Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: Kodamy    15/04/2008    7 recensioni
Il vento rubò qualche fiore dal mazzo per terra, spingendolo più in là. Via, sempre più lontano dalle mura del villaggio.
E’ lì, pensò distrattamente Sakura Haruno, ormai trentenne, guardandoli volare via.
E’ lì, che Sasuke-kun dovrebbe essere.
  [(Non) respirando, aprì gli occhi.]
[Terza classificata al concorso SakuSasu organizzato da Kaeru_Chan]
Genere: Romantico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il vento capriccioso di fine maggio spinse un paio di ciocche chiare davanti al viso pallido, dove rimasero quasi pigramente a

Allora, ciurma.

Questa è la fic che ho presentato al concorso SakuSasu/SasuSaku indetto da Kaeru_chan – e giudicato da Rory per cause di forza maggiore >_<”

La vostra Kodamy è arrivata terza ed è talmente gioiosa che vorrebbe sprizzare gioiosità da tutti i pori, ma purtroppo i pori non bastano, ecco.

Ehm… sono un po’ temprata dalla shock, quindi non ho molto da dire. Tutto qui, ecco.

 

Bannerino fatto da Rory_chan

 

 


 

 

 

 

Il vento capriccioso di fine marzo sospinse un paio di quelle ciocche chiare davanti al viso pallido, dove rimasero quasi pigramente ancorate alla fessura delle labbra.
La donna non ci fece caso; i suoi occhi, appena stretti in due fessure color verde foglia per ripararsi dal vento, erano fissi su quella piccola croce di legno piantata nell’erba rada e bagnata di rugiada.

Croce spezzata, per la terza volta.
Tomba profanata, per la terza volta.
Lasciò cadere i fiori sul terriccio umido, senza un minimo di ritegno.

“Non è giusto.” Mormorò, stancamente e per mera abitudine, la sua voce. Strinse le labbra, soffocando quello che qualche anno prima sarebbe stato un singhiozzo, ma che in quel momento era solamente un suono come altri mille.

“Rinuncio.”
Forse, soltanto un po’ più patetico.
Strinse i pugni, spostando lo sguardo dalla croce spezzata ai fiori modesti, discreti, fatti di piccole margherite ben poco viziate, selvatiche: fiori che non si era data la pena di scegliere, dato che lui non li avrebbe apprezzati comunque.
Non l’aveva mai fatto, dopotutto.

“Rinuncio.” Ripetè, mordace, affondando il canino nel labbro inferiore. Con la stessa veemenza con cui avrebbe sputato una maledizione, una bestemmia.“Non ne vale la pena. Se sono solo io, alla fine, non ne vale la pena. Ne?”

Si voltò di scatto e quegli occhi, velati da lacrime che non erano davvero lacrime,
(cercò di convincersi)
cercarono istintivamente lo sguardo azzurro dell’uomo che doveva essere alle sue spalle.
Come ai vecchi tempi.
Come quando erano giovani (piccoli) ed uniti (felici).
L’uomo che avrebbe dovuto essere alle sue spalle, come
sempre.
E che, invece, quella mattina di fine marzo non c’era.

“Ne, Naruto? Rinuncio. Non ne vale la pena.”

Spinse appena, con la punta del piede, il mazzetto di fiori vicino alla base dell’asta storta di legno. Poi, in un impeto di rabbia, completò l’atto di vandalismo iniziato da mani ignote: il resto della croce, quel che ne era sopravissuto, cadde per terra sotto la furia ed il peso dei sandali scuri.
Dopotutto, non c’era nessun corpo lì sotto a cui dover portare rispetto.
Solo qualche piccola illusione, che andava avanti da quando era poco più di una bambina.
(che faceva di tutto, pur di sembrare una donna)
Una foto sbiadita e logorata dal tempo e dalle intemperie, sporca di fango e ridotta a poco più di carta straccia, la guardò indifferentemente dal basso. Era stata più volte riattaccata alla croce di legno, ed ogni singola volta era caduta di nuovo. Sospirò.
 La se stessa di fin troppi anni prima sorrideva senza alcuna traccia di rimprovero – ma anche quel sorriso era ormai sbiadito, tanto che ne rimaneva solo una pallida ombra, un ricordo.
”Non ho mai avuto la tua forza d’animo. Se sono da sola, se sono solo io contro il mondo, non ne vale la pena. Non devo dimostrare niente a nessuno.”
Ma non avrebbe pianto, perché era stanca di farlo, e non ne valeva davvero la pena.

“Non ne posso più, Naruto. Non ne posso più di essere sempre io, quella che deve fare tutto. Non è affatto giusto, né tantomeno corretto, da parte tua.”

Il vento – perché se Naruto non era con lei, il vento c’era sempre, c’era sempre, lui – rubò qualche fiore dal mazzo per terra, spingendolo più in là. Via, sempre più lontano dalle mura del villaggio.
E’ lì, pensò distrattamente Sakura Haruno, ormai trentenne, guardandoli volare via.
E’ lì, che Sasuke-kun dovrebbe essere.

