Titolo: Eternal
Serie: D.Gray-man
Personaggi: Lavi, Allen
Pairing: Lavi x Allen, implicito
Rating: Giallo
Genere: Generale, Drammatico
Avvisi: Alternative Universe, One-Shot
Note: Questa fic non è
necessariamente shounen-ai, ma estremamente puccia, quindi ho messo che il
rapporto Lavi Allen è implicito. Non preoccupatevi se Allen sembra un
moccioso, è fatto apposta XD E’ per il fine della storia, ecco. (non so come ho fatto a resistere, avevo una voglia matta di
farci la yaoi <3)
La fic
è più concentrata più sul contenuto che sulla forma, me ne
rendo conto, ma è questione di atmosfera, e come effetto era voluto.
E
poi…basta. Aww…credo che comincerò a dedicarmi totalmente a
questo genere. Puccio & Angst, che ne dite? <3
Eternal
Aveva il
viso completamente gelato, lo sentiva a malapena sotto il tocco delle dita
altrettanto fredde. Solo l’occhio destro, chiuso e protetto dalla benda
di pelle nera, sembrava aver conservato un minimo di calore.
Nemmeno la
lunga sciarpa rossa che teneva attorno al collo sembrava dargli conforto, come
invece aveva fatto altre volte, lasciando passare l’aria fredda
attraverso i sottili buchi della stoffa fino alla gola, tanto che dovette
schiarirla con un colpo di tosse per non rischiare di perdere la voce.
Faceva freddo, quella sera, e nevicava.
Era
Natale, dopotutto.
La gente
camminava per strada distrattamente, velocemente, stancamente, osservando
vetrine o fermandosi a parlare per strada, lasciando monetine inutili dentro
pentole scure, affiancate da altrettanti Babbo Natale
improvvisati.
Lavi
sospirò, ficcandosi le mani gelate nelle tasche dei pantaloni, cercando
di infilare la punta del naso sotto la sciarpa di lana con il solo movimento
del viso, lanciando intanto occhiate attente attorno a se.
Non aveva
un posto dove andare. Non uno in cui aveva voglia di tornare.
Abitava da
solo in un appartamento piccolo e spoglio, che non riteneva adatto per la notte
di Natale.
Scosse la
testa al pensiero, inspirando profondamente, per poi riprendere a camminare.
Era finito
vicino alla periferia della città. Le luci ad intermittenza erano
più opache, quasi spente, i rumori e i suoni attutiti da un lieve vento
che sembrava non voler arrivare fino a lì.
Ci fu un
urlo, e Lavi guardò dietro di se, lanciando un’occhiata annoiata
ad un gruppo di tre uomini che gridava e rideva, abbracciandosi per sorreggersi
a vicenda. Lì vicino, un bambino li fissava, sorridendo a modo suo da
dietro una mascherina bianca che portava davanti alla bocca.
Tornò
a guardare davanti a se, con una scrollata di spalle, quando qualcuno gli
andò a sbattere contro, urtando la sua spalla con una forza tale che
quasi lo fece cadere a terra.
Riconobbe
distrattamente una testa bianca che continuava ad andare avanti, senza nemmeno
girarsi per chiedere scusa, e il rosso mosse istintivamente una mano.
La strinse
attorno al braccio del ragazzino, trattenendolo.
«Aspetta»
Quello si
girò a guardarlo, puntando i sui occhi chiari, quasi argentati, su di
lui. Attento, impassibile, totalmente preso. Poi seguì con lo sguardo quello
di Lavi, che puntava ai suoi piedi, accigliato.
«…dove
sono le tue scarpe?»
Il
ragazzino scosse piano la testa, senza cambiare espressione. Sembrava curioso,
eppure un po’ diffidente.
«Le
hai perse?»
Le ciocche
bianche ondeggiarono ancora una volta.
«Te
le hanno rubate?»
Si
fermò, poi annuì lentamente.
Lavi lo
lasciò andare, passandosi una mano tra i capelli. «Sai
parlare?»
Sorrise.
Il
ragazzino sorrise, annuendo ancora. Però non rispose, voltandosi un
attimo a fissare delle persone che camminavano poco lontano. Curioso, ancora
una volta.
«...hai
un posto dove andare?»
Scosse la
testa, frettolosamente, corrucciando per la prima volta lo sguardo, come se
l’altro avesse detto un’assurdità.
Lavi
sospirò, ancora una volta, non sapendo che fare. La mezzanotte era
passata da poco, l’unico posto in cui avrebbe potuto portare il ragazzino
era la centrale di polizia distante un paio di isolati.
Fissò
per un attimo gli occhi grandi e limpidi del più piccolo, che sembravano
quasi in attesa.
«Ti
va di venire a casa mia?»
Quello
annuì, stringendosi nella giacca chiara che portava, sorridendo.
Camminavano
da un po’ di tempo ormai, fianco a fianco, senza aver detto una parola.
Ogni tanto Lavi lanciava occhiate preoccupate e perplesse al ragazzino, che
invece si guardava attorno curioso, sembrando
analizzare, osservare, imparare. Un paio di volte era rabbrividito alle folate
di vento più forti, starnutendo un attimo dopo, scuotendo la testa come
un cane bagnato per far tornare i capelli al proprio posto, riprendendo ancora
una volta a guardarsi in giro.
