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Autore: _sunflower    26/10/2013    0 recensioni
Di lei non avevo dimenticato nulla e ancora ho il suo splendido viso impresso nella memoria, ma ho iniziato a non pensare a lei come una persona che ho amato e la cui vista mi sarà eternamente impedita, ho imparato ad ammirarla come un personaggio inventato di un mio lungo e intenso sogno. Il miglior sogno, che ha dato un senso alla mia esistenza.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Era un normale pomeriggio di autunno, potevo benissimo vedere le foglie color mattone fluttuare verso l’asfalto di fronte a casa mia. Mi ricordavano tanto i capelli di Beatrice: non erano propriamente rossi ma nemmeno arancioni e quando con l’estate si schiarivano si notavano delle ciocche bionde mentre di inverno c’era gente che li definiva castani. Ed era come un albero, non solo per il mutamento stagionale, che mi ha fatto sempre venir voglia di scattare giornalmente una fotografia alla sua chioma, come fanno le donne incinte, ma perché era uno dei secolari alti e robusti che appena vedi pensi che è meglio non parcheggiare lì sotto e invece no, nonostante si staccassero pezzi di corteccia ogni giorno e i bambini spezzassero senza pensarci i ramoscelli deboli, lei continuava a vivere la sua vita perfetta col suo viso perfetto, i suoi perfetti occhi e la sua perfetta voce; ma con la scritta insicurezza scritta in fronte.
Pensavo alla sua melodiosa voce da bambina che la caratterizzava e che mi faceva brillare gli occhi ogni santissima volta, alle sue guance che si coloravano tanto rapidamente quanto la stupidità della causa: ricordo che eravamo per strada e un signore che pubblicizzava chissà quale campagna l’ha fermata, lì per lì ho pensato che sarebbe stato divertente vederla mentre si arrampicava sugli specchi e annaspava pur di andare via velocemente da quella scomoda situazione, ma non ho mai visto un simile colore in faccia a qualcuno e ho avuto pietà di lei.
 
Quindi quel pomeriggio non aveva nulla di diverso, era diventata una piacevole abitudine sdraiarmi sul letto, abbracciare calorosamente il cuscino più vicino, mettere il cd più deprimente della collezione al massimo volume e pensare a lei. Come se poi non lo facessi mentre mangiavo, mentre studiavo, mentre dormivo o mentre mi vestivo. Era tutto così meraviglioso mentre immaginavo di giocare coi suoi riccioli, ma ricordo di essere stata interrotta dalla suoneria del mio cellulare e ricordo di aver pensato di lasciar squillare a vuoto, perché interrompere un pensiero del genere sarebbe stato da masochisti, ma ho risposto, ancora non mi spiego il motivo.
 
“Carlotta?” Non ho riconosciuto il numero e nemmeno la voce. Era affannata e preoccupata, era spenta e strozzata.
 
“Sì, sono io. Chi parla?” La mia è stata una risposta altrettanto sussurrata.
 
“Sono Mariella, la-la mamma di. Di Beatrice.” Mariella, come ho fatto a non riconoscerla? Perché quella mancanza di respiro, perché quel ripensamento prima di pronunciare la parola mamma e quella esitazione precedente al nome di sua figlia, la fantastica figlia che ha sempre ammirato?
 
“Mariella” prendo un rumoroso respiro e “tutto bene?” Ero seria, l’aria di quella telefonata non era per niente tranquilla e avevo paura della sua reazione.
 
“Che ne dici se vieni a prendere un bel the caldo? Tu ami prendere il the con Beatrice e poi ieri è andata a comprare quello inglese che ti piace tanto, adesso ne ho troppo, sai che non ne bevo.” Non capivo. Faceva una piccola pausa ogni tre parole e il nome della persona aveva inspiegabilmente solo qualità positive lo aveva borbottato sottovoce, insicura. E perché aveva bisogno di me per finire il the? Trascorrevo tutti i freddi pomeriggi a casa loro e la giovane donna single aveva sempre rifiutato la calda bevanda che io e la mia migliore amica amavamo alla follia.
 
“Ok, Mariella arrivo. Solo qualche attimo per vestirmi e sono da voi.”
 