 

La foto tremò appena, sotto l’impeto del vento primaverile.
Ma la croce spezzata la tenne ferma, ancora una volta, ancorata al suolo.

 

Rinuncio.

 

[Non] respirando, aprì gli occhi.

 

Nulla di interessante si degnò di ricambiare il suo sguardo – come ogni dannatissima mattina da qualche anno a questa parte. Rimase lì, distesa - ancora completamente vestita, con tanto di sandali sporchi di fanghiglia - sulle coperte sotto le quali non si era premurata di rintanarsi la sera prima: un po’ per il troppo caldo, un po’ per la troppa stanchezza, un po’ per mancanza di qualcosa che la spingesse a preoccuparsi davvero per la propria salute.
Le sembrò, per un attimo, di galleggiare ancora in quel lieve torpore indotto dal sonno; quel torpore innocuo che non sapeva di nulla e che, sicuramente, non avrebbe mai e poi mai ricordato da sveglia.
Le mani, sottili e quasi nodose, sfiorarono le lenzuola di cotone leggero, senza sentirne davvero la consistenza.

Il lieve, innocuo torpore di un sonno senza sogni. Ne aveva a lungo sentito la mancanza.
Ma non stava dormendo: quegli occhi arrossati, un tempo così limpidi, riflettevano ancora il soffitto e le travi di legno, intarsiate con quei piccoli fiori che portavano il suo stesso nome. Quei fiori che Naruto, con un sorriso ampio quanto quello della volpe dipinta sulla sua maschera da ANBU, aveva inciso con il coltellino multiuso che Sakura gli aveva regalato per il suo ventesimo compleanno.


Deglutì una, due volte, poi tornò a cercare di respirare. Ma l’aria era ferma ed immobile, quella mattina, e sembrò non raggiungere i polmoni. Sakura pensò che le prime vaghe luci dell’alba la rendevano quasi fin troppo surreale e, in qualche modo, morta.

Eppure, la mancanza d'aria vera ai polmoni non le dette più fastidio del solito. Mise quella strana sensazione da parte, catalogandola come paranoia mattutina, senza ombra di dubbio pre-mestruale. Battendo ciglio, si alzò a sedere, lasciando scorrere lo sguardo sul piccolo monolocale – così vicino all’ospedale, così pratico, così dannatamente opprimente.
L’aria che non c’era, rosata e filtrata da un velo di nebbia mattutina, rendeva tutto più immobile ed onirico del solito. Non era una brutta atmosfera, sembrava quasi quella di una fiaba. Decise che, nonostante la strana sensazione all’altezza dello stomaco, le piaceva. Sbirciando dalla finestra, allungando appena il collo, vide che per la strada non c’era nessuno.

L’orologio segnava le quattro, sette minuti e ventuno secondi del mattino.

D’un tratto, si accorse di non sentirsi neppure veramente stanca, nonostante l’ora: tuttavia, una lieve sensazione di disagio, di timore, si era insidiata in un angolino del suo cuore e la faceva sentire fin troppo scossa, quasi si fosse appena svegliata da un incubo particolarmente vivido.

Schioccò la lingua, spingendosi sul bordo del letto e poggiando i piedi nudi sul pavimento freddo.
Non sentì freddo.


L’inquietudine, in quell’angolino ritagliato nel petto, cominciò a fermentare. Ma la ignorò. Si alzò in piedi, arrancando qualche passo – insensibile – verso la porta lasciata, stranamente, aperta.

Era stata così… ubriaca la sera prima? Non ricordava.
Non guardò neppure con la coda dell’occhio il cucinino perché, in quel momento, la fame era l’ultimo dei suoi pensieri.
Crucciando appena le sopracciglia e mordicchiando distrattamente il labbro inferiore, si fermò sull’uscio, frugando nella mente sopita. Ma non riuscì a concentrarsi adeguatamente.

Non sentiva neppure il proprio respiro, i battiti del suo cuore.

 

Uscì senza premurarsi di chiudere la porta alle sue spalle.

Fu il vento della finestra aperta a farlo per lei, piuttosto fragorosamente.
Ma nel suo silenzio d'ovatta, la donna non se ne accorse.
Ed il vento non la sfiorò neppure. Aria morta.

Il liquido verde chiaro nel bicchiere poggiato sul comodino ondeggiò appena all’impatto della porta contro lo stipite, in un mondo lontano in cui i suoni e gli odori e le sensazioni erano ancora al loro posto.