«Tieni»
borbottò il rosso prima di lasciar cadere la sciarpa scura sopra la
testa del più piccolo. Poi si alzò il colletto delle
giacca e tirò su col naso, già sentendo la differenza di
temperatura, rabbrividendo.
«Ci
siamo quasi» disse ad alta voce, più rivolto a se stesso che all’altro.
Che comunque annuì, puntando
lo sguardo su di lui, serio.
«Grazie»
disse.
«Prego»
borbottò Lavi distrattamente. Poi realizzò e si voltò a
guardarlo di scatto, sorpreso. Sorrise, sentendosi stranamente felice –
gli sembrava di aver superato chissà quale enorme prova – ripentendo ancora, con più convinzione, la sua
risposta. «Prego»
Gli porse
una ciotola di ramen appena scaldato, sedendosi poi di fronte, prendendo il
proprio piatto e cominciando a mangiare. Il ragazzino guardò lui, poi il
cibo. Il suo stomaco brontolò e lui prese a saggiare la pasta,
lentamente.
Lavi gli
aveva chiesto il nome, poco prima. Eppure l’altro non aveva voluto
rispondere.
Sapeva
parlare, da quando aveva potuto sentire, non era
questione di comprensione il problema. Non sembrava giapponese, ma dopotutto
neanche lui lo era, e se la cava abbastanza bene con la lingua.
«Mi
dici il tuo nome?» piegò la schiena in avanti a infilare il viso
nella traiettoria degli occhi del ragazzino, che colto alla sprovvista si
ritirò. «Per favore?»
L’altro
non disse nulla, abbassando lo sguardo.
«Non
lo sai?»
«Avevo
un foglietto, prima» rispose facendo spallucce il più piccolo,
ficcandosi poi una mano in tasca, tirando fuori un pezzetto di carta bagnata,
porgendoglielo. Quando il rosso lo prese in mano, riprese a mangiare.
Lavi fece
una smorfia, cercando di decifrare la scrittura. Che poi scrittura non era.
C’erano solo segni confusi e righe, trattini e punti.
Solo una
parola, appena leggibile e dall’inchiostro sbavato, spiccava timidamente
in mezzo a quella confusione.
«…d’accordo.
Allen.» gli
porse nuovamente il foglio, e il ragazzino che aveva appena trovato un nome lo
ripose con noncuranza nella tasca, dove lo aveva preso un attimo prima. Poi
alzò lo sguardo, e sgranò gli occhi, per la
prima volta veramente sorpreso.
«Io
sono Lavi»
Gli stava
tendendo la mano con un sorriso.
«Piacere.»
«…piacere»
rispose l’altro con lieve sorriso spiazzato.
Lavi
sorrise ancora, riprendendo a mangiare stranamente gongolante.
«Allora…»
Il più grande guardò vagamente perplesso il divano rosso che
aveva davanti, poi un angolo del letto che intravedeva poco lontano, nella
propria stanza da letto. « Beh, non credo ci sia molto da
fare…» decretò con un sospiro secco, passandosi una mano tra
i capelli. «Io qui, tu di là.»
Allen
rimase un attimo fermo a fissare a sua volta il piccolo e stretto e scomodo divano
su cui avrebbe dovuto dormire Lavi. Scosse la testa, facendo ondeggiare i
capelli come poco prima. «Starai scomodo.»
«Aw,
no, ti prego» si lagnò l’altro. «E’ un classico:
tu dormi di là, io dormo qui. Non esiste che ti faccio
dormire su questo coso»
«Ma...se
stiamo tutti e due di là starai più largo.» provò a replicare il più piccolo.
«Allen,
davvero.»
«Ma…»
«Aaalleeeen…»
cantilenò il rosso con un sorriso, poggiandogli le mani sulle spalle per
spingerlo verso la stanza. «Buonanotte.»
L’altro
non rispose, ancora corrucciato.
Lavi
sospirò e tornò nella saletta, lasciandosi cadere a peso morto
sul divano con uno sbuffo sconfortato.
«Che
diavolo sto facendo…» borbottò contro un
cuscino prima di sporgere un braccio oltre lo schienale, tastando con le
dita la parete fino a trovare un piccolo interruttore. Lo premette, e tutto si
fece buio.
Dovevano
essere le tre, le quattro.
Comunque
non troppo presto – o tardi – perché era ancora tutto scuro,
troppo buio per poter essere anche solo l’alba.
Sentì
un peso contro la schiena, un calore piacevole, e piano piano aprì
l’occhio sinistro, ancora appannato dal sonno.
Vide un piccola figura alzare le braccia sopra la sua testa,
facendo svolazzare una coperta forse troppo pesante per lui, poggiandogliela
sulle spalle. Poi la sollevò di poco e ci si infilò sotto,
cercando di fare meno movimenti possibili, premendo lentamente le spalle contro
il petto del rosso, raggomitolandosi in quel piccolo spazio che si era creato quando Lavi si era girato sul fianco prima di
addormentarsi.
