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Autore: ornylumi    28/10/2013    2 recensioni
Ai Mangiamorte non erano concesse debolezze, scrupoli, sensi di colpa; un Mangiamorte viveva per la causa e per essa era disposto a morire. Coscienza e morale che non coinvolgessero la causa erano abolite, i ripensamenti puniti con la tortura e l’umiliazione. Era ciò che mi era stato detto il primo giorno in cui avevo preso parte agli incontri, molto prima che il Marchio Nero incidesse per sempre la mia pelle. Che cosa mi aspettavo, dunque? Che sarei riuscito per sempre a restare in seconda linea, lasciando che l’anima già nera di mio fratello si macchiasse con un crimine dopo l’altro? Era sciocco, impensabile, era una follia. Questa volta toccava a me e non mi sarei tirato indietro.
Prima classificata al contest "La guerra magica di EFP" indetto da Moonspell sul forum e portato a termine da Gingerdani.
Prima classificata al contest "Diario di un criminale" indetto da Ginevra285 sul forum.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mangiamorte, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Il prezzo di una vita

 

“Martie Dixon”.

Quel nome, pronunciato dalla sua voce fredda e straordinariamente calma, ebbe l’effetto di un Incantesimo Raggelante scagliato a gran forza su tutti i presenti. Le pareti cupe della stanza sembravano far rimbalzare quel suono, ingigantirlo, come un’eco che ripeteva le stesse parole fino a trasformarle in una nenia sgradevole. Era la tattica preferita dal Signore Oscuro: lasciarci recepire la grandiosità della nostra prossima missione senza comunicarla direttamente, ma girandoci attorno, ottenendo infine l’effetto sorpresa tipico di un nome importante che veniva fuori inaspettatamente.

“Dixon?” Yaxley, seduto a qualche metro di distanza, osò chiedere conferma di ciò che tutti avevamo udito. “Il capo dell’Ufficio Auror?”

“Esatto”. Il Signore Oscuro sorrise e si rilassò sulla sedia, beandosi per qualche altro istante della nostra attesa carica d’ansia. “Mi aspetto che tutti lo conosciate, pur non avendolo incontrato direttamente. È un uomo vecchio e stanco, che ha fatto il suo tempo, ma rimane la figura di riferimento per ogni Auror o aspirante tale. Le sue battaglia contro i Maghi Oscuri hanno segnato la storia, a cominciare da Gellert Grindelwald che proprio a causa di Dixon è stato rallentato nella sua ascesa al potere. Eppure, adesso non è che un’ameba, un funzionario del Ministero che dirige le mosse dei suoi dipendenti al riparo della propria scrivania. L’ombra di un antico uomo d’azione”.

Adesso, le intenzioni del nostro padrone apparivano più chiare. Solo Yaxley sembrava ancora perplesso, e le sue parole successive confermarono la mia impressione: “Ma, mio Signore, permettetemi… Se Dixon è davvero una figura di così poco conto, perché è vostro interesse eliminarlo? Non si tratta di un rischio troppo grande, per noi, rispetto ai benefici possibili?”

Lo sguardo del Signore Oscuro s’indurì, per un attimo pensai che l’avrebbe punito a causa del suo essere piuttosto tardivo. “Non avevo alcuna intenzione di far correre a te questo rischio, puoi stare tranquillo”. A quelle parole, la tensione si allentò e delle risatine si sollevarono da un lato all’altro del tavolo. “Ma, come ho appena detto, Dixon è ancora una figura di riferimento che gode di grande rispetto. Quello che vi chiedo è un’azione simbolica, il coronamento di ciò che è stato fatto sino a oggi. Colpire Martie Dixon significa affossare la sciocche convinzioni di chi ancora crede di poterci fermare, gettare il Ministero nel caos. Voglio che l’intera Inghilterra capisca chi siamo, qual è l’unica scelta sensata da fare. Non vi chiedo semplicemente di ucciderlo, voglio che questa morte passi alla storia”.

Annuimmo stancamente, con la consapevolezza che ogni sua volontà era legge e che nessun nostro dubbio avrebbe potuto fargli cambiare idea. Ciò che restava da fare, ora, era informarsi sui dettagli della missione e sperare di esserne all’altezza. Fu Nott, seduto alla destra del Signore Oscuro, il primo a prendere la parola.

“Mio Signore” esordì, mentre ogni orecchio era teso ad ascoltare, “ciò che dice Yaxley non è del tutto sbagliato. Dixon è sempre all’interno del Ministero, sorvegliato dalla sua squadra di Auror e in particolare dal suo braccio destro, Albert Young. Avvicinarlo in queste condizioni è impossibile, soprattutto in tempi come quelli attuali in cui ogni ingresso al Ministero è strettamente controllato. Sono sicuro che abbiate pensato a una soluzione, ma francamente non riesco a immaginare quale”.

Il suo tono non era polemico o preoccupato, sembrava soltanto curioso. D’altra parte, molto difficilmente una sua intromissione nei piani del Signore Oscuro sarebbe stata vista in modo negativo: Nott era un mago molto abile, rispettato dai più giovani per la sua esperienza e tenuto in gran conto dal nostro stesso padrone. Del resto, faceva parte della prima cerchia di Mangiamorte formatasi poco dopo l’uscita dei ragazzi da Hogwarts, nella quale era presente anche mio padre. Coloro che avevano frequentato la scuola con il Signore Oscuro erano da sempre visti con un occhio di riguardo, forse perché suoi coetanei o forse, come a volte mi sorprendevo a pensare, perché erano a conoscenza di dettagli incresciosi sul suo passato.

Anche quella volta, la reazione del nostro padrone non fece eccezione. Dimostrò di tenere in conto le perplessità di Nott molto più di quanto avesse fatto con Yaxley: “Hai ragione, mio vecchio amico. Tentare di avvicinare Dixon mentre è sotto sorveglianza sarebbe un suicidio, per questo bisognerà agire per gradi. Innanzitutto, sarà necessario creare un diversivo: impegnare un paio di uomini in una missione fittizia che basti a far accorrere gli Auror, lasciando scoperto Dixon. Avevo pensato a un attacco ai danni del Primo Ministro Babbano: qualcosa a basso rischio, ma che faccia rumore”.

Sentii l’intero tavolo ammutolire e cadere, se possibile, in uno stato d’ansia ancora maggiore. Il numero di missioni era improvvisamente salito a due, seppure l’unico scopo finale fosse quello di uccidere il capo Auror. Nessuno ebbe il coraggio di interrompere ancora: eravamo troppo ansiosi di sapere chi avrebbe dovuto partecipare a cosa.

“Non dovrebbe essere difficile avvicinarsi alla residenza del Ministro e spaventare i Babbani presenti. Tutto ciò che dovrete fare è seminare confusione fino all’arrivo degli Auror, trattenerli finché sarà possibile e infine abbandonare il campo. Sembrerà un semplice attacco di fortuna, mirato a causare il maggior numero di danni. Proprio perché si tratta di un compito relativamente semplice, sono sicuro che potrai svolgerlo tu, Nott. Insieme a Lestrange”.

Sia io che mio fratello, seduto alla mia sinistra, sobbalzammo nel sentire il nostro cognome, ma il Signore Oscuro si stava riferendo a nostro padre. Lo vidi alzarsi a capo chino, con la consueta umiltà mescolata al suo orgoglio, e affermare: “Lo farò, mio Signore. Contribuire alla causa è un grande onore per me, in qualsiasi modo io possa farlo”.

Il Signore Oscuro annuì e lo ringraziò, compiaciuto da tanta devozione. Non che mio padre avrebbe potuto rifiutare, naturalmente: un gesto del genere era proibito anche a un vecchio compagno di scuola. In ogni caso, sapevo che era sincero: non c’era niente che gl’importasse di più che contribuire alla causa, ad essa ci aveva istruiti fin da bambini e per essa combattevamo al suo fianco, rischiando persino la vita. Sperava di vedere un mondo finalmente dominato dalla magia, in cui non fossimo più costretti a nasconderci e i Babbani restassero confinati nel posto che spettava loro. Questo era il suo sogno e, col tempo, era diventato anche il mio.

