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Autore: Laurie    14/04/2008    4 recensioni
Nella sua torre la Signora di Shalott vive tranquilla ed ignara del destino che l'ha condannata fin dalla nascita, fino a quando il richiamo del mondo a lei estraneo non la attrae fatalmente.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa

C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
e un sogno di ciò che potrebbe essere visto se la finestra si aprisse.
Fernardo Pessoa

"I am half sick of shadows," said
The Lady of Shalott.
Alfred Tennyson

La Signora di Shalott è una leggenda legata al ciclo arturiano. Le informazioni su cui ho basato la mia storia le ho ricavate dalla ballata di Alfred Tennyson, The Lady of Shalott, e dal blog La Torre di Vetro. Ecco cosa si racconta: Elaine di Astolat è una maga ma prima di tutto una giovane bellissima, che vive reclusa nella sua torre, non lontano dalla famosa Camelot. Ella fu condannata a non poter uscire dal suo castello, a meno di voler morire, dalla maledizione di Morgana la Fata, a seguito di una visione che la sorella di Artù ebbe e che le mostrava come la Signora di Shalott, facendo innamorare di sé Lancillotto, intralciasse i piani di Morgana stessa per governare al fianco del re.
Elaine passava le sue giornate a tessere una magica tela in cui erano rappresentate le vicende del mondo esterno che le osservava attraverso uno specchio.
Benché questa storia fu ideata piuttosto in fretta, ogni elemento, sia che concordi con la versione di Tennyson, sia che se ne discosti, è significativo per comprenderla. La mia versione della leggenda è decisamente introspettiva e spero che i miei scopi risultino chiari a tutti i lettori.

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La Signora di Shalott


Il mondo era oltre una finestra.
Una finestra dall’arco romano, intagliata nelle pietre che avevano assorbito la luce per diventare così chiare, nascosta tra le tende di pesante seta che riparavano dai rigori invernali e dagli ardori del sole estivo. La balia, ogni tanto, accostava con premura quelle tende: sentite, le diceva, il vento fuori è troppo forte, potreste ammalarvi, oppure è una giornata tanto calda, un po’ di frescura vi farebbe bene.
Ed il mondo scivolava nella stanza in un raggio di sole sui fiori di pietre dure che si intrecciavano in ghirlande nel pavimento.
Ma la Signora di Shalott lasciava libera la finestra, sempre. I mormorii, i cinguettii, i fruscii dall’esterno entravano liberamente, come le foglie dorate d’autunno, gli uccelli che, ritrosi e timidi, la spiavano nella sua stanza in primavera ed il vento in tutte le stagioni.

Da che ricordava il suo mondo era racchiuso dentro il cerchio perfetto della sua torre. Il resto era oltre. Ancora bambina aveva chiesto a sua madre cosa fosse quel raggio di luce, quei suoni insoliti e quei colori accesi che osservava con meraviglia e curiosità dalla sua finestra.
Sua madre, pallida e odorosa dell’odore caldo di madre, le diceva di non preoccuparsi, che andava tutto bene, ma che fuori, fuori no, ci sono tante brutte cose che una bella bambina non dovrebbe mai vedere.
Sebbene non dubitasse delle sue parole, sua madre non le piaceva. L’abbracciava troppo stretta e all’improvviso, mentre lei stava giocando, quasi la soffocava tra le sue forti braccia aliene.
La balia, invece, così dolce, così gentile l’avvolgeva col suo corpo morbido e accarezzava i riccioli dei suoi capelli. Ascolta tua madre, le diceva. E se le chiedeva cosa fossero quelle brutte cose, di cui sua madre non voleva parlare, le bisbigliava i segreti oscuri del fuori. Alle storie di terrore lei rabbrividiva, ma la sua balia, cara, carissima balia, la consolava con la stessa premurosa gentilezza di carezze.
Da un giorno all’altro sua madre non venne più. E ancora adesso, mentre le veniva in mente la sua assenza, la Signora di Shalott provava lo stesso stupore di quando le raccontavano qualcosa che era successo tempo prima e che lei aveva dimenticato. Davvero? Era successo proprio così? Era esistita quella donna, memoria sbiadita di abbracci affannosi e di dolore?