Distrattamente, la tenda oscillò.
Il sole stava sorgendo, e la vita continuava a scorrere dall’altra parte del velo di pizzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Konoha, a quell’ora del mattino, era ridotta a poco più di una città fantasma.
Non un rumore riecheggiava per le stradine del centro, neppure quello dei passi che la donna, come ogni giorno, muoveva sull’asfalto. Nella mente, una vaga idea di sistemare le cartelle cliniche dei pazienti dell’ultimo mese, di portarsi avanti con il lavoro “burocratico”, di approfittare per una volta dell’essersi alzata prima. Cercando distrattamente di sistemarsi i capelli – soltanto adesso si era resa conto di essere uscita senza neppure guardarsi allo specchio, con i vestiti sicuramente aggrinziti per averci passato dentro la notte – Sakura Haruno sollevò lo sguardo stanco.
L’edificio dell’ospedale troneggiava sulla piccola piazza su cui si affacciava il suo appartamento, ma aveva un che di tetro a quell’ora, in quell’atmosfera. Senza vita, non sembrava potesse donarla ancora a qualcuno. Un luogo di morte, a conti fatti, suggerì una vocina nella sua mente. Sakura si fermò distrattamente nel centro della stradina, naso all’insù.

L’aria rosata era immobile e stantia.

Priva di suoni, di odori, di sensazioni. Priva di routine quotidiana, priva di vita.
Neppure un cinguettio dagli alberi vicino all’edificio.

Dov’erano le allodole? Le sentiva ogni mattina.

Non riusciva a dar un nome, a quella sensazione.

 

( timore )

 

Un brivido alieno le percorse la schiena, e la donna scosse il capo e le lunghe ciocche chiare.
In quel momento tornavano in mente solo i pochi – ma sempre dannatamente troppi – fallimenti legati a quel luogo: a partire dal primo, colossale ed indimenticabilmente più grande fallimento della sua vita, per finire con la serie di fallimenti, di cui non ricordava affatto i nomi, ma i volti e le sensazioni associate ad essi.

Era una lunga lista, quella dei suoi fallimenti medici.
Una lunga lista, alla cima della quale c’era il suo nome.

Sempre il suo nome.
Sempre.

 

( paura )

Avvertì per un attimo l’impulso di fuggire, sebbene non sapesse esattamente da cosa o dove. Deglutì silenziosamente, e voltò le spalle alla piazzetta dipinta di rosa e di verde, scotendo il capo. Non era una buona idea.
Dormire poco le faceva venire in mente cose brutte, cose strane, cose da folle.
Depressa.
Shizune le aveva confessato di essere preoccupata per lei, perché si stava ammalando di solitudine.
Folle, depressa, sempre troppo nervosa.
Sola.

 

( panico )

 
Cercando di estraniarsi da quei pensieri – si sentiva sempre troppo in colpa, ogni volta che Shizune si preoccupava per lei - si lasciò guidare distrattamente dai piedi attraverso le stradine secondarie. Provò a trarre conforto da quel terreno battuto, da quelle palazzine più anonime e meno significative, meno legate affettivamente al suo cuore che sembrava star per implodere a causa di tutto quel silenzio, dannatamente insopportabile.


In poche parole, cercò di mantenere la sua mente ferma e razionale.
Come quella di un medico vero.
Un medico che non perde i propri pazienti.

Soprattutto quelli più importanti.
Non quando può salvarli.

 

Gli occhi compassionevoli di Tsunade-hime sul letto di morte affiorarono nitidamente dalla marea informe di ricordi, seguiti da quelle parole stanche, ma vissute. “Non fartene una colpa.”

 

Non fartene una colpa, le aveva detto, con la passione di chi ha vissuto quello stesso dolore sulle proprie spalle. Non fartene una colpa perché non è colpa tua.

Lo aveva detto con trasporto, quasi la stesse supplicando di capire quella semplice e lineare verità che lei, da persona anziana, voleva trasmettere alla nuova generazione.

 

Sakura scosse il capo, sorriso amaro stampato sulle labbra.
Non è mai colpa di nessuno, pensò, tranne quando è colpa di qualcuno.
Come sempre.
Arrestò i passi, lasciandosi cadere contro l’intonaco scrostato del muro più vicino. La stanchezza che avrebbe dovuto coglierla appena sveglia sembrò arrivare solo in quel momento. Tuttavia non si trattava di una stanchezza fisica, ma piuttosto una stanchezza a livello del cuore.
Il muro avrebbe dovuto essere freddo contro le sue spalle nude, ma non lo era. Non sopportava più di non sentire nulla. Aveva voglia di gridare – funzionava bene, di solito, per scaricare la tensione – ma non lo fece, premendo strenuamente il pugno chiuso contro le labbra.
Si sentiva soffocare a livello puramente emotivo, e temeva sarebbe scoppiata in singhiozzi da un momento all’altro, proprio come quando era una bambina.

Quell’atmosfera la uccideva, le punzecchiava il cuore con mille aghi fatti di senso di colpa.

 

Un pensiero, stanco e folle anche lui, cominciò a maturare all’interno del suo animo.
Ghignava, quel pensiero, con una leggera nota di estasiato sadismo.