Quello,
quando si rese conto che la piccola figura non era altri che il ragazzino che
aveva trovato poche ora prima, mugugnò
contrariato.
«Allen…»
Il
più piccolo si fermò, ma non disse niente. Forse sperava che si
riaddormentasse, ma quando la mano stanca dell’altro gli circondò il polso dovette ricredersi.
«Torna
a letto…»
«Vieni
anche tu» bisbigliò lui, trattenendo il respiro per ascoltare la
risposta.
«…hai
paura…?» chiese distrattamente Lavi, strusciando il viso contro il
cuscino, cercando di scacciare via il sonno.
«Fammi
stare qui, allora» continuò il ragazzino, tentando nuovamente di infilarsi
tra le braccia del ragazzo, che troppo stanco e non troppo motivato lo
lasciò fare, muovendosi appena per fargli posto. Poi poggiò la
testa contro lo schienale del divano, sospirando.
Allen fece
lo stesso, contro il suo braccio, stringendosi le ginocchia contro il petto
come poteva. Da quel momento in poi, finalmente, riuscì a dormire.
*
Inarcò
la schiena all’indietro, lasciandosi sfuggire un
mugugnò incontrollato, stanco, e il getto di acqua calda gli fini dritto
sul petto, sulla gola, facendolo rabbrividire per l’improvviso
cambiamento.
Poi la
piegò in avanti, sentendosi scricchiolare pericolosamente alcune ossa, e
l’acqua gli bagnò la testa, i capelli, scivolando lungo la fronte,
la guancia, l’occhio destro e il profilo del viso.
Sospirò,
poggiando le mani contro la parete, quasi spingendo.
Sentì
la porta del bagno aprirsi, con un cigolio fastidioso, e poi richiudersi con
una piccola botta.
«Allen?»
Si
girò appena e lo vide muoversi, come un’ombra scura dietro la
tenda della doccia, e sedersi per terra, vicino all’entrata. «Tutto
bene?»
«Ci
mettevi tanto» si giustificò quello, forse arricciando le labbra e
gonfiando le guance, perché la voce arrivò stranamente soffocata.
Lavi
sorrise, mentre scuoteva la testa, allungando poi una mano oltre la vasca,
serrando le dita attorno ad un asciugamano bianco, su cui spiccava il nero
della benda, per poi portarli entrambi dietro la tenda.
Allen
intanto osservava, accigliato, quei movimenti.
«Non
te la levi mai?»
Un
grattare secco e un po’ cigolante interruppe lo scorrere
dell’acqua. «Solo se devo»
«Posso
vederlo?»
«…perché?»
La tenda fu spostata, lentamente, rivelando l’espressione divertita dal
rosso. «C’è una brutta cicatrice, sai?»
Non
portava la benda. Quella la teneva stretta in una mano, serrata quasi
convulsamente, ma c’era pur sempre un ciuffo di capelli che gli copriva
parte del viso.
«Posso
vederlo?» ripetè il più piccolo, marcando appena la frase
con un tono curioso che non riuscì a nascondere.
«E’
una cosa brutta, bruttissima» insistette invece l’altro, andandogli
vicino, con circospezione.
«Posso
vederlo?»
Lavi rise,
incredulo. Gli si accovacciò di fronte, poggiando un gomito sul
ginocchio per non perdere l’equilibrio, poi si passò una mano tra
i capelli ancora bagnati, rivelando con un sorriso l’occhio destro.
Un
po’ nervoso.
Allen sbattè
le palpebra un paio di volte, forse sorpreso, tendendo
una mano pallida verso la nuova scoperta. Poi la ritirò, come se si
fosse scottato, eppure non l’aveva nemmeno sfiorato.
Fece
invece un sorriso, quasi gongolante anche se un po’ timido, e si
alzò in piedi, seguito un attimo dopo dal più grande.
«Tutto
qui?» chiese sorpreso il rosso, scrollando appena
la testa, e i capelli scesero di nuovo davanti al viso.
«Tutto
qui» confermò il ragazzino, continuando a sorridere.
Lavi corrucciò
lo sguardo, non del tutto convinto, sorpreso da quella strana reazione.
Ma non
riuscì a replicare nient’altro, perché il più
piccolo si voltò e uscì velocemente dalla porta, sparendo in un
attimo.
«Preparo
da mangiare!» lo sentì gridare.
Allen
mangiucchiava concentrato la sua porzione di mitarashi dango da qualcosa come
dieci minuti, fissando davanti a se con pacata indifferenza. Però ogni
tanto lanciava delle occhiate al rosso, seduto davanti a lui, che a mangiare
non ci aveva neanche provato.
«Non
ricordi niente?»
Scosse la
testa, senza alzare lo sguardo. Non si sentiva in colpa, dopotutto non era
colpa sua, ma lo stupore dell’altro lo metteva a disagio.
«Niente
di niente?»
Sembrò
pensarci, lasciando perdere per un attimo l’ultima polpetta, alzando gli
occhi verso il soffitto, forse per immaginarsi o ricordare chissà cosa.
«C’era
un uomo» disse dopo un po’, tornando a mangiare.
«Che
uomo?»