Ricordo perfettamente che vestiti ho indossato. I miei jeans neri preferiti che erano sulla sedia ed un golf color abete. Bea diceva che faceva risaltare i miei occhi e non ho potuto evitare di classificarlo come il mio preferito, mi faceva pensare a lei. Adesso di quel golf ho solo un triste, sporco e bagnato ricordo, sì bagnato.
 
Ho suonato il campanello con una leggerezza che non pensavo di possedere. Non ero ancora consapevole del dolore che avrei provato, ma sapevo che la sua voce e la sua titubanza nascondevano qualcosa. Mi ha aperto una donna sola, che non si era mai pentita di aver avuto un parto alla giovane età di quindici anni, che aveva sofferto tanto all’abbandono del fidanzato ma che aveva superato il tutto con una grande forza di volontà che aveva poi trasmesso alla figlia. Ricordo anche come era vestita: aveva un leggero paio di pantaloni di tuta grigi ed una maglietta blu, una di quelle dello staff dell’oratorio a cui dava una mano con l’organizzazione e a causa del freddo pungente si era distrattamente coperta con una felpa marrone imbottita.
Nessuno ha detto una parola, i suoi gonfi e rossi occhi parlavano da soli, ma io ho ignorato i pensieri che riempivano la mia mente e sono andata diretta in cucina. Lei si è seduta a capotavola, l’ho osservata per pochi secondi e poi ho tranquillamente preso il pentolino per far scaldare l’acqua. Acceso il gas mi sono seduta anche io, poco distante da lei, cercavo di vivere il momento come personaggio fuori dalla scena ma era impossibile, l’impatto che hanno avuto le sue parole non lo scorderò mai.
 
“Senti Totta, lo sai che per me sei come una figlia e non se ne parla proprio di farti del male, ma ho deciso che questa cosa te la voglio dire io. Sai che Bea doveva andare a scuola questo pomeriggio per la riunione, vero?”
 
 “Certo” le rispondo d’istinto. Avevo insistito sul fatto che avrebbe potuto saltarne una qualche volta, ma lei precisa com’era si era rifiutata.
 
“Ecco, dato che non potevo accompagnarla perché avevo una visita è andata a piedi, da sola. Non immaginavo che quell’incrocio di fronte al liceo potesse essere così pericoloso.”
 
Ricordo che ha lasciato la frase in sospeso, non se la sentiva di continuare, non ne aveva la forza e il coraggio, proprietà per cui l’ho sempre adorata. Senza nemmeno fiatare mi sono alzata, sono arrivata ai fornelli con molta, troppa calma, ho preso la mia tazza e la sua tazza. Entrambe le aveva comprate Mariella e ce le aveva regalate per Natale; la mia era blu cobalto con il manico bianco e la sua era rossa porpora. Erano di una semplicità quasi banale, ma le amavo davvero.
Ho eseguito alla perfezione tutto ciò che facevo sempre per e con lei, ho riempito la sua tazza e
 l’ho delicatamente appoggiata al suo posto, quello che nessuno mai e poi mai avrebbe potuto rubarle e così è stato, ma quella volta la fredda tazza non ha potuto toccare le sue morbide labbra rosee. Io mi sono seduta al mio posto e ho iniziato a sorseggiare senza mostrare alcun sentimento, ero in uno stato confusionale che ancora adesso non riesco a ricomporlo con precisione, ma ricordo che ha fatto male quella indifferenza. Mariella accanto a me stava già singhiozzando, non vedevo le lacrime perché credo le avesse già terminate in precedenza.
Ricordo di essermi girata e di averle detto “Smettile di piangere, ti prego” il mio tono era davvero supplichevole ed esausto perché in quei pochi minuti avevo preso in considerazione la possibilità di dover vivere la mia futura vita senza di lei, senza il suo sorriso e proprio non ce l’avevo fatta. Ha smesso di respirare per qualche tempo e ha pronunciato parole che mai scorderò “Tesoro, prenditi tutto il tempo che vuoi, spero soltanto che tu sappia che io ci sono per te, magari non sono proprio al massimo delle energie” ha accennato un sorrisetto sghembo, cercava davvero di farmi stare meglio. “ma mi farebbe davvero molto piacere se non smettessi di vedermi come la mamma della tua migliore amica. Ti prego, non dimenticarlo, non voglio perdere una altra figlia.”
 