La signora di Shalott scosse la testa, mentre con lo sguardo accarezzava la stoffa. I suoi occhi vagarono sulle figure abbozzate, sull’intreccio di foglie, tenere nella loro verde primavera, che formavano la cornice con un sospiro di soddisfazione.
Erano passati anni da quando per la prima volta le sue mani toccarono il telaio. Aveva consumato i suoi giochi preferiti, le bambole, persino gli animaletti di legno intagliato che dei parenti di cui non conosceva il viso le avevano mandato in dono; aveva imparato a memoria i racconti, sapeva ormai alla noia le canzoni e non aveva libri nuovi da sfogliare. Crida, che era la sua cameriera preferita e che le raccontava i pettegolezzi di corte, era stata mandate via.
“Una così cara ragazza,” giustificò la sua assenza la balia, quando chiese notizie. “Ma con la testa piena di sciocchezze che una brava bambina come te non dovrebbe ascoltare.” Lei protestò che si annoiava, che voleva qualche nuovo giocattolo. E allora la balia, paziente, le aveva insegnato a ricamare e a tessere,
Benché il telaio si fosse dimostrato una piacevole attività, ogni tanto le mancava ancora Crida. Le altre cameriere erano troppo timide o troppo poco propense ad aprire bocca, limitandosi ad assecondarla. Non rimanevano che gli sguatteri e la cuoca, che la turbavano per il loro comportamento grossolano e che vivevano nella parte più dimenticata del castello, e la balia che aveva ormai esaurito le sue storie. Anche se le piaceva ascoltarle, avevano perso la loro novità.

“Parlami dei cavalieri,” aveva chiesto una volta a Crida. Aveva letto una storia dove apparivano i cavalieri ma non aveva compreso bene cosa fossero.
“Sono uomini, e vanno a cavallo.”
“E basta?” aveva commentato delusa.
“Ma no, mia signora,” aveva riso la giovane Crida. E aveva preso a spiegare che alla corte ce n’erano molti, anzi una volta ne aveva visto persino uno da vicino, che erano al servizio del re, che portavano delle armi così scintillanti che un uomo, se le avesse fissate a lungo, sarebbe rimasto cieco. Che erano belli – e qui sorrise ed arrossì, sotto lo sguardo ardente della giovane Signora di Shalott che la incitava a proseguire –, che erano valorosi e gentili.
“Quando combattono, prendono un dono dalla loro dama, e se vincono, si inginocchiano e le proclamano eterna devozione e la chiamano la più bella. E lei accetta i loro voti di fedeltà.”
“E sono così belli?” chiese la piccola signora, sebbene non avesse idea di cosa fosse la bellezza.
Crida ridacchiò, dandole un buffetto sulla guancia. “Ma sì, ma sì. Un giorno li vedrete anche voi.”
La Signora di Shalott sospirò per cacciare via quei desolanti pensieri: perché lei non aveva mai visto un cavaliere né mai qualcuno l’aveva proclamata la più bella. Con lo sguardo accarezzò le figure pallide, quasi inconsistenti sotto il peso delle armature forti e lucidate a specchio dei cavalieri che vivevano nel tessuto sul telaio. Chissà se erano così, come li aveva visti Crida un giorno lontano alla corte del re. La servetta non era lì per confermarlo, e questo rendeva triste la Signora.
La balia era stata molto decisa su questo argomento.
“Crida dice delle sciocchezze,” aveva detto mentre scuoteva la testa, come per rafforzare l’idea di quanto fossero sciocchi i discorsi della cameriera. “I cavalieri servono il re e lo proteggono dai nemici. Non vanno di certo dietro alle donne! Mia signora, sono certa che non vorrete mai avere un cavaliere alle vostre calcagna.”
“Ma perché?”
“Piccola mia, i cavaliere uccidono,”  e quella parola sconosciuta si impresse in un sussurro carico di orrore nella mente innocente della bambina. “E non c’è cura per la morte.”
“Allora sono cattivi?” chiese in un singhiozzo la Signora, ormai prossima alle lacrime.
La balia, in risposta, l’attirò contro il suo seno confortevole e l’abbracciò, perché non doveva avere paura, dentro il castello sarebbe stata al sicuro.

Col tempo la Signora di Shalott non aveva più chiesto dei cavalieri, né della corte del re. Ma ogni tanto, seduta accanto alla finestra o mentre al telaio creava una scena con l’intreccio dei fili colorati, ecco che da lontano giungeva un clop-clop di zoccoli sulla ghiaia del sentiero che costeggiava il fiume e salivano voci allegre e piene di vitalità, non quelle più cupe dei contadini, che parlavano poco e nel loro dialetto aspro e grossolano. Lei trasaliva e reprimeva l’impulso di spiare oltre le tende per la strada.
Erano momenti rari che capitavano sempre meno: gli estranei si allontanavano in fretta per la loro strada, fino a quando ella sentiva morire le loro voci e gli zoccoli dei loro cavalli, e nessuno si avvicinava al fiume che circondava il castello.