 

Era la sua vendetta?

Anche dopo la morte, era l’unica cosa che lo ossessionava? Vendetta?

Sakura ricordò vagamente l’immagine della croce distrutta sul terriccio umido, dei fiori sparsi nella fanghiglia, della foto piena di ricordi gettata via.

Quanti mesi prima aveva rinunciato? Forse, pensandoci, era già passato un anno.

 

Un anno è un periodo troppo lungo.

Era andata avanti, perché non aveva avuto senso rintanarsi nel passato.

 

Si era ammalata di solitudine, ma era andata avanti.

Eppure, poteva il suo fantasma portare ancora risentimento nei suoi confronti?

 

Doveva essere l’anniversario della sua Rinuncia, concluse con un nodo alla gola.
Era quello, il motivo per cui non si sentiva bene, quella mattina.


Non avresti dovuto vedere, pensò, piena di rancore. Non ci sei tu sotto quella fanghiglia. Non c’è nessuno! Solo ricordi, ricordi e legami.

Legami che tu hai sempre giudicato inutili.


(Anche Naruto è andato avanti. Perché non te la prendi con lui?)

 

Questa volta, un singhiozzo privo di lacrime e di suono si fece strada tra le sue labbra, e la donna si detestò con ogni singola fibra del suo animo. Non era più una bambina.

Si costrinse a smetterla con quei pensieri di ripicca infantile, e si prese il capo fra le mani. Respirò, ancora una volta, senza far alcun rumore. Attorno a lei tutto era ancora immobile, quasi si trovasse all’interno di una cartolina stampata.
All’interno di una foto dalla colorazione chimicamente alterata.
Neppure un filo di vento, neppure quello ad offrirle conforto, quella mattina di marzo.

 

Sollevò lo sguardo, solo per vedere davanti a sé le porte del villaggio.
Quell’inquietudine simile a senso di colpa, a rimorso, a nostalgia venata di desiderio per qualcosa che avrebbe potuto essere, in un tempo lontano, tornò moltiplicata e le tolse quasi del tutto il respiro che non aveva.

 

Nessuno la fermò, quando varcò i cancelli rosso porpora con passo contenuto.

La sentinella, che sembrava avere lo sguardo fisso a mondi di distanza, non si voltò neppure a seguirla con lo sguardo.

 

Non ci fece caso.

 

Tutti sapevano chi fosse, Sakura Haruno.

(e per questo, ormai, tutti la evitavano.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sasuke-kun era inginocchiato davanti alla sua tomba – quel che ne rimaneva - e le dava le spalle.

Sporco di sangue – come quel giorno – pallido – come quel giorno – spettinato – come quel giorno.

 

Morto.  Come quel giorno.

Se Sakura avesse avuto ancora un cuore sano, da qualche parte, probabilmente si sarebbe fermato in quel momento. Soltanto nel guardare quelle spalle che si erano congelate all’età di sedici anni, senza poter mai diventare ampie quanto avrebbero dovuto. Nel guardare quella nuca, e quelle piccole virgole nere che erano state la causa di tutta la loro vita andata a puttane.

 

Sasuke era lì davanti a lei. Qualche metro più avanti. Poteva sentirla? Non poteva sentirla, non con quel silenzio così assordante, non con…
Aveva voglia di gridare.
Lo fece, silenziosamente.
E, ricevendo in risposta solo silenzio, si portò ancora una volta le mani alle tempie, e chiuse gli occhi, sentendosi improvvisamente molto più umana e molto meno medico.
Un gemito sfuggì dalle sue labbra socchiuse, ma lei non lo sentì.

Sto impazzendo, ripetè fra sé e sé, sto impazzendo.
Rinuncio.
Ho rinunciato, non hai più nessun diritto di essere qui.
Non è giusto.
I ricordi scompaiono, se non c’è più nessuno a ricordarli. No?
Naruto? Naruto, fa qualcosa.
Metti tutto a posto.
… Naruto, ti prego...

 

Solo il silenzio, il silenzio soffocante, e le dita che affondavano nella pelle e la totale immancabile assenza di dolore. Riaffiorò, e riaprì gli occhi.

 

Sasuke era ancora lì. E quell’occhio nero – era stato davvero così giovane, quando l’aveva lasciata indietro? Era stato davvero poco più di un ragazzino?  ricambiò il suo sguardo..

 

Il sangue, vecchio di troppi anni per poter essere davvero ancora così rosso, ricopriva metà del suo volto e proveniva quasi tutto dalla cavità oculare sinistra, vuota come le finestre di una casa abbandonata. Lui batté pigramente ciglio sull’occhio buono, quasi fosse in preda dello stesso torpore che aveva colto lei.
Lei lo imitò, labbra strette in una linea sottile; sbirciò, con timidezza quasi virginale, tra le fessure fra un dito e l’altro delle mani dietro le quali aveva cercato ingenuamente di nascondersi. Si accorse di star tremando.