“Naturalmente, so che questo non basterà”. Il Signore Oscuro riprese a parlare, distogliendomi dai miei pensieri. “Una minaccia ai Babbani sarà forse sufficiente ad attirare gli Auror, ma non a richiamare anche l’Ordine della Fenice. Per i fantocci di Silente servirà un altro diversivo, una simulazione più seria e rischiosa che richiederà un maggior numero di uomini. Per fortuna, abbiamo l’occasione servita su un piatto d’argento: domani pomeriggio, Barty Crouch lascerà l’Inghilterra per incontrare alcuni esponenti del governo francese. Data la distanza, non potrà Smaterializzarsi direttamente, e ho motivo di credere che percorrerà in volo il primo tratto di strada. Sarà quella l’occasione giusta per sferrare il nostro attacco, che dovrà avvenire a qualche minuto di distanza dall’altro”.

Seguì una lista di nomi molto più lunga della prima, che mi ricordò curiosamente le interrogazioni scolastiche. La tensione era la stessa, seppure per un motivo di gran lunga più rilevante. Sentii chiamare Dolohov, Karkaroff, Rosier, Avery, Mulciber; la portata della missione era evidente anche da chi avrebbe dovuto prendervi parte, maghi di diversa età ed abilità per fronteggiare ogni possibile pericolo. Quando la lista finì, senza che il mio nome fosse stato pronunciato, non seppi se sentirmi sollevato o preoccupato: non avrei partecipato alla missione più rischiosa, ma nonostante questo avevo addosso una brutta sensazione.

Incredibilmente, uno dei partecipanti alla riunione si mostrò contrariato per non essere stato tirato in causa. Si trattava di Barty Crouch jr., figlio dello stesso Crouch che era stato scelto per il diversivo. Era solo un ragazzo, unitosi a noi da pochi mesi, in rotta con suo padre e che non perdeva occasione per dimostrare l’odio nutrito nei suoi confronti. A braccia conserte ed espressione corrucciata, Barty prese la parola, tentando di trasformare il suo sdegno in una cortese richiesta: “Mio Signore, come mai non mi avete coinvolto nel piano? Conosco mio padre meglio di chiunque altro, saprei qual è il momento migliore per avvicinarlo e quali sono i suoi punti deboli! Vi prego, fatemi partecipare alla missione… Sono pronto a dimostrarvi la mia lealtà e le mie capacità, in quest’occasione più che mai!”

Era una preghiera ridicola, lo sapevamo tutti. Il ragazzo era giovane e inesperto, sicuramente non all’altezza di un incarico ad alto rischio. Crouch era l’incarnazione dell’odio che ancora tanti, troppi esponenti del Ministero provavano nei confronti dei Mangiamorte. La sua reazione sarebbe stata spietata, non avrebbe esitato a difendersi anche con quei mezzi che i membri dell’Ordine aborrivano. E sottrarsi alle Maledizioni Senza Perdono era difficile per chiunque, figurarsi per un giovane senza esperienza.

“Apprezzo tanta intraprendenza, Barty” proseguì, infatti, l’Oscuro Signore, “ma per te avevo in mente qualcosa di diverso. Hai bisogno di assistere ad un’azione vera, non a una semplice copertura. Prenderai parte alla missione decisiva, l’unica con uno scopo concreto. Aiuterai i tuoi compagni ad eliminare Martie Dixon”.

Sul viso di Barty si allargò un sorriso sincero, seppure non entusiasta quanto lo era stato alla prospettiva di affrontare suo padre. “Grazie, mio Signore!” esclamò. “Non vi deluderò!”

A quel punto, le menti di chi ancora non era stato nominato erano tutte concentrate su un’unica domanda: chi sarebbero stati quei compagni? Prima ancora di averne la conferma, sapevo già che si sarebbe trattato di noi.

“Rodolphus e Rabastan”.

Ci alzammo in piedi, a capo chino come nostro padre, attendendo di conoscere i dettagli.

“Entrerete al Ministero al momento opportuno, quando gli altri gruppi saranno nel pieno della battaglia. Rookwood ha già un piano, vi dirà esattamente cosa fare e da tutti sarete visti come dei semplici visitatori. Una volta raggiunto lo studio di Dixon, mi aspetto che la sorveglianza sarà ridotta al minimo: tutto ciò che dovrete fare è completare l’opera. Non occorre che vi dica come, mi affido alla vostra fantasia”.

Il Signore Oscuro ci rivolse un sorriso crudele, il tipico ghigno che pregustava un omicidio. Non era la prima volta che partecipavo a un incarico con quello scopo, avevo visto morire così tante persone da averci fatto l’abitudine. Inoltre, non sembrava particolarmente rischioso: la battaglia contro gli Auror e l’Ordine sarebbe avvenuta altrove, al più avremmo dovuto fronteggiare un paio di uomini presi alla sprovvista. Rookwood, che da tempo era la nostra spia al Ministero, ci avrebbe consentito di entrare senza particolari sotterfugi, probabilmente facendoci assumere l’identità di qualcun altro. Era tutto molto facile, persino troppo; e forse era questo che continuava a rendermi così stranamente nervoso.

Tutto, di quella riunione, si era dimostrato anomalo, fin da quando era stata organizzata. L’Oscuro Signore aveva scelto proprio casa mia, quella che da pochi mesi condividevo con mia moglie, per comunicarci il piano che tutti attendevamo e temevamo. Eravamo stati fermi per molto tempo, tanto da potermi concedere una piacevole luna di miele e dimenticare, almeno momentaneamente, che ogni giorno rischiavo la morte o la galera. Il mondo magico era nel caos e la nostra influenza più forte che mai, ma proprio per questo ci aspettavamo da un momento all’altro un’azione decisiva. Se questa fosse andata a buon fine, il prossimo obiettivo sarebbe stato il Ministero stesso e, a quel punto, era molto probabile che cadesse davvero nelle nostre mani. La prospettiva mi rendeva euforico e preoccupato al tempo stesso, appoggiavo in pieno le volontà del nostro Signore ma ancora non mi spiegavo perché avesse scelto me. Non ero uno dei suoi favoriti, non raggiungevo neppure le capacità di mia moglie, eppure tutto era avvenuto nella nostra casa, come per annunciarmi che il mio ruolo sarebbe stato decisivo. Anche più tardi, mentre la discussione terminava e i miei compagni si congedavano, non mi liberai di quella sensazione.

“Rodolphus”.

Chiamò il mio nome quando eravamo ormai quasi soli, fece segno di volermi parlare. Mio padre, prima di lasciare la stanza, mi rivolse un sorriso incoraggiante: lui sapeva. Era già a conoscenza di ciò che mi aspettava, ma questo non bastò a tranquillizzarmi. Per quanto i nostri ideali si assomigliassero, avevamo ancora opinioni diverse su ciò che fosse giusto sacrificare in nome della causa. Ed io, ancora giovane e rintanato nel mio ruolo di Mangiamorte secondario, non mi sentivo pronto a uscire dal bozzolo.

*

“Sei stato molto gentile ad ospitarci nella tua nuova casa, Rodolphus”.

Percorreva la stanza osservando ogni quadro e suppellettile, apparentemente interessato al modo in cui l’avevo arredata. Era la casa di un Purosangue e ne andavo molto fiero, ma non credevo che tutto ciò fosse d’interesse per il Signore Oscuro; stava, ancora una volta, girando attorno al vero motivo per cui ero stato trattenuto. Mi sforzai di restare calmo.

“Onorato, mio Signore” gli risposi, dissimulando ogni emozione. “Sono felice che l’apprezziate”.

“Tuo padre ha sempre avuto stile per queste cose, rendeva più vivibile persino la stanza del dormitorio. Non dubitavo che avessi preso da lui, in questo come in altro”. Mi sorrise mellifluo, sottintendendo qualcosa che non capii. Mi limitai a sorridergli anch’io e attesi che continuasse.

“Ti sei dimostrato un ottimo mago finora, Rodolphus. Hai imparato in fretta e non hai mai mostrato cedimenti, neppure nelle prove più sgradevoli. Perciò, d’un tratto mi sono reso conto di essere stato io a sbagliare, con te. Non ti ho dato l’attenzione che avresti meritato, affidando a tuo fratello gli incarichi principali. In effetti, sono caduto nello stesso errore di tuo padre”.

Aveva colpito nel punto più sensibile e l’aveva fatto tremendamente bene. Erano anni, praticamente da tutta la vita, che mio padre preferiva Rabastan a me. Fin da quando eravamo bambini, il temperamento attivo e in qualche modo crudele di mio fratello gliel’aveva fatto percepire come il figlio più simile a sé, al contrario del debole primogenito. Avevo cercato in tutti i modi le attenzioni di mio padre, ero riuscito a rafforzare il mio carattere fino a farmi apprezzare da lui, ma mai mi ero sentito amato quanto Rabastan. Gli anni avevano ricucito quest’antica ferita, ma quando qualcuno la riportava a galla sembrava riprendere a sanguinare. Al Signore Oscuro, abituato a conoscere ogni punto debole dei suoi collaboratori, tutto ciò non poteva essere sfuggito.