Ho capito all’istante che quelle ultime parole le hanno provocato un dolore tremendo, un vuoto all’altezza del petto e un macigno allo stomaco, magari anche un giramento di testa, ma sono state le parole che mi hanno permesso di trovare il coraggio di alzarmi e di risponderle “Io per adesso ti dico solo questa cosa. Vado a prendere le mie cose, poi torno qua e rimango tutto il tempo necessario.” Non era una richiesta, era una affermazione; volevo farlo e stavo per farlo, era una comunicazione.
 
Sono uscita di corsa dalla casa della mia infanzia, della mia adolescenza e quella dei miei sogni. Più che altro l’arredo mi affascinava molto, sapevo tutto di ogni mobile. Ad esempio  sapevo che ogni volta che Bea tornava a casa da scuola non lasciava le chiavi sul mobiletto che di norma ha quella utilità. Lei se le portava in camera e le metteva sul comodino. Era come se la sua camera fosse la sua casa e tutti i metri attorno fossero solo il piccolo borgo. Detto così sembra che considerasse sua madre inferiore ma non lo pensava affatto; erano legatissime, come del resto lo sono due donne che hanno solo quindici anni di differenza e abitano da sole. Lei viveva nel suo mondo, in cui non esistevano le ingiustizie, in cui discriminazione non esisteva nemmeno come parola e in cui Bukowski era un stile di vita per tutti quanti. Perché sì, lei viveva per quell’uomo.
 
Ricordo di aver fatto tutto meccanicamente, sono entrata in casa sbattendo violentemente la porta, non c’era nessuno per fortuna perché mi sentivo molto vulnerabile al momento, non riuscivo a controllare i sentimenti ed è proprio per questo che non ho visto lacrime per giorni.
Sono entrata in camera, ho subito fatto caso alla foto incorniciata che avevo appeso al muro: eravamo io e Bea mentre facevamo l’angelo nella neve. Amavo veramente tanto quella foto, i suoi occhi erano lucidi per le grasse risate e le guance erano davvero di un colorito spettacolare. A quella vista ho pensato che no, tutto quello era un sogno, che Bea non si fa investire dalla macchine; ogni volta che attraversavamo col semaforo rosso prendeva un grande respiro e iniziava a dire adesso ci investono adesso ci investono adesso ci investono finché non arrivavamo al marciapiede opposto e iniziava a ringraziare il cielo. Ma ho comunque aperto il cassetto e preso qualche paio di pantaloni, qualche maglietta e il pigiama, sono poi andata in bagno e alla vista del mio riflesso allo specchio ho iniziato a pensare che lo sguardo perso di Mariella era vero, che in effetti Bea non mi aveva scritto e non la avevo nemmeno vista. E lì, ho notevolmente stretto la mascella e stretto i pugni, ho pensato di voler vedere quello sporco vetro cadere a pezzi sul lucido pavimento del bagno.
 
Ho cercato intensamente e per moltissimo tempo di ricordare quei tre quarti d’ora, ma l’unica cosa che so me la assicura la profonda cicatrice che ho sulla mano destra. Mi hanno detto che senza nemmeno curarmi del sangue che macchiava il mio golf, ho finito di procurarmi il necessario e sono uscita, senza chiudere la porta, senza pensare all’impressione che avrei dovuto dare ai passanti. Arrivata a casa sono crollata senza sensi sul pianerottolo del palazzo e mi hanno portato in ospedale. Ovviamente mi hanno detto che avevo perso tantissimo sangue e che quindi lo svenimento era dovuto a quello, ma io sono convinta che siano stati gli occhi di Mariella a non farmi capire più nulla; perché sono sicura che abbiano avuto lo stesso aspetto del giorno del funerale ed era davvero troppo difficile reggere il suo sguardo che chiedeva palesemente aiuto, che dichiarava il suo dolore con un semplice battito di ciglia. E ovviamente tutto questo sofferenza non è facile da reggere per una ragazzina di soli diciotto anni che negli occhi della sua migliore amica vede la felicità, vede risate, pianti e baci, tantissimi baci dolci e silenziosi, baci di cui mai ha potuto godere. E nella sue mani vede un romantico viaggio negli Stati Uniti per poter beneficiare dell’intelligenza degli americani che hanno permesso il matrimonio omosessuale, vede la donna che pulirà il muso dei loro figli dal gelato. Io trovavo me stessa in Beatrice e perdendo lei Carlotta è scomparsa.
 
