. Un Louis che si sforzava di capire le lacrime dell’altro. Un Louis che non riusciva a comprendere nulla e che si stava arrendendo al fatto che non avrebbe potuto aiutare il più piccolo, se questo non avesse fatto il primo passo, se non gli fosse andato incontro.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on 

“Quando vorrai parlarne, sai dove trovarmi” disse alla fine per spezzare quel silenzio che era sceso tra i due. E mentre si incamminava per tornare nella sua stanza le parole di Harry lo fermarono. “Non posso”. Una richiesta di aiuto urlata nel silenzio di quella notte, una richiesta che Louis solo poteva captare. Una richiesta, quella, fatta con un tono di voce supplichevole, la voce leggermente incrinata a causa del pianto appena finito. Ma Louis continuava a non capire. E così attese. Attese che il minore continuasse.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on 

E passò qualche minuto prima che “Non posso stare qui Louis. Io non voglio stare qui. Questa non è la mia casa e non lo sarà mai. È vero, non potrò tornare indietro, non potrò riavere la mia famiglia, mia mamma, mio papà e la mia sorellona. Sono consapevole del fatto che non riavrò mai indietro gli anni che ho perso, il riscatto a tutti i dolori e alle sofferenze che ho dovuto sopportare in questi otto anni. Lo so e non sto chiedendo questo. Voglio solo tornare in quella che è stata la mia casa, la mia famiglia, da quando i miei genitori se ne sono andati e nessuno voleva tenermi con sé. Voglio tornare all’orfanotrofio, voglio tornare da Marta che alla fine è stata un po’ la mia seconda mamma. Voglio tornare da Maria e dalle nostre chiacchierate inutili sulle scale o in cucina mentre ci preparava la merenda. Voglio tornare dal mio migliore amico, dall’unica persona che è riuscita a capirmi e che mi è veramente stata vicina in questi anni. Voglio tornare da Niall.” E calcò su quel nome, ci impresse un marchio che nemmeno il prodotto più efficace del mondo avrebbe potuto cancellare. “Qui sono solo.”
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until
your dream comes true
dream on 

Aveva ricominciato a piangere. Grosse, salate, inarrestabili e imperterrite lacrime. Lacrime piene di dolore e sofferenza, piene di rabbia trattenuta. E non ci furono parole, perché Louis sapeva che non sarebbero servite a niente, anche perché lui con le parole, non ci sapeva proprio fare. Ci fu solo un ragazzo di diciotto anni che accoglieva tra le sue braccia un ragazzino di sedici anni, quello stesso ragazzino che in quel momento era stretto nell’abbraccio del più grande, con il viso nascosto nell’incavo del suo collo, i ricci che solleticavano il petto che la maglia, ormai zuppa di lacrime, non riusciva a coprire. “Ci sono io”.  Ed era una promessa. Una promessa accolta e trattenuta da quell’abbraccio. Quell’abbraccio che fu solo il primo, il nastro che segna la partenza di una gara, l’inizio della loro amicizia, della loro storia; l’inizio di due ragazzi che non si sarebbero più separati, l’inizio di Harry e Louis.
 
Dream on, dream on, dream on,
dream yourself a dream come true
dream on, dream on, dream on,
and dream until your dream comes true
dream on.

Le ultime note della canzone si dispersero dolcemente nell’aria fredda di quel dicembre pieno di novità.
 