“Per questo” continuò, distogliendomi dall’amarezza, “ho deciso di affidare a te questa missione. Voglio darti l’onore che meriti, la possibilità di dimostrare quanto vali. Non sarei l’unico ad apprezzarlo”.

Si stava riferendo ancora a mio padre, questa volta era chiaro. Mi spingeva ad eseguire il lavoro con la promessa che anche lui sarebbe stato orgoglioso di me. Ma, allora, perché l’incarico era stato affidato anche a Barty e Rabastan?

“Ve ne sono grato, mio Signore” dissi, cercando di apparire sincero, “e farò del mio meglio per portarla a termine. Ma se il vostro scopo era questo, come mai mi avete affiancato Barty e mio fratello?”

L’Oscuro Signore scosse la testa, ridendo sommessamente. Dopo tutti gli elogi che mi aveva fatto, sembrava prendersi gioco di me. La cosa non mi piacque affatto.

“Per quanto tu sia abile, e lo sei, pretendere di riuscire in quest’impresa da solo è fin troppo ambizioso, non me lo aspetterei neppure dal mio collaboratore più esperto. Tuttavia, il ruolo dei tuoi compagni sarà solo marginale: Crouch dovrà imparare qualcosa da voi, Rabastan dovrà darti la forza giusta per finire il lavoro. Perché quello che voglio, Rodolphus, è che sia tu a finirlo”.

Finalmente compresi. Era quello il motivo per cui mi aveva affidato la missione, quella la ragione delle sue accattivanti promesse. Restare nell’ombra, essere l’eterno secondo, aveva smesso di dare i suoi frutti. Il Signore Oscuro si era accorto del mio essere allergico ai ruoli centrali, così aveva deciso che le cose dovevano cambiare. Era certamente un’imposizione, mirata a capire quanto poteva fidarsi di me e quanto io fossi disposto a rischiare per la causa. Tuttavia, era stato abbastanza in gamba da non presentarla come tale: tirando in ballo mio padre e la mia voglia di compiacerlo, uccidere personalmente Dixon diventava un’opportunità più per me che per lui. Era un uomo diabolico, l’avevo sempre saputo e in quel momento lo stimai ancora di più, sebbene le sue astute manovre stessero ricadendo su di me.

“Sai, ho come l’impressione che la parola ‘fine’ non ti piaccia. Sei un ottimo combattente e non hai mai avuto scrupoli quando si trattava di difenderti, ma nell’attacco decisivo ti dimostri carente. Cos’è, ti senti troppo sensibile per uccidere? Credi forse di essere meno colpevole, quando una vittima non cade per mano tua?”

Il tono conciliante stonava con quello che percepivo tra le righe, un’accusa non troppo velata sui miei comportamenti. Ai Mangiamorte non erano concesse debolezze, scrupoli, sensi di colpa; un Mangiamorte viveva per la causa e per essa era disposto a morire. Coscienza e morale che non coinvolgessero la causa erano abolite, i ripensamenti puniti con la tortura e l’umiliazione. Era ciò che mi era stato detto il primo giorno in cui avevo preso parte agli incontri, molto prima che il Marchio Nero incidesse per sempre la mia pelle. Che cosa mi aspettavo, dunque? Che sarei riuscito per sempre a restare in seconda linea, lasciando che l’anima già nera di mio fratello si macchiasse con un crimine dopo l’altro? Era sciocco, impensabile, era una follia. Questa volta toccava a me e non mi sarei tirato indietro.

“Certo che no, mio Signore” gli risposi, ostentando sicurezza. “Fino a oggi non ho avuto occasione di terminare un lavoro, ma ciò non significa che non voglia o che non ne sia in grado. Farò come desiderate, dimostrerò il mio valore. La vita di Dixon non è che un ostacolo alla nostra grandezza: non avrò problemi a mettervi fine”.

L’Oscuro Signore tornò a fissarmi benevolo, segno che la mia dichiarazione l’aveva convinto. Avevo promesso di uccidere Dixon e l’avrei fatto, qualsiasi cosa fosse accaduta alla mia anima. Della sua vita m’importava poco o niente, era un vecchio mago che non avrebbe lasciato neppure una famiglia a rimpiangerlo. Eppure, quando tornai a guardare le pareti della stanza dopo la fine di quell’incontro, fui pervaso da uno strano senso di soffocamento; e dall’oscura premonizione che niente, da quel momento, sarebbe rimasto lo stesso.

*

Ci appostammo in un vecchio magazzino abbandonato nei pressi del Ministero, attendendo le istruzioni di Rookwood. A pochi metri da noi, i corpi esanimi di Jack e Carlus Steeval venivano privati dei loro vestiti, che avremmo utilizzato per introdurci nel Ministero sotto falso nome. Si trattava di due rappresentanti della magia inglese all’estero, che tornavano a riferire notizie nel paese d’origine solo una o due volte l’anno. I loro visi erano praticamente sconosciuti ai più, ragion per cui sarebbe stato fin troppo facile farsi passare per loro e agire indisturbati. Il piano era definito nei minimi dettagli e con pochissime probabilità di fallimento, come il Signore Oscuro ci aveva garantito; tuttavia, ciò non riusciva a tranquillizzarmi come avrebbe dovuto. Per quanto tentassi di scacciare quel pensiero, sapevo che non era un eventuale imprevisto a preoccuparmi, ma la possibilità che tutto andasse secondo i piani e che dovessi tener fede alla parola data.

“Tutto bene, fratello?” Rabastan aveva notato che ero più silenzioso del solito, ma non poteva immaginare il motivo. Gli avevo volontariamente taciuto di quella conversazione tra il Signore Oscuro e me, consapevole che parlargliene prima del tempo avrebbe soltanto peggiorato il mio umore.

“Tutto bene” mentii, invidiando la sua infallibile spavalderia. Vicino a noi, Barty continuava a spogliare i due corpi con più foga del necessario, come se stesse pregustando di fare la stessa cosa a suo padre. A volte, il suo odio così profondo mi atterriva: non ne avevo mai provato per nessuno, meno che mai sarei riuscito a nutrirne per un familiare.

“Ancora non capisco perché ce lo siamo dovuti portare dietro” sussurrai a Rabastan, per cambiare argomento e distrarmi. “È un incapace, ci causerà più guai di quanto possa aiutarci”.

“Non è molto esperto, ma ha carattere” mi rispose lui, osservando con approvazione i gesti frenetici del ragazzo. Al contrario di me, Rabastan sembrava essere piuttosto in sintonia con i tipi come Barty. “E inoltre, è l’unico che possa entrare al Ministero a viso scoperto senza destare sospetti. Rookwood ha trovato un’ottima copertura per noi due, ma per un terzo sarebbe stato difficile. A proposito di terzi…” aggiunse, con un sorrisetto che non mi piacque affatto, “Come mai tua moglie non partecipa alla missione?”

Non aveva torto a porsi quella domanda. Me l’ero chiesto anch’io, prima di scoprire che a Bellatrix era stato affidato un quarto incarico di assoluta segretezza. Non aveva voluto parlarne neppure con me, ma da qualche frase colta qua e là avevo intuito che c’entrasse la nostra camera blindata alla Gringott. Qualunque cosa il Signore Oscuro volesse riporre o recuperare da lì, doveva essere fatto lontano da occhi indiscreti. Non avrebbe scelto, altrimenti, proprio il giorno in cui tutti eravamo impegnati in qualcos’altro.

“Ha ricevuto un incarico” minimizzai, senza alcuna intenzione di approfondire l’argomento.

“Un altro?” proseguì Rabastan, persistendo con quel sorriso malizioso. “Da sola?”

“Non conosco i dettagli” tagliai corto, con la speranza che smettesse di tormentarmi. La troppa intimità che legava Bella al Signore Oscuro era diventato argomento quotidiano tra di noi, con grande gioia di Rab e gran supplizio per me. Non avevo voglia di discuterne ancora, in quel momento meno che mai.

“E Lucius?” lo incalzai, ripagandolo con la stessa moneta. “Anche lui avrà avuto un altro incarico, o sarà troppo preso dai suoi progetti matrimoniali per partecipare?”