 

“… sei qui.” Osservò l’ombra di Sasuke, con una vena di disappunto. E Sakura lo sentì. Sentì quelle due parole riecheggiarle distintamente nell’anima, scuoterla come l’acqua di un piccolo pozzo in cui una mano magnanima ha gettato la sua moneta e il suo desiderio. Vittima dei cerchi che, lentamente, si dilagavano. Riverberavano.
Rabbrividì, pervasa dalla sua voce.
Attese, con le lacrime agli occhi, mentre la tensione dovuta a quel silenzio innaturale veniva infranta senza troppe pretese. Quasi le mancò, a quel punto, la forza nelle gambe che la tenevano ancora in piedi per pura inerzia. Non c’era nessun altro rumore, accanto a quella voce, ma non importava. Sakura attese, con una morsa al cuore, come spesso si era sorpresa ad attendere quando aveva tredici anni e credeva ancora nelle favole. Ma il suo primo amore non si lasciò sfuggire una sola parola.

Le voltò le spalle, riportando la sua attenzione su ciò che l’aveva intrattenuta fino a qualche attimo prima. Dopo qualche minuto di silenzio – insopportabile silenzio, odioso silenzio, fottutissimo silenzio – Sakura decise che doveva trattarsi necessariamente di un sogno.

Un sogno crudele, a cui avrebbe reagito i maniera infantile e ben poco consona ai suoi trent’anni suonati. Si sarebbe svegliata piangendo, avrebbe cercato Naruto…

… E Naruto non avrebbe avuto tempo per lei. Come sempre.

 

Scosse il capo, arretrando di qualche passo. Dopodiché cambiò idea, avvicinandosi di nuovo.

“… cosa ci fai qui?” esordì, ma la sua voce non smosse affatto l’aria stantia. Non la sentì aleggiare nell’aria, come quella di Sasuke aveva fatto poco prima.

 

Aveva sempre avuto una bella voce, lui.
Profonda.
Ricca di sfumature che mancavano ai suoi occhi e al suo volto, che apparivano sempre così vuoti.
La voce di lei, invece, era banale; lo era sempre stata.
Forse non aveva il diritto di infrangere quel silenzio, lei? Con quella sua voce uguale a mille altre voci? Con il suo nome che sarebbe andato perso tra mille altri nomi, senza mai passare alla storia come quello di Naruto Uzumaki e di Sasuke Uchiha?

 

La voce di una persona così anonima evidentemente non aveva il diritto di farsi sentire.

Che cosa disdicevole.

 

“Guardo i miei sogni che appartengono al passato.” Rispose tuttavia lui, dopo qualche attimo di indecisione, quasi quella voce banale l’avesse raggiunto, cristallina e limpida, con la sua domanda. Rispose lentamente, con un borbottio, quasi non avesse avuto veramente voglia di soddisfare la curiosità di lei. Forse si era aspettato parole più pregnanti, più significative?

 

Cosa si dice al fantasma del tuo primo amore, in questi casi?

Si consolò pensando che era un sogno, e che i sogni non dovevano avere per forza un senso.

La donna allungò appena il collo a quella risposta, per sbirciare al di là di quelle spalle macchiate di sangue, graffi e lividi.

La stretta nell’anima tornò, prepotente.


Oh, in che condizioni si era ridotta quella foto, in quell’anno abbandonata a sé stessa!
Ed esisteva, eppure esisteva ancora!
Quasi del tutto sbiadita, sporca di fango ed invasa dalle formiche, della stessa consistenza di carta straccia bagnata ed asciugata al sole troppe volte, strappata ai bordi, bucata dai chiodi che avevano tentato di tenerla ancorata alla croce di legno…
… eppure, anche in quello stato pateticamente pietoso, lei esisteva ancora!
I loro volti di bambini erano lì, e guardavano proprio lei!

E quella croce di legno, spezzata, era ancora lì! Aveva tenuto ferma quella foto per così tanto tempo, fedele al suo scopo di essere testimone e ricordo di qualcosa che ormai apparteneva ad un passato troppo lontano, che tutti desideravano ardentemente lasciarsi alle spalle!

 

Non poteva sopportarlo.

 

Nel vedere la fedeltà di quella singola foto e di quel singolo pezzo di legno, Sakura Haruno si sentì in colpa come mai prima in vita sua. E, pur essendosi ripromessa di non farlo mai più, scoppiò a piangere.

 

“Oh, siamo ancora lì, Sasuke-kun. Vedi? Vedi come sembriamo piccoli? Felici? Quanti anni avremmo potuto avere, lì?” eppure sulle sue labbra, annegata tra le gocce di pianto, affiorava di tanto in tanto l’ombra lontana di quel sorriso radioso.

 

“Non hai ancora finito le lacrime.”