Passarono giorni durante i quali Harry aveva raccontato tutto a Louis, tutto della sua vita, dei suoi genitori, di sua sorella, di Zayn, di Niall, del loro rapporto, di quello che gli piaceva fare da bambino e di quello che lo intratteneva ora, del suo gruppo preferito, del film che più gli piaceva, dell’ultimo libro che aveva letto, del suo colore preferito e del suo numero fortunato. Passò anche un’altra settimana, in cui questa volta fu Louis a parlare e Harry lo ascoltava, attento e curioso. Passò un mese ed era arrivato per Harry il momento di tornare alla vita vera, di cominciare a relazionarsi con le persone, di ricominciare la scuola, di farsi nuovi amici. Louis gli aveva fatto conoscere i ragazzi della sua compagnia ed erano stati due quelli che avevano accolto maggiormente il riccio. Un certo Liam e un certo Nick. Sembravano simpatici. Passarono altri due mesi e tutto andava alla grande. Harry aveva ricominciato a vivere e Louis non poteva esserne più felice. Certo, a volte si ritrovava ancora a pensare alla sua famiglia e a Niall e, come è giusto che fosse, gli mancavano. Il rapporto con il minore si era rafforzato molto, erano diventati inseparabili. Erano diventati un po’ come Cip e Ciop, Ciuchino e Sherek, ScoobyDoo e Shaggy, Wendy e Peter Pan. Ma poi si sa come va a finire. In ogni caso, prima o poi, uno dei due finisce sempre per innamorarsi dell’altro. E così era successo anche con loro. Perché a Louis i ti voglio bene di Harry non bastavano più. E non gli bastavano nemmeno gli abbracci o i baci sulla guancia, o le sere passate con la testa appoggiata al petto o sulle gambe del più piccolo a guardare i loro film preferiti. Louis con Harry voleva farci l’amore in quel letto che aveva accolto i loro abbracci e le loro parole, voleva passarci il resto della sua vita, voleva averlo tutto per sé. Louis le labbra di Harry le voleva sulle sue, per assaporarle e consumarle fino a quando non ne sarebbe rimasto più nulla. Ma sapeva che non avrebbe mai avuto niente di tutto questo. E non l’aveva nemmeno messo in conto di potersi innamorare di Harry, perché cinque mesi prima non gli sarebbe nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Tuttavia era successo. Si era innamorato di Harry e non poteva farci nulla e la paura che il riccio non lo accettasse, che questo amore insano e sbagliato che, alla fine, era, cambiasse qualcosa nel loro rapporto, lo stava divorando. Perché Louis non voleva perdere Harry e perciò aveva deciso di non dirgli nulla. Così era passato un altro mese, pieno di sofferenza, di forza per riuscire a trattenersi dall’attaccare le sue labbra a quelle del riccio, di non urlare al mondo intero che sì cazzo, si era innamorato del suo fratellastro e non sapeva farne a meno. Un mese in cui Harry continuò a rimanere all’oscuro di tutto, ancora intrappolato in quell’oscurità in cui Louis l’aveva rinchiuso. Un mese in cui il più piccolo cercò di parlare al maggiore, per riuscire a capire quale fosse il problema. Louis sapeva che Harry aveva capito qualcosa e sapeva anche che, continuando a non rispondere alle sue domande, deviando il discorso, peggiorava la situazione. Ma Louis non ci riusciva. Non riusciva a prendere Harry, guardarlo negli occhi e dirgli quelle due fottute parole. Ti amo.
 
Ma alla fine Harry scoprì tutto. Era inevitabile e Louis lo sapeva. Era consapevole del fatto che, prima o poi, il ragazzo lo avrebbe scoperto. E la prese male, Harry. La prese male, non tanto per il fatto che il suo fratellastro si era innamorato di lui, ma perché non gliel’aveva detto. Non gli aveva detto nulla. Lo aveva trattato come un idiota per mesi, magari credendo non lo avrebbe mai capito. Ecco come la pensava Harry. Ma Louis glielo diceva. Gli diceva di provare a mettersi nei suo panni, perché lui al suo posto avrebbe fatto lo stesso. Ma no. Harry era irremovibile. Era anche della sua testardaggine che Louis si era innamorato d’altronde. E quando lo venne  a sapere litigarono. Litigarono come non avevano mai fatto. Litigarono come se non ci fosse un domani, come se non esistesse nient’altro, come se al mondo non fosse ammesso commettere errori, come se alla fine quello che più conta è il passato, come se loro lo avessero sempre fatto, come se non erano esistiti tutti i loro abbracci, le loro chiacchiere, semplicemente loro e quello che, fino ad allora, erano stati.
 