«Non
ricordo» rispose facendo spallucce. «Ma credo mi abbia fatto
questa»
Lavi
arricciò le labbra, seguendo con lo sguardo la mano del ragazzino che si
posava davanti all’occhio sinistro. E vide la sua smorfia, un po’
amara, che gli aveva già visto fare altre volte, proprio
quando si toccava quella sottile cicatrice che gli segnava la parte sinistra
del viso.
«Ti
fa male?»
Allen
scosse la testa, coprendosi anche l’altro occhio con le dita della mano,
sospirando. Fece un grosso respiro, tirando su con il naso
– ma non stava piangendo, sembra più un gesto di stizza
– e quindi tornò a fissare davanti a se, con un sorriso cordiale.
«Vado
a prendere altri mitarashi dango.»
E si
alzò dalla sedia senza attendere una risposta.
*
Il mattino
del giorno dopo, Lavi lo trovò sdraiato sopra di se, con la testa poggiata
sopra il suo petto, mentre le braccia erano raccolte vicino al viso, con le
mani che premevano leggermente contro il mento.
Perplesso,
cercò di riordinare le idee.
Era
convinto di averlo portato di nuovo nel suo letto proprio quella notte.
Sospirò,
cercando di non svegliarlo.
Evidentemente,
Allen era tornato nuovamente da lui e dal suo scomodo divano, ancora una volta.
*
Lavi si
sedette con uno sbuffo sconfortato, sdraiandosi, in pratica, sulla panca di
legno che avrebbe dovuto come minimo ospitare quattro persone.
Un ragazzo
lo raggiunse, pochi minuti dopo, sedendosi dalla parte opposta, scrutandolo con
aria infastidita.
«Niente?»
«Niente»
rispose il rosso, con voce lamentosa, quasi da sotto il tavolo. Poi si
tirò su a sedere, lentamente, sbadigliando. «Nessuno l’ha
visto, nessuno cerca ragazzini con i capelli bianchi e
cicatrici sul viso» si portò una mano davanti alla bocca, poi
lanciò un’occhiata tranquilla al ragazzo che lo osservava ancora
così severamente. «Ne, Yu, non è che mi offriresti qualcosa
da mangiare?»
Kanda non
ebbe neanche il tempo di precisare che lui non era Yu, quando un piatto si posò rumorosamente davanti agli
occhi di Lavi, che alzò subito lo sguardo verso il cameriere che li
aveva appena serviti.
«Ciao
Allen-chan»
«Ciao»
rispose con un sorriso quello.
«Ehi» si intromise il giapponese
«Non è qui come cliente, evita di servirlo senza nemmeno chiedere
il permesso»
«Bla bla
bla»
gli fece il verso il ragazzino, e il rosso scoppiò a ridere, cercando però
di soffocarsi da solo con il cibo quando l’altro ragazzo lo
fulminò con lo sguardo.
Allen fece
la linguaccia e se ne andò, andando a salutare allegramente una coppia
che era appena entrata nella tavola calda.
«Scusalo
Yu, lo sai com’è fatto.»
«Insegnagli
un minimo di decenza, diamine» borbottò seccato Kanda «Dopo
tre mesi un po’ di rispetto avrebbe potuto anche impararlo»
*
La terza
notte dal loro primo incontro, quando lo sentì avvicinarsi furtivamente
verso di lui, infilarsi sotto le coperte e respirare sulla sua spalla, il rosso
gemette, stancamente, circondando con un braccio la vita del più
piccolo, che cercò di protestare, scusandosi, un po’ strepitando,
incolpandolo di non essere un buon padrone di casa. Ma alla fine si arrese,
lasciandosi trasportare come la sera prima nel letto della camera affianco.
Poi Lavi
lo fece scivolare sul materasso, scoprì la coperte,
ci si infilò sotto con lui e riprese a dormire.
*
Erano
passati altri cinque mesi.
Nessuno,
niente.
Allen
sembrava essere apparso dal nulla.
Lavi da
una parte se ne rammaricava, dall’altra sperava di poter restare ancora
un po’ con quel ragazzino che piano piano si stava abituando al mondo che
lo circondava.
Però,
dopotutto, sapeva che alla fine non sarebbe durata.
Nulla
durava.
Si perdeva
nel tempo, nelle parole e nei ricordi.
La storia
continuava, con o senza spettatori.
*
Si era
fermato ancora una volta alla tavola calda, per dare un saluto a Kanda e Allen
– ultimamente sembravano litigare più del solito, forse proprio
perché il più piccolo aveva cominciato a ricordare insulti
abbastanza creativi o azzeccati – ma quando si era seduto al solito tavolo
non aveva trovato nessuno dei due ad accoglierlo.
Aveva però intravisto un uomo, che usciva proprio mentre lui apriva
la porta del locale, che gli sembrò familiare. Quello non si accorse del
suo sguardo accigliato, forse perplesso, e continuò a camminare,
infilandosi una mano infreddolita nella tasca dei pantaloni scuri, mentre si
passava l’altra tra i capelli neri, cercando invano di farli restare su.
Gli sarebbe servito un cappello, forse.
*
Era notte.
Una di
quelle calde e pesanti notti d’agosto che ricordava sempre con una punta
di terrore.