L’espressione di Rabastan si rabbuiò immediatamente, segno che avevo colpito nel punto giusto. Non aveva mai sopportato Malfoy, soprattutto da quando era stato annunciato il suo matrimonio con Narcissa.

“Il damerino è impegnato in altro, non lo sai?” replicò, infatti, carico d’amarezza. “Deve farsi notare ai piani alti, lui. Non può sporcare il suo bel faccino con le missioni sul campo. Vuole fare carriera al Ministero e, per riuscirci, è esonerato dall’azione. Vita facile, la sua”.

Assestò un altro colpo di bacchetta ai due uomini che aveva già ucciso, così, per sfogarsi. Ragionevolmente, gli ricordai che gli scopi di Lucius erano anche quelli del Signore Oscuro stesso, che altrimenti non gli avrebbe mai concesso un ‘esonero’. In ogni caso, Rabastan sbuffò e smise di parlare, se non per lanciare di tanto in tanto un impropero contro Malfoy. Barty ci raggiunse con i vestiti finalmente pronti all’uso, che infilammo in silenzio, e con le bacchette che erano appartenute agli Steeval. Un attimo dopo, sentimmo un lungo fischio provenire dalla strada. Era il segnale di Rookwood: dovevamo procedere.

*

L’ingresso del Ministero della Magia mi apparve ancora più grande e luminoso di come lo ricordassi, dalle poche volte in cui, da bambino, ero stato portato lì da mio padre in occasione di un processo o di un incontro ufficiale. Forse, l’impressione era data dalla carenza di maghi e streghe che si accodavano dietro i camini e gli ascensori, allo scopo di svolgere le ultime mansioni o più probabilmente di tornare a casa. Un tale stato di abbandono non era dovuto solo all’ora tarda, ne ero certo: negli ultimi tempi, sempre un maggior numero di persone si rifiutava di recarsi a lavoro per non lasciare la famiglia, nel timore che qualcosa di terribile potesse accadere ai loro parenti Babbani o Mezzosangue. L’influenza che avevamo su quelle vite era forte e palpabile, l’idea che il mio gruppo d’appartenenza riuscisse a imporsi senza neppure mostrare il suo volto mi riempì d’orgoglio. Eppure, sotto i riflessi dorati della fontana dei Magici Fratelli, erano ancora in bella vista decine di zellini e falci d’argento, gettati lì per essere affidati a chissà quale speranza. Era il segno della resistenza, di coloro che si rifiutavano di vedere la realtà e combattevano per un ideale senza radici. Di quelle persone, come un tempo era stata mia madre, convinte che la fede fosse l’unica strada da seguire, anche quando l’evidenza metteva in luce tutte le sue carenze. Era su concetti come questi che i cosiddetti ‘giusti’ costruivano le loro convinzioni: fede, uguaglianza, amore. Parole grandi quanto vuote, che rapportate alla realtà della vita cadevano in pezzi come uno specchio infranto. Nonostante l’impegno che noi Mangiamorte avevamo messo nel frantumare le loro illusioni, c’era ancora chi non riconosceva la via migliore e pretendeva di discostarsene. A capo di questo pensiero c’era Martie Dixon, filobabbano dalla nascita, e tutti i maghi indegni di tal nome di cui si era circondato. Stringendo i pugni e sentendo la rabbia che ribolliva, seppi di star facendo la cosa giusta.

Ci avvicinammo al banco della sorveglianza, dove un mago basso e dall’aria furba ci invitò a presentarci e consegnare le bacchette. Non appena fummo davanti alla scrivania, un lampo di luce violacea mi balenò negli occhi e percorse il mio corpo per l’intera lunghezza, dissolvendosi infine sul pavimento. Rabastan, accigliato quanto me, mi lanciò uno sguardo d’intesa: doveva trattarsi del Magiscanner anti-intrusi a cui Rookwood ci aveva preparati, in grado di smascherare ogni camuffamento magico. Era un’accortezza introdotta negli ultimi tempi, da quando gli uomini del Ministero avevano imparato a non fidarsi di nessuno, e che avrebbe reso inutile qualsiasi tentativo di nascondere il nostro vero volto. Fortunatamente, mai nessuno aveva associato quegli uomini che combattevano dietro una maschera al nome dei Lestrange.

Il mago doveva essere stato informato della visita degli Steeval, perché non fece domande. Una volta soppesate le bacchette e averle ritenute conformi alle aspettative, ce le restituì senza tante cerimonie. Mio malgrado, tirai un sospiro di sollievo nel constatare che tutto stesse andando secondo i piani.

“Barty è sparito” osservò Rabastan, mentre mi affiancavo a lui accanto a uno degli ascensori. C’era di nuovo amarezza nella sua voce.

“Lui non ha bisogno di presentarsi alla sorveglianza. Sarà andato in avanscoperta prima di noi, conosce questo posto come le sue tasche”. Non sapevo perché lo stessi difendendo, dal momento che non incontrava le mie simpatie. Forse perché, a fronte di tutti i suoi difetti, lo ritenevo umanamente incapace di abbandonare nel mezzo la sua prima missione.

“Forse hai ragione” replicò Rabastan, apparentemente convinto dalla mia teoria. “Ha fegato il ragazzo, abbastanza da non filarsela così presto. Vedremo cosa farà davanti al nostro obiettivo”.

Temevo, per non dire che ne ero convinto, che Barty sarebbe riuscito a uccidere Dixon con molto più sangue freddo di quanto avrei saputo fare io. Ma anche questa, come molte altre considerazioni, restava nota solo al mio animo e ben celata al suo interno. Davanti a noi, intanto, i cancelli dorati sussultarono e si spalancarono di botto, rendendo più concreto il rischio che ci aspettava.

*

Secondo Livello, Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, comprendente l'Ufficio per l'Uso Improprio delle Arti Magiche, il Quartier Generale degli Auror e i Servizi Amministrativi Wizengamot.

La voce fredda annunciò il nostro piano dopo un tempo incredibilmente breve. Nessun altro era salito con me e Rabastan in ascensore, ad eccezione di una strega anziana che ci aveva lasciati già al Settimo Livello. Era un bene che venissimo visti da un numero esiguo di persone: quando i corpi dei veri Steeval fossero stati ritrovati, sarebbe stato chiaro che noi due avevamo preso il loro posto e che eravamo i responsabili dell’omicidio. I nostri volti erano sconosciuti al Ministero e assenti dagli schedari dei ricercati, ma, se qualcuno fosse stato in grado di descriverci, il pericolo di venire individuati sarebbe aumentato. Fortunatamente, in un luogo di lavoro dove si incontravano decine di persone ogni giorno, era difficile ricordarsi di un tipo qualunque intravisto pochi istanti in ascensore.

Il vero pericolo ci aspettava al Secondo Livello, dietro la porta in quercia del Quartier Generale. Non sapevamo quanti Auror fossero ancora lì, se i due piani del depistaggio fossero stati messi in atto e da quanto tempo andassero avanti. Rabastan, silenzioso come una tigre, si avvicinò ai due battenti con aria circospetta ed io lo seguii, avvertendo nel corridoio un innaturale senso di vuoto. Quando un primo spiraglio si aprì, permettendomi di guardare all’interno, mi sentii come un coniglio che spiava nella tana del lupo.

Il cuore, dopo un’accelerazione vorticosa, tornò al suo ritmo originario quando scoprii cosa ci attendeva dall’altra parte: un openspace grande e vuoto, separato da pannelli divisori e dotato di un’altra porta sullo sfondo. L’unico occupante di quella stanza era un ragazzo giovane e mingherlino, tanto impegnato a scrivere su un foglio di pergamena da non essersi accorto della nostra presenza. Aveva decorato il suo cubicolo con l’immagine di una donna in costume e un poster dei Cannoni di Chudley, il che la diceva lunga sul tipo di mago che ci trovavamo a fronteggiare. Persino l’Ufficio Auror stava decadendo, arrivando ad assumere giovani pieni di sogni e così privi di criterio da non notare che due Mangiamorte gli stavano dietro le spalle. Mi scambiai un’occhiata con Rabastan, poi, insieme, ci avvicinammo al mago. Mio fratello, tentando di assumere un tono disinvolto, gli domandò: “Dove sono tutti gli altri?”