 
Louis immaginava sarebbe finita male. Ne era consapevole ed era anche abbastanza normale. Innamorarsi del suo fratellastro. Una cosa assolutamente inconcepibile. Già innamorarsi di una persona del proprio sesso veniva ritenuta una cosa contro natura. Immaginatevi se quella persona apparteneva persino alla sua famiglia. Beh certo, alla fine lui e Harry non avevano alcun legame, se non un vincolo rigorosamente legale, erano uniti da un pezzo di carta, per formalità, per convenzione. Ma ciò che più univa i due era sempre stato il loro rapporto. Più che due fratelli, erano veri e proprio amici. Per Harry, Louis aveva un po’ preso il posto di Niall. Nessuno poteva di certo sostituire il biondino, ma da quando si erano lasciati, le sere a chiacchierare delle cose più stupide, tra mille risate e mille sbadigli, le passava con Louis. Harry, però, non era affatto stupido. Aveva notato che qualcosa non andasse. Aveva chiesto a tutti gli amici di Louis, ne aveva parlato con Liam e aveva capito che lui ne sapeva qualcosa. Ogni qualvolta apriva il discorso, il ragazzo ne trovava sempre uno migliore o fingeva di dover andare a ripassare per la lezione successiva. Insomma, ogni scusa era ottima. Alla fine però Harry riuscì a estrapolare le informazioni necessarie. In fin dei conti, era conosciuto per la sua capacità di saper abbindolare chiunque con un paio di occhi dolci e un battito di ciglia. Proprio come quando era piccolo. Louis si era innamorato di lui.
Era giovedì. Faceva caldo, abbastanza. Anche troppo per gli stereotipi del tempo inglese. Il sole picchiava e Louis aveva approfittato della rara, bella giornata per restare a studiare in giardino. Non poteva nemmeno immaginare che quel pomeriggio sarebbe stato interrotto da un Harry che urlava chiamandolo per tutta la casa. Riusciva a sentirlo persino dal giardino sul retro. E sembrava parecchio arrabbiato. “Sono in giardino” urlò di rimando, per farsi sentire dal riccio. Forse era meglio se non lo avesse avvisato, ma avesse fatto di corsa le valigie e avrebbe preso il primo aereo per Pechino per sparire e non tornare mai più. “Tu! Io ti odio. Come hai potuto Louis? Come? Come hai potuto nascondermi una cosa del genere? Ci eravamo promessi che ci saremmo sempre detti tutto! Perché devi mandare tutto a puttane per una stupida cottarella? Perché?” urlò, sbraitandogli contro il più piccolo. E lì lo capì. Capì che Harry sapeva tutto. “Io..mi dispiace Harry, ma cosa potevo fare? Venire lì e dirti oh sai mi sono innamorato di te, ma non ti preoccupare, mettiti pure con la prima puttanella che passa per strada, me ne farò una ragione. No Harry! No, maledizione! Avevo paura di perderti, avevo paura che mi mandassi a quel paese, me e la mia cotta per te. Che alla fine non è neanche una cotta perché cazzo, io mi sono in…” iniziò Louis, guardando Harry negli occhi che, però, lo fermò con un “Non lo dire, sei  fuori controllo! È solo una stupida cotta, passerà, come sempre. Come tutto”. “No! Ora mi fai finire. Non te lo vuoi sentire dire? Io ti amo Harry Styles!” e lo urlò. Lo urlò con tutta la voce e la forza che aveva in corpo. Lo urlò, mentre un fiume di lacrime si liberava dai suoi occhi. Tutte quelle lacrime che aveva trattenuto per mesi. Quelle lacrime di sfinimento, di liberazione, di arrendevolezza. Perché Louis non ce la faceva più. Era stanco. Era stanco di tutte quelle bugie, di tutti quei sorrisi finti. Harry abbassò lo sguardo, impallidendo. Faceva invidia a un cadavere. “Che mi dici ora è? Non sei felice di sentirtelo dire? Non sei felice che finalmente qualcuno si sia innamorato di te, sul serio, di sapere che in questo fottuto mondo esiste qualcuno che si sacrificherebbe per te? Che morirebbe per te? Che finirebbe in galera, che si butterebbe dall’ultimo piano dell’Empire State Building? Qualcuno che andrebbe a Parigi, scalerebbe tutta la Tour Eiffel solo per poter urlare all’universo intero che ti ama? Perché io lo farei. E farei tutto quello che gli altri non hanno mai fatto per te. E non ti lascerei mai. Non come Niall. Non come il tuo amichetto di infanzia. Non come tua sorella. Non come i tuoi genitori!”. E le lacrime continuavano a scendere imperterrite, come un torrente in piena, senza mai fermarsi. I suoi occhi erano come gli argini di un fiume, di un fiume che esonda. A quel punto anche Harry iniziò a piangere, perché non ne poteva più, non sopportava più tutte quelle parole, tutte quelle lacrime. E quello. Quello che aveva detto dei suoi genitori, dei suoi amici, della sua famiglia, quello era davvero troppo. “Basta! Non ti permettere mai più Louis. Mai più! Mi hai capito? Tu non sai niente di me, di loro. Non mi avrebbero mai abbandonato di loro volontà, lo sai benissimo. Lo dici solo perché ce l’hai con me, non lo pensi davvero. Lo so che non lo pensi davvero! Ma ora hai superato il limite Lou, e lo sai anche tu! Stammi lontano.” Le lacrime non si fermavano, perché per Harry dire addio a Louis era difficile, era difficile allontanarlo. “Non mi rivolgere mai più la parola, non mi cercare, non chiedere di me a scuola, non abbindolare i tuoi per riuscire a parlare con me! E ti giuro che se anche provi solamente a farlo io me ne vado Louis. Torno da dove me ne sono venuto. Torno dal mio Niall e non avrai più notizie di me. Non saprai se sto bene, se sono ancora vivo, cosa faccio, dove sono e quanti figli avrò! Sappilo Louis, io ti ho avvertito.” E ancora lacrime perché era difficile, tanto difficile. Più difficile di ogni altra cosa. Più difficile di quanto avesse pensato. “Se mi ami veramente come dici, fallo per me, Louis. Ti prego”. Parole sussurrate, per paura di dirle e di riuscire a farsi sentire. Perché una parte di Harry tutte quelle cose non le pensava nemmeno. Una parte di Harry non avrebbe mai voluto abbandonare Louis. Ma aveva sbagliato. E ora doveva pagarne le conseguenze. Se ne andò, lasciando Louis da solo, in quel giardino sul retro, con il sole che picchiava forte e faceva brillare le lacrime salate che percorrevano tutte le guance del liscio per poi posarsi sulle sue labbra rosse. E piansero tante lacrime. Entrambi. Lacrime che non pensavano nemmeno di avere. Piansero così tante lacrime che alla fine pensarono di esserne rimasti senza. Piansero perché avevano perso ciò che di più importante avevano al mondo.
 