La Signora di Shalott si era dimenticata della sua infantile passione per le storie sui cavalieri, fino al giorno in cui non spiò per caso la conversazione fra le cameriere, mentre queste si ristoravano, ignare che la loro padrona fosse in ascolto.
“A corte è arrivata…”
“Quando ?”
“Ieri. E’ andata subito dal re.”
“Spudorata! Con tutte le voci che girano su di lei, ha del coraggio a farsi vedere a Camelot!”
Le altre zittirono la temeraria cameriera, inducendola a non pronunciare discorsi avventati, che se l’avessero sentita, sarebbero stati guai.
“Di chi state parlando ?” si intromise una nuova voce.
“Di Morgana la Fata,” bisbigliarono questo nome tanto debolmente che la Signora faticò non poco a capirlo. Eppure lo ricordò con chiarezza, rigirandolo nella mente come una canzone che non la volesse abbandonare  e continuasse a suonare nei suoi pensieri. Con tanta insistenza quel nome la istigava, che ella volle saperne di più.
Quando si decise a chiedere alla balia, la donna si portò le mani alla bocca e allargò gli occhi in preda ad un grande spavento.
“Vi prego, non pronunciate il suo nome,” esalò in un sussurro.
“Ma perché, cara balia! Cosa vi succede? Non vi sentite bene?” chiese la Signora di Shalott, inginocchiata al suo fianco e prendendo una mano rugosa della donna fra le sue.
“Chiedere una cosa simile proprio ora…”
“Ho sentito…”
“Mia signora, vi posso dire solo questo. E’ la sorella del re e una maga molto potente.”
Gli occhi della giovane si accesero a parole che rivelavano un così importante lignaggio.
“Hanno detto che è molto bella…”
“Bella?” la vecchia balia rise in un modo sprezzante che sconcertò la Signora di Shalott. “Molto bella, ma voi lo siete di più, piccola mia.”
Ella si strinse le mani al corpo, quasi si fosse accorta in quell’istante di possederne uno. “Io… bella…”
“Sì,” affermò con decisione la balia, prendendole il viso tra le dita callose. “La più bella.”
Ma non sembrava contenta di questo, anzi ne era spaventata.

La Signora di Shalott, dopo che ebbe lasciato la balia, corse allo specchio. Era una lucida lastra d’argento, così polito che ogni particolare della sua intera stanza vi era riflesso, ma ora era occupato dal suo viso e dal suo corpo, mentre insistentemente si fissava come per la prima volta.
Allora, era questa la bellezza. Erano queste guance pallide, appena colorate di rosa come i fiori teneri di primavera, lisce come le sete orientali; erano queste mani dalle dita lunghe ed agili, con le unghie come madreperle, e quei capelli di un nero lucido come l’ebano, mollemente raccolti in una treccia che le scendeva fino alla vita, e quella stessa vita snella come un fuso, che si allargava verso l’alto per uscire fuori dal corpetto simile al fiore sullo stelo.
La bellezza. Più di Morgana la Fata, sorella del re, maga a corte.
La Signora di Shalott sorrise di un sorriso dolce come i frutti estivi troppo maturi, pronti a guastarsi.
Il retrogusto di quei frutti era amaro.