Il ragazzo trasalì, balzando in piedi come un cagnolino abituato a ricevere ordini. Senza chiedere chi fossimo o perché gli stessimo facendo quella domanda, spiegò: “Ma come, non lo sapete? C’è stato un attacco al Primo Ministro Babbano e poi un altro ai danni del signor Crouch! Sono rimasto solo io a fare da presidio… Sapete, sono un apprendista, e così…”

Non mi sfuggì che il lato destro delle labbra di Rabastan si era lievemente sollevato, forse per aver saputo che gli attacchi erano andati a buon fine o per l’evidente ingenuità di quel ragazzo. Purtroppo, lo notò anche lui, che abbandonando la sua aria svagata e aggrottando le sopracciglia si decise a chiedere: “Voi due chi siete?”

Rabastan picchiettò con l’indice il cartellino che aveva sul petto, mostrando al mago la sua identità fasulla. Quello non diede segno di aver compreso, così io aggiunsi: “Jack e Carlus Steeval, della Cooperazione Internazionale Magica”.

“Oh, certo! Ma allora avete sbagliato piano, il vostro ufficio è al Quinto Livello. Venite, vi accompagno”.

Un altro colpo di fortuna. Il giovane, senza essersi affatto insospettito per quella domanda sugli Auror estranea alle nostre competenze, ci stava mostrando la strada per gli ascensori precedendoci di qualche passo. Rabastan sollevò la bacchetta quasi annoiato, un fiotto di luce rossa scaturì da essa e colpì in pieno il ragazzo allampanato, sbalzandolo in aria per alcuni metri. Il suo corpo privo di sensi si accasciò contro la parete, ma non fece alcun rumore: furbescamente, Rabastan aveva aggiunto una Componente Insonorizzante al proprio Schiantesimo, così da non attirare l’attenzione degli altri uffici.

“Cannoni di Chudley, puah!” commentò, osservando la sua giovane vittima con palese disgusto. “Meriterebbe di morire anche solo per questo!”

“Sì, ma non è il caso di perdere tempo con lui. Dixon è sicuramente dietro quella porta”.

Accennai con la testa all’altro ufficio che avevo intravisto, quello in fondo all’openspace. Non avevo dubbi che un capo come lui preferisse stare costantemente vicino ai suoi dipendenti, almeno nel lavoro di tutti i giorni. Rabastan fece un cenno d’assenso e accelerammo il passo verso quella porta, bacchette alla mano. Colpire quel giovane apprendista identificava automaticamente i due Steeval come pericolosi impostori, per cui continuare a fingerci loro era inutile: senza neppure esserci messi d’accordo, sia io che Rabastan ci liberammo di quel travestimento e indossammo, con la magia, le nostre usuali tuniche nere complete di maschera. Rivestire i panni del Mangiamorte mi regalò quella scarica di adrenalina che solo una missione al suo culmine riusciva a darmi. La preoccupazione per ciò che mi attendeva non mi aveva lasciato del tutto, ma l’avevo relegata in un angolo della mente.

Non c’era più tempo per la prudenza, né per la cortesia: Rabastan non bussò alla porta, non scostò i battenti delicatamente, ma la spalancò di colpo senza trovare ostacoli. Ciò che si presentò ai nostri occhi fu uno spettacolo incredibile, che riuscì a lasciarci di stucco per quanto tutto si stesse rivelando facile.

Martie Dixon era lì, solo, dietro la sua scrivania. Guardava fuori dalla finestra incantata, dove un cielo sereno passava gradualmente dall’azzurro al rosso cupo del tramonto. Era sorridente e tranquillo: il nostro assalto non l’aveva minimamente sfiorato, come se accadesse quotidianamente che due uomini mascherati penetrassero nel suo ufficio in quel modo. Lentamente, con tutta la calma del mondo, si voltò a guardarci: incontrai i suoi occhi celesti mentre gli tenevo la bacchetta puntata addosso e, prima ancora di osservargli le mani, capii di star minacciando un uomo disarmato.

Aveva un viso tondo e gioviale, pochi capelli bianchi sulla testa e un paio d’occhiali rotondi. Ricordai bene come l’Oscuro Signore l’aveva definito: l’ombra di un antico uomo d’azione. In effetti, poco o nulla del suo aspetto faceva pensare a lui come una minaccia, come un mago che in passato aveva affrontato e sconfitto innumerevoli nemici. Adesso, tutto quello che vedevo dietro la scrivania era un vecchio prossimo alla pensione, incapace persino di difendersi, seppure i suoi occhi brillassero ancora di straordinaria intelligenza.

“Siete arrivati, alla fine” commentò, come se ci avesse aspettati per lungo tempo. “Avrei dovuto capire che il giorno esatto era oggi, come Albert mi aveva suggerito. Gli altri attacchi non erano che un diversivo, non è vero? Ero io il vostro obiettivo. Un piano davvero notevole”.

“Bravo, nonno, ci sei arrivato. Peccato che adesso sia troppo tardi”. Era stato Rabastan a parlare: io avevo la gola secca, quel tarlo che avevo nascosto in un angolo stava di nuovo tormentandomi.

“Non ho nipoti, ragazzo, spiacente” replicò Dixon, senza scomporsi. “E, se anche se li avessi, sono certo che non ti assomiglierebbero affatto. In ogni caso, non sono stato io a formulare questa teoria: un tempo, forse, ce l’avrei anche fatta, ma gli anni hanno intaccato la mia capacità di ragionare. È stato uno dei miei collaboratori, uno dei ragazzi più in gamba che abbiamo qui. Oh, avrei dovuto dargli ascolto, accettare il suo aiuto… E invece l’ho lasciato andare in soccorso di Crouch. Prevedo tempi duri, per voi Mangiamorte. Potrete sbarazzarvi di me, ma uomini come Albert saranno la vostra rovina. La fede è tutto ciò che il vostro padrone non comprende, tutto ciò che ci porterà alla vittoria”.

La rabbia sostituì tutta l’ansia che avevo accumulato quando sentii di nuovo quella parola: fede. Ancora adesso, anche mentre stava per morire, il capo degli Auror era convinto che crederci bastasse per avere successo. Cosa diavolo aveva nel cervello? E, soprattutto, perché sul suo volto non c’era traccia di paura?

“Molto strano, vecchio” disse ancora Rabastan, puntando la bacchetta direttamente al suo cuore, “perché a me sembra che sia tu quello che sta per andare in rovina. Fossi in te, non sprecherei le mie ultime parole con pronostici che non si avvereranno mai. Guarda la realtà, piuttosto: noi abbiamo vinto. Siamo entrati qui senza nessun impedimento e adesso ti uccideremo. Il mondo magico è nelle nostre mani e, dopo oggi, tutti lo sapranno”.

“Le vostre?” Dixon aveva ancora il sorriso stampato in faccia, sebbene adesso fosse stranamente derisorio. “Ho pena per te, se ci credi davvero. Siete solo dei bambini invischiati in un gioco più grande di voi. Vi credete forti, potenti, ma agite come marionette mosse dall’unico mago veramente in gamba. Un giorno, vi accorgerete di aver dato la vostra fedeltà e aver riposto le vostre speranze in chi le ha solo sfruttate, ma sarà troppo tardi. Vedrete i vostri sogni sgretolarsi momento dopo momento, senza poter far nulla. Al contrario del vostro padrone, io non temo la morte, perché credo in qualcosa di più grande. Il coraggio e la fede ci salveranno, ma non importa se io non vedrò quel giorno: lo vedranno i miei ragazzi”.

Non potevo scorgere l’espressione di mio fratello sotto la sua maschera, ma ero certo che fosse identica alla mia. Le parole di Dixon erano taglienti come poche, soprattutto perché le pronunciava senza livore e con fiducia autentica. Vidi la bacchetta di Rabastan muoversi impercettibilmente tra le sue dita e seppi che, se non l’avessi fermato in tempo, avrebbe agito.

“Basta con queste idiozie” disse, infatti, un attimo dopo. “Facciamola finita”.

“No”.

Si voltò verso di me inebetito, riuscivo a leggere lo stupore anche solo nelle sue pupille. Prima che potesse pensare a un tentativo di difendere il vecchio, mi affrettai ad aggiungere: “Devo farlo io”.

Devo. Perché avevo usato quella parola? Avrei dovuto dire ‘voglio’, così da non insospettire Rabastan ed essere costretto a dargli spiegazioni. Per il momento, comunque, esse furono rimandate: mio fratello acconsentì alla richiesta e abbassò la bacchetta, facendosi da parte. Mi spostai al centro della stanza, direttamente davanti a Dixon, e puntai l’arma al suo petto. Avrei dovuto pronunciare solo una formula che conoscevo benissimo e tutto sarebbe finito. Facile, veloce, indolore. Che cosa aspettavo?