Sentì
Allen muoversi, accanto a lui, scendendo silenziosamente dal letto. Aprì
piano l’occhio, ancora mezzo addormentato, senza capire.
Borbottò
il suo nome, stancamente, tendendo una mano per invitarlo a tornare sotto le
lenzuola sottili, con un gesto delle dita.
Ma quello
sussurrò qualcosa, infilandosi dei pantaloncini buttati per terra, e
sparì oltre la porta.
Ci fu un
rumore, che Lavi riconobbe come quello di uno
sportello che sbatteva, poi una scalpiccio frettoloso di passi e infine quello
secco di un interruttore che si abbassava.
«Ahi…»
si lamentò il rosso, nascondendo il viso dietro un braccio
«Allen…ti odio…»
Quello
fece una mezza risata, salendo nuovamente sul letto, costringendolo a
guardarlo.
«Lavi»
lo chiamò a bassa voce. «Lavi!»
«Che
c’è…sono sveglio…»
Qualcosa
gli premeva insistentemente sulla testa, crepitando ad ogni suo minimo
movimento. «Lavi! Dai, guarda!»
Lavi
aprì l’occhio, di nuovo, arricciando le labbra
stizzito.
Poi si
portò una mano sul capo, ritrovandosi a toccare le mani fredde di Allen
che stringevano qualcosa, della carta. Un pacchetto, forse.
«Mh..?»
Guardò
distrattamente l’orologio digitale posato sul comodino. La mezzanotte era
passata da poco. Scrutò il sorriso del più piccolo e l’involucro
che teneva fra le mani.
«…oh»
Allen
ritirò le mani, torcendosele distrattamente, senza più dire
nulla. Allora il rosso accennò un sorriso, seppur perplesso e un
po’ imbarazzato, mettendosi a sedere a sua volta, incrociando le gambe
per poggiare il regalo tra di esse.
«Vediamo…»
borbottò distrattamente, sotto lo sguardo attendo del ragazzino,
cominciando a scartare il pacchetto.
«…oh»
disse nuovamente. Poi, dopo un attimo di esitazione, riprese a strappare la
carta, facendo più attenzione, cercando con lo sguardo il titolo del vecchio
libro che aveva intravisto, sospirando rassegnato quando
lo riconobbe.
«Allen…»
alzò la testa per guardarlo, sorridendo debolmente «Deve esserti
costato un sacco…»
«Lo
guardavi in libreria» fece spallucce l’altro, rispondendo al
sorriso con uno più entusiasta.
«Ma…»
«Ti
piace?»
Lavi
annuì, ridacchiando. «Lo volevo da mesi»
Allen annuì
a sua volta, sorridendo, poi strinse le dita attorno al bordo delle lenzuola e
si infilò di nuovo sotto, agitandosi un po’ prima di riuscita a
sistemarsi, chiudendo gli occhi e poggiando poi la testa vicino alle gambe
dell’altro.
Che lo
guardò perplesso, senza capire. «Non spegni la luce?»
Il
più piccolo scosse la testa, rimanendo in silenzio.
Lavi
allora guardò il libro, la luce accesa e l’espressione rilassata
del ragazzo.
Sospirò,
sorridendo, e si mise a leggere.
*
«Ho
una voglia matta di vedere com’è vestito Yu» chiocciò
Lavi dopo un po’, rigirandosi tra i denti un dolcetto a forma di zucca
che stava mangiucchiando da qualche minuto.
«Non
credo che uscirà dalle cucine, per questa sera.»
rispose Allen, seduto di fronte a lui, con una
scrollata di spalle. «Ha detto qualcosa riguardo la
dignità, ma non ne sono sicuro. Bah»
Il
più grande ridacchiò, di nuovo, lanciando uno sguardo agli altri
tavoli e ai camerieri, alla ricerca del giapponese. «Da cosa si è
vestito?» chiese con ghignò.
«Non
so.» fece spallucce nuovamente l’altro,
tendendo una mano per prendere una cannuccia caramellata dal piatto del rosso.
«Oooh,
peccato. Vorrei tanto vederlo…ehi
capo!» Lavi si alzò in piedi, sporgendo oltre il tavolo per
attirare l’attenzione del proprietario del locale. «Ci mandi
Yu-chan?»
«Non sono mica un pupazzo,
stupido. Nessuno mi manda da nessuna parte.»
«Oh,
Yu!» esclamò con un sorriso il ragazzo, incontrando lo sguardo
perennemente seccato di Kanda.
«Allora,
cosa vuoi?» il moro brandiva tra le mani un blocchetto e una penna con la
quale prendere appunti, e Allen lo guardò per un attimo con aria
scettica.
«Te.
Resti a farci compagnia?»
Il
giapponese inarcò un sopracciglio. Guardò il sorriso di Lavi, che
andava da un orecchio all’altro, poi guardò l’altro
ragazzino, che aveva preso a succhiare pigramente il suo lecca
lecca, guardando da un’altra parte con aria annoiata.
«Vai
al diavolo, stupido.» Quindi
girò sui tacchi e si allontanò. «Ti porto altra roba»
disse però prima di sparire dietro un gruppo di persone.