Le sue dita agilissime facevano volare il pettine, mentre la spola correva veloce a eguagliare il ritmo delle sue mani . Filo dopo filo, intrecciato l’uno all’altro, la tela si formava. La Signora di Shalott cantava antiche canzoni di gesta mentre tesseva. Quindi l’ago sostituì il telaio. Punto dopo punto, si formavano le figure sempre più compiutamente nei loro particolari.
L’opera proseguì ancora per molti giorni, senza che ella si stancasse, anzi infervorata proseguiva con sicurezza, dimenticandosi dello scorrere del tempo. Quando concluse, si tirò da parte e accarezzò con sguardo amorevole il frutto delle sue mani e della sua mente.
Uomini riccamente vestiti, donne dalle lunghe vesti di lana e dai capelli adornati di gemme, cavalli bardati a festa, servitori che portavano vino e damigelle che accompagnavano in gruppi le loro signore, persino contadini con i loro strumenti in mano e grassocce matrone con ceste di frutta, si affollavano tra le cornici floreali sul prato, si aggiravano tra i cani da compagnia, gli uccelli che volteggiavano sulle loro teste e i fiori dalle corolle dischiuse.
L’intera corte del re si era radunata. I loro volti, i loro occhi stranamente vacui si fissavano su un punto ben preciso.
Al centro il re incoronato si riconosceva per la fierezza con cui portava i simboli del suo potere, ma più in alto di lui, con audacia e con eleganza sedeva una donna, il viso soffuso di una luce chiarissima, i lunghi capelli scuri che ricadevano come un mantello.
Era a lei che si rivolgevano gli sguardi della corte: lei, sorella del re, Morgana.
La Signora di Shalott sospirò al pensiero di questa donna, il cui nome si osava appena sussurrare tanto grande era il suo potere. Un cavaliere nella sua armatura lucida come il suo specchio d’argento ma senza armi era inginocchiato ai piedi del trono, dove ella sedeva, e le porgeva il proprio volto e le proprie mani in adorazione.
Dopo lungo tempo passato ad osservare la sua tela, la giovane signora si staccò bruscamente, tentennò un poco confusa per poi dirigersi con passo incerto in avanti, verso la finestra aperta. Da lontano si vedeva Camelot, coronata dalle sue torri, scintillante come una pietra lustra e levigata sotto il sole. Di notte essa era come un faro, poiché mille fuochi brillavano dalle sue mura, e spesso la Signora di Shalott si era attardata a contemplarla dalla sua finestra, quando già le sue ancelle dormivano, e le sembrava di udire i canti, la musica e le voci che la raggiungevano, sola nella sua torre.
Allora ella tremava, prima di chiudere con un gesto deciso le tende.
Ma alla luce del giorno Camelot era più bella; eppure così lontana, tanto che lei non poteva toccarla…

Tesseva e cantava, da così tanto tempo, e ogni tanto gettava un’occhiata allo specchio, dove il suo volto le sorrideva. E subito riprendeva il lavoro, quando un rumore inatteso le giunse da lontano.
Un nitrito forte di un cavallo focoso la distrasse e voci sempre più vicine la fecero sobbalzare sulla sedia. Da tanto non sentiva qualcuno avvicinarsi al suo castello!
La Signora di Shalott si alzò e senza un pensiero in più, si accostò prudentemente alla finestra, spiando la verdeggiante foresta di foglie. Ecco, sempre più vicine venivano le voci… e con un senso di sgomento si accorse che appartenevano a degli uomini. Nascosta dietro una tenda, spiò sul bosco. Quanti erano? Tre… no, due. Non riusciva a vederli ma li sentiva parlare sempre più forte, riusciva a riconoscere le parole…
Un cavallo sbucò fulmineo sul sentiero, e il cuore dalla giovane mancò di un battito. Spavento o meno, si accostò più vicino alla finestra. Un giovane comparve in sella, i capelli biondi che volavano nell’ebbrezza della corsa, le mani che stringevano con decisione le redini e l’armi che mandavano bagliori infuocati quando erano colpite dai raggi del sole. Rideva e cantava allegro un motivetto. Ma bruscamente si fermò, e la Signora di Shalott, tutta spaventata, si domandò se per caso non l’avesse vista. Si nascose dietro il muro e udì da lontano una voce chiamare il giovane.
“Lancillotto… non andare da quella parte!”
Sentì una risata. “Cosa c’è di tanto pauroso, mio Galvano? E’ solo un vecchio maniero.”
“Avanti! Ci aspettano a Camelot…”
Quando la giovane donna decise a guardare, il cavaliere era già sparito e solo l’eco lontano degli zoccoli del suo cavallo si sentiva ancora.