“Aspetta”.

Quella richiesta mi mandò su tutte le furie, giunta proprio nel momento in cui cercavo di chiudere i conti. Eppure, rabbia a parte, fui così sciocco da lasciarlo parlare.

“Tu non sei come il tuo amico, non è vero? Sei rimasto in silenzio tutto questo tempo, forse la tua anima è ancora pura. Realizza l’ultimo desiderio di un povero vecchio: mostrami il tuo volto”.

Era una richiesta assurda, non c’era neanche da starci a pensare. L’uomo sarebbe morto, senza dubbio, ma mostrare il mio viso in quella circostanza poteva rivelarsi pericoloso.

“Perché?” gli domandai, sinceramente incuriosito. “Che cosa cambierebbe?”

“Nulla, in effetti” mi disse lui, laconico. “Ma voglio guardare negli occhi l’uomo che mi ucciderà”.

A pensarci bene, avrei potuto accettare e farla finita, risparmiando il tempo che stavo perdendo con quella conversazione. Forse, se avessi tolto la maschera giusto il tempo di pronunciare l’incantesimo, nessuno avrebbe potuto vedermi… Rabastan, al mio fianco, mi diceva di rifiutare. Avrei potuto farlo, ma la mia mano e la mia magia si rifiutavano di collaborare. Senza una vera ragione, come forse un Mangiamorte non avrebbe mai fatto, accettai: tolsi la maschera, così che Dixon potesse guardarmi negli occhi. Sorrise, vedendo che ero solo un ragazzo, forse convinto che non sarei riuscito ad ucciderlo. A quel pensiero, la rabbia si risvegliò in me e con essa la mia energia magica, che mi attraversò l’avambraccio. Svuotando la mente, inumidendo le labbra, iniziai a pronunciare la formula. E poi, accadde qualcosa che non avevamo previsto.

Ci fu un boato, un’esplosione originata chissà dove che fece saltare in aria parte del soffitto e della scrivania, inondandoci di detriti e schegge di legno. Mi riparai contro la parete destra della stanza, mentre Rabastan, come notai con la coda dell’occhio, si accovacciava contro quella sinistra. Quando riuscii a mettere a fuoco l’ingresso, scoprii il volto del nostro assalitore: un giovane mago non ancora trentenne, dagli occhi color del ghiaccio che lanciavano lampi di odio. Era Albert Young, il braccio destro di Dixon. L’uomo da cui Nott ci aveva messi in guardia.

“E così, avevo ragione” affermò, minacciando ora Rabastan ora me con la bacchetta puntata. Tentai di afferrare la mia, ma non era nelle vicinanze: un qualsiasi movimento avrebbe potuto tradirmi.

“Mangiamorte. Pensavate di farla franca, di darla a bere a tutti con lo scherzo degli altri due attacchi? Beh, con me non ha funzionato. Ho eseguito l’ordine, in un primo momento, correndo a difesa di Crouch. Ma poi ho riflettuto e ho capito che dovevo tornare, che Andy da solo non sarebbe riuscito a difendere Dixon. Come vedete, il vostro piano è fallito”.

Era maledettamente vero. Il suo arrivo inaspettato aveva mandato tutto all’aria, letteralmente e metaforicamente. L’esplosione mi aveva lasciato disarmato e lo stesso aveva fatto a Rabastan, inerte di fronte a me e con lo sguardo terrorizzato. Chi avevamo davanti non era un Auror qualunque, ma uno dei più temibili e temerari. Si riteneva un giustiziere, nonostante la sua giovane età, e non avrebbe esitato a vendicarsi nel peggiore dei modi. Azkaban diventava quasi la possibilità più auspicabile, a confronto di ciò che avrebbe potuto capitarci. Non c’era modo di sfuggirgli: Young ci teneva sotto tiro, pronto a colpire. Ed io, per la prima volta, avevo davvero paura.

“Avete attentato alla vita di un uomo d’onore, uno che mi ha insegnato tutto quello che so e che rispetto come pochi altri al mondo. Non c’è punizione adeguata per un atto del genere, per questo pagherete con la vita. Dite addio ai vostri cari”.

Stavo per farlo davvero. La mia esistenza finiva lì, in una stanza che cadeva a pezzi, nel primo e vano tentativo di uccidere un uomo. Con gli occhi cercai mio fratello e con la mente andai a mio padre, a Bellatrix. Erano loro le persone che amavo, le uniche di cui m’importasse davvero.

L’incantesimo si scatenò, violento e accecante, ma fu molto diverso da quello che aspettavo. Non credendo ai miei occhi, vidi Young bloccarsi sul posto e poi cadere a faccia in giù, rigido come una statua. Dietro di lui, apparve la figura di un Mangiamorte incappucciato con la bacchetta stretta in pugno. Qualche ciuffo color paglia appena visibile mi rivelò l’identità del nostro salvatore.

“Barty, accidenti!” Rabastan si alzò e gli andò incontro, incredulo quanto me. “Dove ti eri cacciato?”

Barty si scoprì il volto e sorrise, sollevato di vederci vivi. Nonostante non mi fosse mai piaciuto, in quel momento aveva tutta la mia riconoscenza.

“In giro” spiegò, “a chiedere informazioni su mio padre. Volevo sapere come stessero i nostri, che cosa stava succedendo… Non sapete che gioia fingersi preoccupati per lui e, in realtà, augurarsi l’esatto contrario…” Fece un sorriso sadico, inquietante. “Comunque, direi che sono arrivato al momento giusto”.

“Puoi dirlo forte, amico”. Rabastan gli diede una pacca sulla spalla e lo attirò a sé, dimostrando in quel modo la sua gratitudine. “Sarò sincero, ti avevo sottovalutato; invece, siamo proprio una gran bella squadra! Un giorno faremo qualcosa di grande assieme, me lo sento”.

Credevo che stesse esagerando, ma lo tenni per me. A fatica, con le gambe che mi dolevano, mi sollevai da terra e gli andai incontro a mia volta.

“Grazie, Barty” gli sussurrai. “Non lo dimenticherò”.

Il ragazzo fece un cenno d’assenso, imbarazzato. Probabilmente, era la prima volta che salvava la vita a qualcuno.

“Avanti, Rod, sono stanco. Facciamola finita”. Rabastan m’indicò la figura di Dixon, acquattata dietro i resti della sua scrivania e a malapena cosciente. Ero stanco anch’io, volevo solo tornarmene a casa. Raccolsi la bacchetta e le forze che mi restavano per avvicinarmi al capo Auror, deciso a finirlo. I suoi occhi erano socchiusi, ma le iridi celesti erano ancora ben visibili dietro le palpebre deboli. Puntai l’arma al suo volto, pronto ad agire. Tuttavia, ancora una volta, l’uomo mi rubò tempo prezioso scegliendo di parlare.

“Fallo e basta, ragazzo” mi incitò, come se ce ne fosse bisogno. “E prega che Dio, quando sarà il momento, abbia pietà della tua anima”.

Erano state le sue ultime parole. Non mi avrebbe chiesto di risparmiarlo, non mi avrebbe costretto ad aspettare ancora. Finalmente, ora, toccava a me. Cercai di svuotare la mente, come avevo fatto la prima volta, ma non mi riuscì: migliaia di pensieri, impetuosi e confusi, si affollavano nel mio cervello impazienti di essere espressi.

A cosa pensa un uomo, mentre uccide? Ci si chiede spesso cosa passa dietro gli occhi di qualcuno che muore, ma mai si prova a fare lo stesso con l’assassino. Invece, in quel momento, capii che ciò a cui pensavo era fondamentale: se avessi ricordato mia madre, con le sue teorie sull’inferno e il paradiso e sulla vita che regola i conti, probabilmente un panico irrazionale si sarebbe impadronito di me; se avessi guardato troppo a lungo quegli occhi celesti, immaginando gli anni che avevano visto scorrere, sarei caduto nell’errore di paragonare Dixon a me e i suoi sentimenti ai miei. Così, pensai soltanto a me stesso: alla casa dove volevo tornare, alla pelle bianca e calda di colei che amavo e ai figli che mi avrebbe donato. Tutto il nostro futuro era legato alla mia capacità di non fallire e, per esso, non avrei mai smesso di combattere. Pronunciai per la prima volta l’Anatema che Uccide e una luce verde scaturì dalla bacchetta, completando il lavoro per me. Gli occhi di Dixon restarono socchiusi, ma persero per sempre il loro colore.