La memoria è tornata dopo il mio risveglio nell’umida saletta dell’ospedale. Avevo subito sentito un lancinante bruciore e mi sono spaventata vedendo la rossa benda che copriva i sette punti; la consapevolezza di non poter ridere della mia espressione con la persona a cui più tenevo ancora non si era impossessata di me, ma subito dopo essermi abituata al dolore ho immaginato Bea su una bianca barella e mi sono chiesta se i dottori avessero veramente provato tutto il possibile come dicono sempre, poi mi sono sentita stupida prima di tutto perché stavo giudicando il lavoro di persone meravigliose che salvano vite e poi perché vedendo un angelo come lei di sicuro non avrebbero permesso di portarla via così facilmente dalle mani della morte. Era andata via, ricordo benissimo la difficoltà con la quale avevo pensato alla sua assenza, la duratura infinita e acida assenza.
 
I giorni dopo quello sono stati estenuanti e ripetitivi. Mi svegliavo verso l’ora di pranzo, mi sdraiavo sul divano con Mariella e senza pronunciare parola alcuna guardavamo la tv, i pomeriggi trascorrevano molto lentamente pensando a lei, pensando al suo naso. Perché lei il naso se lo volevo ritoccare, mi diceva sempre che quando sarebbe diventata grande ancor prima di iscriversi a scuola guida si sarebbe rifatta quella protuberanza inutile che lei odiava tanto; non sapeva che grande abbastanza non lo sarebbe mai diventata. E poi pensavo alle numerose vacanze che abbiamo trascorso insieme; i miei genitori non si staccavano mai dal lavoro quindi andavo ogni estate in campeggio con lei, dormivamo strette strette nella stessa tenda e arrostivamo i marschmellow come in un film d’avventura, quelli che lei amava. Quando restavamo in città lei si trasferiva a casa mia per delle settimane, a volte mi dispiaceva per Mariella ma delle giovani adolescenti che hanno la casa libera non si rifiutano mai di divertirsi. I miei genitori non c’erano mai e non ci sono tuttora, dicevano che il lavoro era troppo e quando avrebbero finito mi avrebbero dato tutte le attenzioni necessarie ma dalla morte di Bea non ho ricevuto nemmeno un loro sorriso di conforto, figuriamoci un abbraccio. Non credo che loro abbiano capito il mio dolore, penso che non ci abbiano nemmeno provato.
Fatto sta che siamo andate avanti così per settimane e sinceramente credevo che sarebbe andata avanti ancora per molti mesi quella scenetta depressa e senza vita. Perché senza Bea la vita sembrava inutile, come un libro senza Bukowski, avrebbe detto lei.
 
Verso dicembre abbiamo iniziato a scambiare qualche parola, a mangiare e a curare un po’ di più l’aspetto perché avevamo finalmente capito che la vita va avanti e che, anche se senza Bea non sembra vita, va vissuta. Il nostro ragionamento filava eccome: quando si nasce non si sa nulla e col tempo andiamo alla scoperta del mondo, in quel momento avevamo bisogno di quei ipotetici nove mesi per crescere nuovamente per poi meravigliarci della maestosità della Terra. La gestazione era terminata e noi eravamo pronte ad andare a fare la spesa, entrare in camera sua, bere dalla sua tazza e osservare le sue foto. Di lei non avevo dimenticato nulla e ancora ho il suo splendido viso impresso nella memoria, ma ho iniziato a non pensare a lei come una persona che ho amato e la cui vista mi sarà eternamente impedita, ho imparato ad ammirarla come un personaggio inventato di un mio lungo e intenso sogno. Il miglior sogno, che ha dato un senso alla mia esistenza. Del resto lei mi ha sempre fatto venire il dubbio che fosse frutto della mia immaginazione, troppa bellezza in una persona era troppa e la sua morte è stata ancora più ingiusta. 
  
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