 
La situazione era diventata insostenibile. I due alla fine avevano veramente smesso di parlarsi. Ormai erano rare anche le volte che si guardavano negli occhi. Non dormivano quasi mai. Passavano entrambi le notti affacciati alla finestra, con il venticello che scompigliava i capelli e si infrangeva sui loro visi, ascoltando ‘Dream On’, la prima canzone che avevano condiviso.
Alla fine Harry se ne andò. Scoprì che Niall, nonostante la sua età avanzata, era stato adottato. Aveva lasciato l’orfanotrofio ed era volato fino a New York, dove ora viveva e frequentava il college. Harry l’aveva raggiunto. Si era ricostruito una vita e stavano insieme. Certo, Louis gli mancava ogni giorno e non avrebbe mai smesso di farlo perché, in un modo o nell’altro, una parte del suo cuore sarebbe sempre appartenuta al ragazzo, di questo ne era consapevole. Ma aveva capito che sarebbe dovuto andare avanti, con o senza Louis, la vita continuava. E lui la stava vivendo, la prendeva così come gli arrivava. Aveva imparato a fregarsene di tutto e tutti, ad affrontare gli ostacoli e le paure, vivendo al massimo. Perché la vita è una sola. E poi con Niall era felice. Il ragazzo lo amava e infondo anche Harry, a modo suo, ricambiava. Ogni tanto iniziava a fantasticare. Gli sarebbe piaciuto che tutto quello non fosse successo, che Louis gli avesse detto che era innamorato di lui subito. Perché allora sarebbe andato da lui, ne avrebbero parlato e, col tempo, il forte affetto che Harry provava nei suoi confronti si sarebbe potuto tramutare in amore. Ma erano solo sogni. E la realtà è diversa dai sogni.
                                                                                              
Per Louis invece era stato tutto più difficile. Molto più difficile. Il ricordo di Harry era indelebile, ancora impresso nella sua mente. I suoi lineamenti, i capelli ricci che si divertiva ad arrotolare intorno alle dita, i suoi occhi verdi che brillavano e risplendevano quando era felice, le fossette agli angoli della bocca in cui amava mettere le sue dita fini, cosa che faceva sempre arrabbiare il più piccolo. Gli mancavano le sere passate sul divano a guardare i film horror e la faccia spaventata di Harry. Faceva apposta a sceglierli, perché sapeva che al riccio facevano paura e quindi avrebbe nascosto il  viso nell’incavo del suo collo o sul suo petto. E a Louis piaceva quando lo faceva. Semplicemente, gli mancava Harry. Il suo Harry. Che poi non era nemmeno mai stato suo. Aveva avuto paura di perderlo e alla fine tutti i suoi timori erano diventati realtà. Così, di punto in bianco, in un caldo giovedì pomeriggio. Quando aveva scoperto che era stato il suo migliore amico Liam a svelare tutto al suo fratellastro si era arrabbiato molto. Per un certo periodo non gli aveva più rivolto parola, ma poi erano tornati gli amici di sempre. Gli sarebbe piaciuto che anche con Harry fosse successa la stessa cosa. La sera stava sempre alla finestra, sperando di veder comparire il riccio, che correva da lui, con un sorriso immenso stampato in viso. Ma erano solo sogni. E la realtà è diversa dai sogni
  
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