Allen
sbuffò, forse ridendo, e si alzò in piedi a sua volta,
sospirando. «Vado anche io» replicò in
risposta allo sguardo accigliato del rosso. Si passò poi le mani sui
pantaloni neri, cercando di distendere le pieghe che si erano formate, passando
poi alla giacca altrettanto scura, prendendo poi tra le mani la tuba che era
posata vicino al piatto dei dolci. Se la mise in testa, con un sospiro,
scuotendo la testa per abituarsi alla sensazione del capello.
«Di’
un po’ Allen-chan» chiese curioso Lavi «Da cos’è
che ti saresti vestito?»
Quello era
già a metà strada, quando si girò, si tolse la tuba e fece
un inchino con un ghigno.«Da cappellaio matto, ovviamente»
Si
allentò la sciarpa che teneva al collo, sospirando pesantemente.
Era appena
uscito dal locale, portandosi appresso una vaschetta piena di caramelle e
cioccolato, dicendo a Yu e di dire ad Allen che lo aspettava fuori. Aveva
davvero troppo caldo, lì dentro.
Si
portò un pezzo di cioccolato alle labbra, pensieroso, tenendolo tra i
denti prima di succhiarlo distrattamente. Alla fine non era riuscito a capire per bene da cosa si era vestito Kanda.
Aveva un cappotto nero con i bottoni d’argento e una spada al fianco, ma
proprio non gli sembrava un costume da Halloween, quello.
Sospirò,
fermandosi un attimo per adocchiare una panchina libera davanti al locale,
raggiungendola lentamente, quasi ciondolando, lasciandosi cadere su di essa con uno sbuffo stanco.
Inclinò
la testa all’indietro, fino a poggiare la nuca contro il freddo legno dello
schienale, chiudendo gli occhi.
Erano
passati dieci mesi dal loro primo incontro.
Quasi un
anno.
Pensò
che in tutto quel tempo Allen non si era ricordato
nulla.
Pensò
– con un sorriso ed uno sbuffo quasi esasperato – che in tutto quel
tempo non avevano smesso di dormire insieme.
E
ultimamente – si disse che era solo il freddo, solo quello – lo
sentiva, la notte, stringersi più forte a lui. Girarsi, in silenzio,
scrutandolo quando lo credeva addormentato – sentiva i suoi occhi fissi
su di lui, come la prima volta che li aveva visti. Attenti, curiosi, totalmente
presi da qualcosa che non riusciva a capire – e rimanere a guardarlo
tutta la notte, finchè lui esasperato non faceva finta di svegliarsi e
si girava dall’altra parte.
Il tempo
stava scadendo.
Lo sentiva
distintamente, con quella fredda consapevolezza che certe volte non poteva far
altro che infastidirlo.
Qualcosa
stava arrivando.
E lui non
sapeva cosa.
Stava
fissando con aria pensierosa e concentrata la porta della tavola calda, in attesa di Allen, quando vide proprio una testolina bianca
sbucare da una gruppo di persone che stavano uscendo in quel momento.
Fece per
alzare una mano per attirare l’attenzione, quando sentì la
panchina vibrare per un attimo, sotto il peso di una corpo
che si lasciava cadere pesantemente affianco a lui, sbuffando lamentosamente.
Nonostante
non fosse un evento così drastico, Lavi
fermò la mano appena in tempo, lanciando un’occhiata furtiva al
tizio che gli si era appena seduto affianco.
Gli
sfuggì un «…oh» totalmente
involontario.
«Amico
tuo?» chiese quello quasi contemporaneamente, indicando Allen –
affiancato da Kanda, che borbottava qualcosa innervosito – con un cenno
del capo.
«Tu…ti
ho già visto, giusto?» chiese invece Lavi con un mezzo sorriso,
voltandosi totalmente verso il giovane che gli sedeva affianco.
Che
arricciò le labbra, senza rispondere, limitandosi a lanciargli
un’occhiata di soppiatto con un sorriso.
«Forse.»
strinse la sigaretta tra le dita guantate ed
espirò il fumo. Lanciò un’occhiata al ragazzino dai capelli
bianchi, poi ancora una al rosso. «Dopotutto…»
*
Gli
premette una mano sulla faccia, stancamente, spingendolo fin quanto gli
permetteva la lunghezza del braccio.
«Allen,
piantala di fissarmi…»
Quello gli
prese la mano tra le proprie, se la strinse al petto senza dire nulla e continuò.
Lavi lo
guardò, scocciato, sospirando un attimo dopo.
«Non
riesco a dormire se mi guardi tutta la
notte…» tentò di spiegare pazientemente. Il ragazzo
sbattè un paio di volte le palpebre, senza però cambiare
espressione, alzandosi poi sulle ginocchia per tornare tra le braccia
dell’altro, che gemette sconfortato.
«Voglio
una vita privata» biascicò lamentosamente Lavi, lasciandolo fare.
Ci fu una
piccola pausa, poi Allen rise.
«Oh,
certo, questo mi conforta molto…»
«Anch’io
voglio una vita privata…» sussurrò il più piccolo,
quasi addormentato, e a nulla valsero i tentativi di Lavi per farlo rispondere.