Ella si aggrappò alla tenda, l’attorcigliò tra le mani tremanti pur di non cadere a terra. Sentiva il volto scottare come in preda alla febbre. L’immagine del cavaliere, così come le era apparso appena uscito dal bosco, vigoroso e avvenente sopra il suo cavallo, non la lasciava in pace: lo rivedeva continuamente.
A poco a poco si riprese. Ma non riuscì a pensare ad altro, il lavoro al telaio non la interessava più, anzi lo guardava persino con astio. Si accostò più volte allo specchio, mentre fissava ogni tratto del suo corpo.
Così bella, tanto bella…
Il cuore le rimbombava nella testa come un tamburo, cosicché non riusciva a riflettere. Il suo sguardo cadde sull’arazzo, cadde sulla coppia del cavaliere e della dama, lui così implorante e lei così maestosa.
Una speranza? O una tentazione?
La Signora di Shalott si erse in tutta la sua altezza e mandò a chiamare le sue ancelle. Alla richiesta di preparare cavalli e scorta esse fuggirono impaurite, un comportamento che le procurò un’immensa rabbia e non pochi dubbi.
Ma quando arrivò la balia, trafelata per la corsa, ella era già vestita con il suo abito più bello, i capelli intrecciati con le gemme e un lungo mantello sopra le spalle.
“Parto per Camelot,” disse la Signora di Shalott, e la sfidò con lo sguardo.
La donna lanciò un grido atroce come se fosse in punto di morte, e la giovane si impaurì.
“Mia signora… vi prego ! Non dite questo.. voi non sapete…”
“Cosa? Avanti rispondete: cosa io non so?”
“Non me lo chiedete! Vi prego, farò ogni cosa… ma non chiedete questo, e non andate.”
“Voglio sapere,” replicò la Signora di Shalott, benché un terrore ignoto attanagliasse il suo cuore: una parte di lei non voleva conoscere, ma essendosi spinta tanto avanti, non poteva tornare così vigliaccamente indietro.
La balia tremò, tentennò ma infine cedette.
“Voi siete maledetta, mia signora. Fin dalla nascita. Non potete uscire da questo luogo altrimenti morirete.”
La Signora di Shalott impallidì. Con lucidità dolorosa vide e ricordò e capì: ogni momento della sua vita, anche il più insignificante, ogni parola acquistò senso e si saldò insieme alle altre.
“Chi mi ha maledetto ? Parlate !” gridò.
“E’ stata Morgana la Fata.”
A quel nome la Signora avanzò e con sguardo terribile, stracciò la tela con la dama ed il cavaliere che lei stessa aveva tessuto. Quando alzò lo sguardo allo specchio, vide che esso era rotto per la sua intera lunghezza.
Anche il suo corpo era rotto, anche il suo viso…

La Signora di Shalott scappò via, lasciandosi indietro le grida sempre più acute della balia che straziavano come uncini il suo cuore.
Più andava avanti, più non pensava a dove andare. Eppure proseguiva, senza accennare a fermarsi.
Se si fosse fermata…
Giunse al portone, lo vide spalancato davanti a sé. La luce esterna si riversava in fiotti illuminando l’oscurità umida che regnava all’interno. Ella rallentò, fino a giungere sulla soglia.
Un altro passo, un altro solo. Non riusciva a vedere nulla oltre, poiché la luce l’accecava e la sua vista la tradiva, annebbiandosi per colpa del suo tumulto interiore.
Avrebbe voluto correre indietro, fino a gettarsi tra le braccia della balia, lasciarsi stringere al seno e consolare dalla voce gentile, come quando era piccola ed un rumore o il buio la spaventava e andava a rifugiarsi nel suo abbraccio consolante, caldo, sicuro. Era al riparo tra quelle mura, nulla le avrebbe fatto mai male.
Ritornare al suo telaio, alle sue canzoni… ai suo giochi di bambina…alla sua finestra…
Ma oltre la finestra, c’era Camelot.
Fece un passo, un altro ancora. E quando ricominciò a pensare con lucidità, il sole le riscaldava il volto, la brezza primaverile le arruffava i capelli, l’acqua deliziosamente fresca scorreva tra le sue gambe e le sue mani erano affondate tra manciate di soffice terra.
Per la prima volta la Signora di Shalott pianse.
Quando alzò il volto, da lontano si levò la turrita Camelot; ed era come la stella che guida i viandanti tra le fronde di una foresta immersa nella notte più cupa.
Riprese a correre lungo la strada dove aveva visto sparire il giovane cavaliere. Vedeva ogni cosa con una chiarezza così intensa che ne era impaurita; così splendenti le apparivano gli alberi, le fronde, le foglie ed i fiori, le pietre del sentiero, che ne rimase accecata.
Così luminoso, così vicino… eppure, come mai la sua vista si stava annebbiando? Come mai il mondo si sdoppiava e si oscurava lentamente? E le sue gambe, perché tramavano? Il suo fiato perché le usciva in rantoli affaticati?
Perché tutto scivolava via da lei?
Così vicino…
Nonostante tutto, continuava a correre; nonostante il fiato le mancasse ed il cuore le balzasse in gola, sorrideva. Anche quando inciampò, anche quando cadde e non riuscì più a rialzarsi, la gioia non l’abbandonò.
Fino all’ultimo il suo sguardo rimase fisso su Camelot.

Maggio 2006 c) Laurie
  
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