Non era una domanda, tuttavia lei rispose comunque.

 

“Credevo di sì.” Mormorò lei, tra un singhiozzo e l’altro, tentando di contenerli con il dorso della mano, di asciugare tutto quello spreco d'acqua salata. “Credevo di sì.”

Le sue mani insensibili non catturarono nulla, ma l’insensibilità le impedì di accorgersene.

 

Pazientemente, il ragazzo attese che la donna si ricomponesse e calmasse il respiro irregolare. Questo accadde dopo qualche minuto buono, ma Sasuke non sembrò affatto fare caso al tempo che continuava inesorabilmente a scorrere. Guardava anche lui la foto, e Sakura si ritrovò a guardare lui.

 

“E’ la tua punizione, Sasuke?” domandò lei, una volta più tranquilla, con un filo di voce. Lui ricambiò distrattamente il suo sguardo verde foglia con quello color pece del suo occhio scuro.

Batté ciglio, prima di tornare a posare lo sguardo sulla foto.

 

Non disse nulla.

 

“Un anno fa. Un anno fa ho deciso di dimenticarti. Ho rinunciato. Deliberatamente. Lo sai, non è vero?”

Nessuna risposta.

“Non è per questo che sei venuto a trovarmi nei sogni, oggi? Per vendicarti?”

 

“Sakura, non stai sognando.” Schioccò la lingua lui, volto adombrato dalle spettinate ciocche scure. Sembrò essere risentito dalla particolare scelta di vocabolario della ragazza, dall’allusione alla stessa vendetta che l’aveva condotto sottoterra troppo tempo prima del dovuto. Quel risentimento trasparì dalla voce vivida e ricca di sfumature, in quel momento appena crucciata.

 

“Certo che sto sognando.” Ragionò lei, accovacciata accanto a quell’ombra di fantasma. “Tu non puoi essere vivo, Sasuke. Ti ho visto morire. Non ho potuto salvarti, lo sai. Sono arrivata troppo tardi. Perché mi devi far ammettere certe cose?”

 

Lui rimase in silenzio, scrutandola con quell’unico occhio scuro.

 

Lei rimase in silenzio, ma si nascose al suo sguardo.

 

Con uno schiocco della lingua, carico di stizza, il ragazzo si tirò su: senza sforzo, titubanza o dolore, nonostante le ferite, nonostante l’equilibrio distorto dal punto cieco e la perduta percezione della profondità. La donna lo seguì, vagamente accusatoria, con gli occhi verde foglia finchè lui non si allontanò troppo; dopodiché, rinunciò.

 

Il silenzio, minaccioso, tornò in tutta la sua imponenza. Lei deglutì, una, due volte, sicura di essere stata ormai lasciata sola, sicura che di lì a qualche momento si sarebbe sicuramente svegliata.

Passarono molti minuti. Ore, forse: il tempo, nei sogni, è così distorto…

 

“… cosa ci fai tu qui, Sakura?” riprese la voce, e per lei fu come se avesse passato quel silenzio troppo lungo ad attendere quella domanda, allo stesso modo in cui si attende il tuono che segue immancabilmente un fulmine a ciel sereno: fu come se il ragazzo non avesse mai smesso di parlare, come se il tempo di quel silenzio fosse stato annullato.

 

L’aria era ancora immobile, ma stava perdendo il suo filtro rosato.

 

Quando si voltò, l’espressione di Sasuke era più morta del suo corpo sepolto in tanti piccoli pezzi sparsi chissà dove. Il fuoco che ardeva dietro la singola pupilla, tuttavia, era furioso. Infuriavano, quelle fiamme, più accusatorie di quando non fosse stata lei nei suoi atteggiamenti di qualche minuto/eternità prima.

 

Si guardarono, con fin troppa veemenza. Lei era confusa – con un pizzico di disperazione buttato in un angolino per condire il tutto – ed il ragazzo sembrava sospeso in uno stato a metà fra la delusione e la rabbia freddamente controllata.
Fu Sakura, ancora una volta, a perdere la tacita battaglia scostando lo sguardo.
“… dov’è qui?” domandò, con ripicca, sforzandosi di fomentare quel lieve senso d'irritazione: tutto, pur di evitare il panico che sapeva

 

( perché, in fondo, lo sapeva )

 

avrebbe seguito la risposta a quell’innocente domanda.

 

Tuttavia, lui non rispose.
Tipico di Sasuke-kun, non renderle mai le cose più facili. Lasciarla in balia dei suoi problemi, costringerla ad affrontare ogni volta la realtà – quella stessa realtà che ogni fottutissima volta la schiacciava sotto il suo peso.

Voleva che fosse lei, a rispondere?

A rendere vera quella ineluttabile verità, dandole voce?
Non aveva il coraggio di fare qualcosa del genere, di ammettere la sua codardia, la sua condizione.
Conosceva già la risposta a quell’innocente domanda, lei. Ma si rifiutò ugualmente di pronunciarla. Strinse le labbra, serrò i pugni. “Mi dispiace.”