Senza fermarmi a guardare il corpo, con un altro incantesimo lo sollevai da terra e lasciai che attraversasse il pavimento dissestato, svanendo apparentemente nel nulla. Rabastan, al mio fianco, mi guardò sbalordito.

“Che cosa hai fatto?”

“Solo quello che il Signore Oscuro mi aveva chiesto di fare” gli risposi, supponendo che il nostro padrone sarebbe rimasto soddisfatto. “Non una semplice morte, ma una che passi alla storia”.

Diversi metri sotto di noi, nella grande sala d’ingresso, maghi e streghe ignari dell’accaduto continuavano a svolgere il proprio lavoro. Immaginai le loro grida di terrore quando avrebbero scoperto che, da una voragine nel soffitto, era appena precipitato il cadavere di un loro collega.

*

“Ehi, Rod, e questo? Che ne facciamo?”

Mentre prendevamo la via di fuga, Rabastan si ricordò che Young era ancora a terra svenuto. Gli sollevò la testa con un piede e, per la prima volta, lo osservai come un nemico sconfitto. Aveva poco più della mia età, sogni, una famiglia da cui tornare; era stato abbastanza incauto da cercare di ucciderci, ma aveva fallito. Non riuscii a pensare a lui come un uomo tanto diverso da me.

“Lascialo lì” decisi, in mancanza di un’alternativa migliore. “Dovevamo uccidere Dixon, non lasciare altri cadaveri in giro per il Ministero”.

“Ma ti ha visto in faccia!” esclamò Rabastan, ragionevolmente preoccupato per me. “Lui non è come il tipo della sorveglianza o quell’imbecille dei Cannoni di Chudley… Lui ti troverà. Ricorderà il tuo viso per sempre!”

Aveva ragione, ma mi rifiutai di ammetterlo. Sentivo che uccidere un uomo era stato già troppo, per me, per quel giorno. Forse, le vecchie teorie di mia madre erano ancora estremamente radicate dentro il mio animo.

“Non possiamo saperlo” osservai, sforzandomi di crederci. “Adesso andiamo”.

Rabastan non si mostrò convinto, ma smise di replicare. Insieme, raggiungemmo l’openspace degli Auror e da lì ci Smaterializzammo, come solo in quella stanza era consentito fare. La meta era pianificata già da tempo: una radura lontana dalla città, dove avremmo potuto riunirci con i nostri compagni senza correre il rischio di essere visti. Una volta raggiunta, il buio e il fresco della notte mi ricordarono di essere vivo e libero, anche dopo l’ennesima azione pericolosa. Era una sensazione che adoravo e l’assaporai fino in fondo, prima di guardarmi attorno e scoprire che non eravamo soli.

Evan Rosier, cugino di Bellatrix e mio caro amico, era seduto con la schiena contro un albero e si massaggiava una caviglia, probabilmente fratturata. A pochi passi da lui, tutti gli altri Mangiamorte che avevano preso parte alla missione contro Crouch erano salvi e indenni, allegri come se fossero appena usciti da una festa. Rabastan e Barty raggiunsero immediatamente Avery e Mulciber per raccontare loro della nostra missione, mentre io preferii avvicinarmi a Evan.

“Caviglia slogata” mi confermò, con una smorfia dolorante sul volto. “Ma sono stato fortunato. Moody mi ha disarcionato dalla scopa, sarebbe andata molto peggio se Antonin non mi avesse attutito la caduta. E a voi, com’è andata?”

Gli raccontai brevemente del nostro successo, sorvolando sui dettagli inutili quali la presenza dell’apprendista Auror. Mi resi conto, come mai prima di allora, di quanto le nostre missioni ci legassero indissolubilmente l’uno all’altro: ogni volta c’era una vita salvata, un uomo scampato alla morte grazie al coraggio e alla forza dei suoi compagni. Io dovevo la mia vita a Barty così come Evan la doveva a Dolohov, e nessuno dei due avrebbe mai potuto dimenticarlo.

“Anche l’Ordine ha subito una perdita” m’informò, più tardi. “Dorcas Meadowes. Quella strega ci stava mettendo i bastoni tra le ruote, è dovuto intervenire il Signore Oscuro in persona per riuscire ad ucciderla. Dopo la sua morte, comunque, gli altri hanno iniziato a ritirarsi. Crouch era salvo e noi avevamo preso il tempo che ci serviva”.

Annuii, sollevato che anche l’operazione più rischiosa avesse lasciato indenni i miei compagni. C’era qualcos’altro, però, che non riuscivo a spiegarmi.

“Dove sono Nott e mio padre?”

Evan alzò le spalle, dimostrando di non saperne nulla. Il suo gesto riuscì a infastidirmi e a preoccuparmi allo stesso tempo: ero impaziente di dire a mio padre che ce l’avevo fatta, che ero riuscito a uccidere Dixon. Volevo che fosse orgoglioso di me.

“Non sono ancora arrivati. È strano, perché sono stati i primi a partire e la loro missione non doveva durare a lungo…”

Incredibilmente, quasi l’avessimo preannunciato, il rumore tipico di una Materializzazione catturò il nostro interesse. Dal buio, la figura imponente di Nott venne incontro a me ed Evan, mentre mio fratello ci raggiungeva. L’espressione dell’uomo era indecifrabile.

“Rodolphus, Rabastan” ci disse, guardando alternativamente me e lui. Prima che continuasse, avevo già capito che cosa ci aspettava. “Vostro padre è morto”.

*

Una vita per una vita, Rod, ricordalo sempre. Se prendi una vita, qualcun altro la ruberà a te. Ogni cosa ha il suo prezzo, e quello dell’esistenza umana è il più alto di tutti.

Era successo in maniera inaspettata, stupida, come non sarebbe mai dovuto accadere. Un incantesimo diretto nella direzione sbagliata, una tegola precipitata e poi il buio, la fine. Mio padre era morto nelle circostanze più ingiuste, senza possibilità di difendersi e di combattere con onore. Io avevo fatto quel che dovevo, ma non c’era più nessuno a cui raccontarlo; il mondo magico era nelle nostre mani e tutto ciò che sognavamo si sarebbe realizzato, ma mio padre non avrebbe mai visto quel giorno. Le parole della donna che mi aveva generato tornarono forti, prepotenti, a lambirmi il cervello e la coscienza; non riuscivo a liberarmi dal senso di colpa, dall’idea che il mio gesto avesse indirettamente causato quella perdita. Sapevo di non aver avuto scelta, eppure quella vita che avevo portato via avrebbe segnato per sempre la mia, lasciandomi nell’eterno dubbio di essere nel torto. Ogni esistenza spezzata ha il suo prezzo: il mio sarebbero stati due iridi azzurre, pronte a disturbarmi nel sonno e a confondersi inesorabilmente con quelle di mio padre.

I giorni seguenti non lasciarono spazio ad altro che al dolore. Rabastan fuggì, lontano da tutto e da tutti, sfogando da solo la rabbia e i sentimenti che fingeva di non avere. Io tornai a casa, al riparo delle mie solide mura, chiudendomi in un silenzio impenetrabile che non poteva mettere a tacere i pensieri. Arrivai a fare qualcosa che mio padre non avrebbe approvato: piansi. Lacrime trattenute troppo a lungo si sfogarono sugli abbracci mai dati, sull’affetto nascosto come fosse una malattia, sulle umiliazioni e le angherie che avrebbero potuto essere ricordi felici di una famiglia normale. La vittoria, se davvero ci sarebbe stata, avrebbe avuto un costo straordinariamente alto.

La reazione del Ministero non tardò ad arrivare, nel modo più feroce possibile. Dopo la morte di Dixon, la Gazzetta del Profeta riportò la notizia dell’ultimo emendamento di Crouch, così risoluto da spaventare anche gli uomini più audaci: licenza di uccidere. Dopo la perdita estremamente grave che avevano subito, agli Auror veniva conferito il potere di utilizzare le Maledizioni Senza Perdono. Se prima il giustiziere era solo Young, adesso lo sarebbero diventati tutti. La guerra non dava più sconti, non c’era altra possibilità che vincere o morire.

Il posto lasciato vuoto da Martie Dixon fu occupato da Rufus Scrimgeour, Auror dalle notevoli capacità e dalla massiccia esperienza. Avvicinare uno come lui non sarebbe stato lontanamente paragonabile a uccidere il suo predecessore, ma ero certo che il Signore Oscuro non avrebbe preteso una tale follia.