Fino al mattino dopo, non parlo più.
*
«Di’ a quella stupida
mammoletta di presentarsi a lavoro, altrimenti lo sbattono fuori. E io non ho
nessuna intenzione di coprire i suoi turni!»
«Ma…!»
Kanda
chiuse la chiamata prima che lui potesse replicare,
lasciandolo perplesso e un po’ preoccupato.
Sentì
in lontananza una porta sbattere, un rumore secco di qualcosa che cadeva altri
suoni che non distinse.
Aprì
gli occhi.
Entrambi,
senza riflettere.
Si
alzò in piedi, intontito dal sonno, cercando a tentoni
la benda sul comodino. Non la trovò, e lasciò perdere.
Scrollò un po’ la testa mentre si alzava
in piedi, lasciando cadere un ciuffo rosso davanti al viso.
Sentì
un lieve rumore, ancora, che sembrò quasi distinguere. Camminò a
piedi scalzi, senza far rumore, fino al piccolo salotto.
E lo vide,
lì, sdraiato e svestito sul divano. Gli abiti, gettati su una sedia,
grondavano acqua e odore di pioggia da tutte le parti.
Lavi
serrò un pugno, impercettibilmente. Poi scosse la testa, forse
arrabbiato, andando e tornando dalla camera da letto nel giro di pochi secondi.
Aprì una coperta e la stese sul corpo del ragazzino, che mugugnò
infastidito, prendendolo poi quasi in braccio, non troppo bruscamente,
infilandosi a sua volta sotto la coperta, sul divano.
Allen si
svegliò, continuando a borbottare, ma lui si limitò a
sussurrargli un seccato «Dormi, stupido»
Quello
rimase immobile per un attimo, forse rendendosi conto della situazione, poi si rilassò
alla sua spalla, tornando a respirare regolarmente
Lavi
sospirò, confortato. Almeno era tornato.
Allen
aveva smesso di parlare, di nuovo.
Scuoteva
la testa, sbuffava, sorrideva cordialmente quando gli
chiedeva qualsiasi cosa non riguardasse la precedente notte, ma non emetteva un
solo suono.
Poi Lavi
lasciò perdere, con uno sbuffo seccato e uno sguardo incerto, e il
ragazzo tornò sorridente e normale come prima.
*
Ne era
sicuro: anche Allen se ne rendeva conto.
Il tempo,
stava per scadere.
Ma che
fosse il suo o quello di Allen, non avrebbe saputo dirlo.
*
Lo vide
lì, con la schiena piegata su un foglio di carta, e scarabocchiare
velocemente qualcosa. Gli si avvicinò, curioso, incrociando le mani
dietro la schiena per chinarla in avanti.
«…ah»
si lasciò sfuggire, sorpreso.
Allen si
voltò di scatto, tanto che per poco non gli colpì un braccio.
Strinse il pugno attorno al foglio, accartocciandolo con forza.
«Ma
quello…non è il foglio che…?» Lavi sporse di nuovo il
viso, e riuscì ad intravedere gli stessi segni sbavati dal tempo e dalla pioggia di un anno prima.
Il
più piccolo annuì, lentamente, lasciando andare a poco a poco la
presa sul pezzo di carta. Poi si girò, di nuovo, e riprese a marcare
quegli stessi segni, forse per renderli più leggibili.
Il rosso
lo guardò ancora per un attimo, fissando con occhi pensierosi i capelli
bianchi del ragazzino. Poi li carezzò, distrattamente, e si
allontanò.
Il corpo
teso di Allen si rilassò, e continuò a scrivere.
*
Quella
notte non se ne accorse, ma Allen, seduto a gambe incrociate sul letto, lo
guardò per tutto il tempo.
*
«Allora»
cominciò Lavi con un sorriso, battendosi le mani sulla
gambe per alzarsi in piedi. «Yu-chan dovrebbe arrivare tra
poco!»
Allen
distolse lo sguardo dallo schermo della televisione, impassibile e leggermente
annoiato.
«Perché
deve venire pure quello?» borbottò poi lamentosamente, premendosi
meglio contro lo schienale del divano, fin quasi a lasciarvi un solco con la
propria forma.
«Ma
dai, è Yu-chan! E poi è Natale!» esclamò il rosso,
sorpreso e in fondo divertito.
Il
più piccolo scosse la testa, sbuffando, andando con lo sguardo alla
ricerca di un orologio che potesse dirgli l’ora.
«Sono
le undici» rispose distrattamente per lui Lavi. «Lo chiamo sul
cellulare, guarda. Magari si è pure dimenticato»
E con un
sorriso il ragazzo andò nella camera da letto, chinandosi di poco per
prendere l’apparecchio poggiato sul comodino.
Poi
sentì il rumore di una porta che sbatteva con violenza, e si
sentì gelare.
La stanza
era vuota.
La
televisione accesa, l’albero che oscillava ancora un po’, scosso
probabilmente da una giacca tirata con troppa forza dall’attaccapanni
lì affianco.
Allen non
c’era.
Se avesse
potuto, avrebbe riso.
Istericamente,
senza controllo.