 

Sasuke scosse il capo, in un gesto tremendamente umano – quasi infantile – di chi non vuole sentire né scuse, né lo stridio di unghie troppo lunghe che si arrampicano disperatamente sulle lucide superfici degli specchi, quasi ne valesse della loro vita. “Non è vero, Sakura.” Asserì, laconicamente. “Non ti dispiace affatto.”

 

“Vero.” Rimbeccò lei, sollevando lo sguardo. “A voi dovrebbe dispiacere, piuttosto. A tutti voi. E’ stata colpa vostra, sempre. Non sapete cosa vi siete persi.” affermò, travolta nel tumulto dei ricordi della sera prima. Le lacrime. Naruto con lei, quella lei che non sarebbe mai stata lei. Ridevano. Le sue colleghe che bisbigliavano verità troppo crudeli alle sue spalle. Lo sguardo pietoso di Shizune. L’incubo di quell’unico occhio che la osservava dal basso, chiedendole per l’unica ed ultima volta di capire. Supplicandola di capire senza aver bisogno delle parole, perché le parole lo avevano ormai abbandonato da tempo. Il risveglio nel bagno di sudore.

 

L’ennesima rinuncia di una vita fatta di rinunce. L’ultima.

 

La rinuncia alla battaglia persa in partenza e tuttavia ostinatamente combattuta.

 

( perché non è altro, la vita )

 

Sasuke-kun, nella sua rabbia dignitosamente contenuta, la squadrava dall’alto. Non disse nulla, condannandola ancora una volta a quel silenzio surreale che le faceva perdere di vista sé stessa.

Si costrinse ad un approccio più razionale, più calmo, più scientifico.

 

“Avevo sperato nel nulla, io. E’ l’unico motivo dietro il mio gesto. Pensavo non ci sarebbe stato più nulla, che avrei potuto… non lo so, smettere di esistere.” Ammise, alla fine, con un filo di voce. Con un gesto di stizza, Sasuke scostò lo sguardo altrove, verso le porte del villaggio: e Sakura intuì che anche lui ci aveva sperato, un tempo.

 

“Era quello di cui avevo bisogno. Smettere di esistere. E’ così stancante, a volte. Ti logora dentro, ed arriva il momento in cui non ce la fai più. Ne, Sasuke-kun? Capisco cosa provavi, ora. Lo sapevo che mi sarei sentita davvero sola, senza di te. Non scherzavo. Ho gettato al vento la mia vita, dopo.”

 

Il silenzio, immobile. Distrattamente, la donna si alzò in piedi battendo sui vestiti stropicciati per scrollarsi di dosso della polvere sicuramente immaginaria.

 

“Anche io.” Mormorò il ragazzo, amaramente. Lei si voltò e provò una strana sensazione, nel riscoprirsi ormai più alta di lui, che non aveva mai avuto l’occasione di diventare un uomo. Sembrò notare anche lui quella differenza d’altezza, tanto che scostò subito l’attenzione sul terreno smesso, quasi fosse d’un tratto divenuto terribilmente interessante.

 

Possono i morti avere ancora orgoglio?
Rimorso, per ciò che avrebbe potuto essere?
Per il futuro mai arrivato.

 

“Si, anche tu. Sei stato fra noi quello che l’ha gettata via più volentieri, tu. Hai innescato una reazione a catena che ci ha distrutti tutti e…” qui si bloccò, mordicchiando il labbro. “… e mentre Naruto è riuscito ad alzarsi, io vivevo sulle spalle di Naruto, cercando di rubargli un po’ di quella forza, di quella luce, ma… Ma lui ha il suo sogno ora, e ha il suo amore. I miei sogni, invece, appartenevano al passato, proprio come i tuoi.”

 

C’era empatia, in quell’occhio scuro. Comprensione. Per un attimo, alla pozza di pece, affiorò persino un bagliore di senso di colpa. “Mi dispiace” disse, con un filo di voce, e con il tono di una maledizione.

 

“Non è vero. Non ti dispiace affatto.” Rimbeccò Sakura, acidamente, rivolgendo contro di lui la stessa accusa. Ma lui scosse il capo, con rassegnazione.

 

“No, Sakura. Mi dispiace davvero.”

 

Il sole era ormai alto, nel cielo, ma non li riscaldava affatto. La donna lasciò cadere il discorso in quell’onnipresente silenzio che la metteva a disagio. Avrebbe voluto ridere, forse, all’ironia del tutto.
Cosa l’aspettava, ora? L’eternità?