Lui, l’artefice di tutte le nostre volontà, non si degnò di fare la sua comparsa per quattro lunghi giorni. Il quinto, quando trovai la forza di alzarmi dal letto e riprendere in mano la mia vita, me lo trovai tranquillamente seduto sul divano del salotto. Non aspettò una mia qualsiasi reazione: si alzò, mi venne incontro, presentò le sue condoglianze. Su quel volto scarno, però, non c’era alcuna traccia del dolore che attraversava il mio.

“Mi dispiace immensamente per tuo padre. Era un caro amico, oltre che un ottimo collaboratore. Sarebbe stato felice di vedere questo giorno con noi. Che possa riposare in pace”.

Annuii, incapace di aggiungere altro. Le sue parole sembravano sincere, nonostante fossero prive di emozioni. Eppure, la sua presenza lì, in quel momento, mi disturbava; per questo abbassai gli occhi, così che non potesse leggervi il mio turbamento.

“Però, tu ce l’hai fatta. Sei riuscito nel tuo intento, mio caro Rodolphus. Questo fa di te il suo degno successore, un uomo di cui tuo padre sarebbe orgoglioso. Sapevo di non sbagliarmi sul tuo conto”.

Senza che nessuno l’avesse invitato a farlo, evocò una delle mie bottiglie di Whisky Incendiario e versò il contenuto in due coppe, porgendomene una. Brindammo a mio padre, alla nostra vittoria. Il liquido pungente a cui ero abituato mi bruciò la gola, inondando il mio corpo di un calore solo apparente. Poi, così com’erano comparsi, bottiglia e bicchieri sparirono, lasciando l’incontro tra il Signore Oscuro e me privo di appigli.

“Questo omicidio segna la fine di un’era e l’inizio di un’altra, Rodolphus” annunciò, mentre i suoi occhi rossi mi sondavano l’anima. “Da questo momento, molte cose cambieranno. La resa dei conti si fa più vicina, ma con essa anche la rabbia del nostro nemico. Mi aspetto che non abbassiate la guardia, che proseguiate con coraggio e ambizione come avete fatto sinora. E, soprattutto, mi aspetto grandi cose da te; credo di poter dire che ti sei dimostrato uno dei miei migliori Mangiamorte, forte e leale”.

Una come Bellatrix avrebbe fatto salti di gioia per quell’affermazione, ma io non provavo nulla. Grandi responsabilità comportavano grandi pericoli, per questo avevo sempre cercato di rifuggirne. Adesso, quel tempo era finito, ed era successo proprio a pochi passi dalla fine. Lo ringraziai, inchinandomi al suo cospetto in un gesto che oramai era diventato d’abitudine. Sperai di riuscire a nascondere tutto questo alla sua potente magia.

“Ricordalo sempre” aggiunse poi, in tono di avvertimento, “una grande devozione implica un grande onore. Un tradimento, un cedimento, comportano la morte. Non è difficile scegliere quale strada seguire: prosegui su quella giusta e il nostro traguardo sarà sempre più vicino”.

Sorrise con aria melliflua, senza allegria, senza mai un’emozione. Infine, scomparve da quella stanza e mi lasciò nuovamente da solo, con i miei pensieri e i miei fantasmi. Sedetti al posto che aveva appena lasciato e fissai il fuoco del camino, sperando che l’eleganza di quelle fiamme riuscisse a placare almeno in parte i miei turbamenti.

Il nostro obiettivo, aveva detto. Per noi Mangiamorte era chiaro e lampante, era quello che desideravamo da sempre: il rispetto della comunità magica, l’accettazione del predominio dei Purosangue e il ritorno alle nostre origini, alle culture più antiche e al contatto con la natura. Sognavamo dimore d’altri tempi dove poter vivere in pace, senza nasconderci dal mondo, con le esalazioni delle nostre pozioni che riempivano l’aria e gli incantesimi che squarciavano il cielo. Tutti, da me, a Rabastan, a Evan e agli altri, volevamo solo questo: la nostra vita, la nostra pace. Il benessere dei nostri figli in un mondo migliore.

Noi, sì. Ma lui? Cosa avrebbe potuto desiderare, lui? Un uomo senza legami, senza passioni, senza nulla. Uno che professava l’assenza dei sentimenti come la condizione migliore per la vita, affinché essa fosse duratura e priva di delusioni. Che cosa ci avrebbe ricavato, uno come il Signore Oscuro, dal mondo che noi proclamavamo e sognavamo? Nulla. Solo il potere, che per continuare a esistere avrebbe dovuto perpetuarsi in quel regime di terrore a cui lui aveva dato inizio. Fu allora che, a poco a poco, iniziò il mio cammino verso la comprensione.

Un giorno, vi accorgerete di aver dato la vostra fedeltà e aver riposto le vostre speranze in chi le ha solo sfruttate, ma sarà troppo tardi. Le parole di Dixon che avevo inizialmente ignorato tornarono adesso a stuzzicarmi la mente, come un nuovo e doloroso tarlo. Non riuscivo a liberarmi dall’idea che potesse aver ragione, che il Signore Oscuro non ci stesse dicendo tutta la verità e che i suoi scopi fossero molto lontani dai nostri. Eppure, finsi: chiusi gli occhi per non guardare, le orecchie per non sentire, perché accettare quella realtà sarebbe stato come ammettere che avevo sbagliato tutto, che mio padre era morto invano. Divenni un automa, una macchina di morte feroce e inarrestabile, che se avesse lasciato prendere il sopravvento alla ragione sarebbe impazzita. Ma, dentro di me, non persi mai di vista la motivazione per cui combattevo: la vita, quella con le persone che amavo. Sarebbero state loro a ricordarmi chi ero, a farmi capire che, nonostante le mie azioni, il vero mostro non ero io e non lo sarei diventato. Mai.

 

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Note:

Ciao a tutti! Questa è una storia molto diversa da quelle che scrivo di solito, nonostante la presenza di Voldemort e dei Mangiamorte, dal momento che Bellatrix è assente e il tema dell'amore soltanto sfiorato. Sono circostanze che ero obbligata a rispettare a causa del contest per cui l'ho scritta, tuttavia posso dire di averla amata fin dalla prima riga. Mi è piaciuto molto idearla nonostante le difficoltà che mi ha messo davanti, perché mi ha dato modo di indagare il passato di un altro personaggio che adoro e di raccontare episodi della sua vita che non hanno trovato spazio in altre storie. Anche lo stile è leggermente diverso da quello che uso di solito, ma spero tanto che l'apprezziate lo stesso.

Detto ciò, qualche nota tecnica:

-          La storia è ambientata durante la Prima Guerra Magica, nello scriverla ho inserito alcuni elementi citati nei libri che però non avevano una collocazione temporale precisa: l’uccisione di Dorcas Meadowes da parte di Voldemort, Scrimgeour come capo Auror, la licenza di uccidere conferita da Crouch. La missione di Bellatrix nella camera blindata non è altro che il momento in cui nasconderà la Coppa di Tassorosso, che ho sfruttato per giustificare la sua assenza. Rodolphus parla di vittoria e di figli con lei perché, ovviamente, non sa ancora che Voldemort cadrà e che loro finiranno ad Azkaban. La frase di Rabastan “Un giorno faremo qualcosa di grande assieme” è un riferimento al fatto che a torturare i Paciock saranno proprio i Lestrange insieme a Barty.

-          C’era davvero un Lestrange che ha frequentato la scuola con Voldemort, come scritto nel sesto libro. Non è specificata la sua parentela con Rodolphus e Rabastan, ma a me piace pensare che fosse il padre e che abbia fatto parte della prima cerchia di Mangiamorte. Che Nott ne facesse parte è invece accertato.

-          Tutte le descrizioni del Ministero della Magia corrispondono più o meno a quelle presenti nei libri. Ho inventato il fatto che fosse possibile Smaterializzarsi dalla stanza degli Auror, un po’ perché mi serviva e un po’ perché lo ritengo probabile – insomma, se si deve intervenire d’urgenza è poco pratico doversi mettere ad aspettare l’ascensore :)

-          Martie Dixon e Albert Young sono personaggi originali. Il secondo è presente in un’altra mia storia, La Rosa Sanguigna, e se qualcuno la sta leggendo avrà sicuramente notato i riferimenti!

-          La frase “una vita per una vita” è ispirata a Mulan della Disney, anche se lì veniva usata in senso opposto – si parlava di vite salvate, mentre qui sono vite rubate.

Be', grazie per essere arrivati fin qui, considerando la lunghezza spropositata di questa shot! Spero vi sia piaciuta :)

   
 
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