Invece non
poteva, perché non ne aveva il fiato, ne la
possibilità. Aveva appena quasi investito Kanda che saliva le scale,
perché era troppo occupato a correre giù per esse
per poterlo anche soltanto vedere, e
non gliene fregava assolutamente niente.
Quando fu
in strada cominciò a guardasi attorno, ovunque,
girando su se stesso nella speranza di ritrovarselo dietro e sorridente con un
regalo dell’ultimo momento fra le mani.
Era solo
uscito. Un attimo solo, non era una tragedia.
Eppure lo
sapeva, lo sentiva.
Il tempo
era scaduto.
Tic tac, tic tac.
Si
fermò un attimo per riprendere fiato, poggiando i palmi delle mani sulle
ginocchia per non cadere, ansimando e gemendo per il dolore che sentiva al
petto. Sentiva fitte, ad ogni boccata d’aria, che sembravano ucciderlo
ogni volta.
Ma poi
riprese a correre, ignorandole, come ormai faceva da quasi un’ora.
Poi le
riconobbe.
Le luci ad
intermittenza, opache come le ricordava.
Le
macchine, i passanti, i Babbo Natale finti e le
pentole nere.
«Dopotutto
quel ragazzino non è solo tuo»
Lavi si
fermò, all’istante, talmente all’improvviso che per poco non
cadde in avanti.
L’uomo
gli sorrise, impercettibilmente, alzandosi la tuba con
un gesto della mano, a mo’ di saluto.
Si
sentirono delle urla, divertite, delle risate.
«Lui
dov’è»
Fu
lapidario, secco e quasi ringhiante, e la risposta lo fu altrettanto.
«Al
solito posto»
Un
orologio batté le ore.
…dieci,
undici…dodici colpi.
Mezzanotte.
L’uomo
si fece da parte, scuotendo la testa con un sorriso. Alzò un braccio ed
indicò davanti a se, verso un punto imprecisato.
Lavi non
ci pensò neanche. Lanciò un’occhiata ostile all’altro
e riprese a correre, senza voltarsi, in quella direzione.
Si svegliò lentamente, senza rendersene
conto. Si ritrovò a fissare un mondo ricoperto di bianco e luci spente,
in lontananza. Davanti a se, invece, vedeva sottili fili d’erba che gli
solleticavano la guancia, mentre la manciata di neve su cui era rannicchiato
gli bagnava i vestiti.
Provò ad alzarsi, istintivamente, poggiandosi
alla prima fredda pietra che trovò. La fissò, impassibile,
memorizzando inconsciamente i dati di quella persona. Una lapide, una croce
fatta di marmo freddo.
Scosse la testa e tirò su col naso,
rabbrividendo. Incrociò le gambe e si guardò attorno con la
stessa espressione.
Poi, istintivamente, si ficcò una mano in
tasca, e le dita si strinsero senza pensarci attorno ad un pezzetto di carta.
Dei segni, familiari, ed un nome dai colori sbavati.
Corrucciò lo sguardo, poi sentì una
voce, e guardò davanti a se.
Gli si
gettò praticamente addosso, stringendolo con forza al proprio petto,
cadendo su di lui fino a fargli sbattere la schiena contro il terreno gelido.
Ma poi
sentì le sue mani premergli contro lo stomaco, con altrettanta forza,
per spingerlo via. Si lasciò allontanare, sorpreso, sentendo di nuovo quella stessa risata premergli contro.
Lo aveva
trovato.
Dio, lo
aveva trovato.
«Allen,
dove…»
Di nuovo,
si sentì gelare.
Vide la
pallida mano del ragazzino stretta attorno al foglio che gli aveva visto
ricalcare con tanta concentrazione pochi giorni prima.
Vide il suo sguardo curioso, diffidente, come tanto tempo prima.
Fisso su di lui, impassibile e attento.
Si
sentì pizzicare gli occhi.
«Allen…»
Quello
piegò la testa di lato, poi guardò di nuovo il pezzo di carta.
Glielo porse, senza dire nulla.
Lavi
deglutì, aprendo appena la bocca per dire qualcos’altro, senza
sapere bene cosa. Guardò il foglietto, e notò distrattamente
qualcosa che prima non c’era. Non riuscì a capire i segni, come la
prima volta, ma non gli interessava.
Deglutì,
di nuovo, mentre si passava il palmo della mano sul viso, scacciando le lacrime
che chiedevano insistentemente di scendere.
«Hai
un posto dove andare?»
I capelli
bianchi ondeggiarono di nuovo.
Sentì
la propria voce tremare. «Ti va di venire a casa mia?»
Allen
annuì, con un sorriso.
Ogni vigilia di Natale,
a mezzanotte, perderai la memoria.
Ogni cosa, ogni
più piccolo ricordo.
Questo perché
hai fatto qualcosa di sbagliato.
“Sei stato
maledetto.”
Così ti
dirà l’uomo Bianco e Nero, se lo incontrerai di nuovo.
E in basso, all’angolo del
foglietto, altri segni più recenti, come se fossero stati scritti appena
pochi giorni prima.
Segui il ragazzo dai
capelli rossi.
Eternal
The End
Until the next Christmas