Sasuke-kun aveva lo sguardo perso sull’orizzonte dietro le montagne scolpite con i volti degli Hokage.
Con il volto di Naruto.
C’era qualcosa di simile ad un accenno di un sorriso, un ombra sulle sue labbra, ma non si trattava di un’ombra felice.
Le ricordò, per un attimo, quei finti sorrisi che Naruto aveva tentato di propinarle, una volta che il loro compagno di squadra li aveva abbandonati.

 

“Se potessi tornare indietro, Sasuke-kun, lo faresti ancora?” esordì lei, riportando gli occhi verde foglia su di lui.

 

“Cosa?”

 

“Gettare via la tua vita.”

 

Il suo volto si adombrò appena, una piccola ruga tra le sopracciglia appena corrucciate. Ci pensò a lungo, prima di degnarla di una risposta. “Si. Solo, penso che lo farei meglio. Molto meglio.” commentò, piano. “La pratica rende perfetti.”

 

Una morsa strinse il cuore fermo della donna, la quale scosse appassionatamente il capo, stringendo i pugni e schioccando la lingua. “Se pensi che te lo lascerei fare di nuovo, ti sbagli. Io… io ti fermerei.” Ribattè, poco più d’un sussurro. “Questa volta, ti fermerei. Chiamerei Kakashi-sensei e Naruto, e saremmo stati in tre ad aspettarti. A fermarti. Ad impedirti di andare via.”

Il viso di Sasuke-kun sembrò contrarsi più del necessario sotto il peso di quelle parole, ed ancora una volta sembrò indeciso sul rispondere o meno, quasi il convogliare i pensieri in parole di senso compiuto fosse una fatica troppo grande. Quasi non ne valesse la pena.

 

“Ci sareste riusciti.” Commentò, infine, con un filo di rimorso.

 

Sakura si maledì, dieci, cento, mille volte, per non aver agito a quel modo nella prima occasione, pur sapendo che non ce ne sarebbe mai stata una seconda. Era stata infantilmente convinta che da sola ci sarebbe riuscita comunque, perché, cazzo, l’amore vince ogni cosa e non è questo che ti insegnano le favole che ti raccontano da bambina?

 

Non è per questo, che te le raccontano?

Apparentemente no.

 

“Sono stata una stupida.”

”No, non stupida.” Sbottò il ragazzo, il cui sguardo era ancora una volta perso in quel ritratto del passato “Ingenua. Mai stupida.” Silenzio, ancora una volta. Poi, un tono stranamente nostalgico, estraneo su quelle labbra pallide. “Salvo i primi tempi. Con quelle risatine isteriche e la testa fra le nuvole e i romanzi rosa che portavi dietro ad ogni missione.”

 

“Oh, quelli erano i residui dell’influenza di Ino.” Si giustificò la donna, rammentando con velata malinconia quei tempi in cui nessuna missione di classe D avrebbe mai potuto essere letale, per loro. Si stupì nel ritrovarsi ormai abituata a quella calma piatta, ed il pensiero di aver raggiunto Sasuke-kun dall’altra parte le sembrò stranamente surreale. Non poteva essere vero.

 

“Non ti sopportavo.” Stava mormorando lui, stancamente.

 

E’ la solitudine.

 

No, stai solo negando l’evidenza, Sakura.

 

Non è vero.

 

E’ solo che…

 

“Non immagini mai come sarebbe stata la nostra vita, se non te ne fossi andato? Non ti capita, qualche volta?” domandò la donna, piccolo sorriso sulle labbra. “Anche se non sei il tipo da fantasticare, tu.” Soggiunse, quasi un piccolo ripensamento. Come prevedibile, Sasuke sospirò – piano, quasi solennemente, quasi stesse davvero cercando in quel momento, di immaginare – ma, alla fine, non rispose. Come sempre.

”Se fossi rimasto a casa… se fossi rimasto a casa, tu, sarei diventata tua moglie.” Continuò lei, dopo qualche attimo di silenzio, sorriso distante sulle labbra. “Sicuramente.”

 

Quel commento buttato lì sembrò coglierlo di sprovvista, ma da morto Sasuke-kun non aveva perso l’innata abilità di mantenere sempre una perfetta faccia da poker, in qualsiasi situazione.
Sembrò riflettere sull’affermazione, a lungo.

“… Non ne dubito.”

“Neanche io.” Mormorò lei, sospirando. “Sarei stata una moglie perfetta, sai? Una madre perfetta.”

“Lo so, Sakura.” La interruppe il ragazzo, lasciandosi cadere seduto davanti ai resti della tomba, nella fanghiglia. Non fece rumore e – notò lei – neppure il terriccio fangoso sembrò risentire del suo peso.

 

Sasuke-kun non è davvero qui.

 

“Lo so.” Stava ripetendo lui, ed era ancora una volta talmente distante che, per un attimo, Sakura temette di vederlo scomparire così com’era apparso. All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno.

 

Tuttavia, prima che potesse aggiungere qualcosa – rimproverarlo, sfogarsi, rinfacciargli che era stato lui, lui, a volersene andare, e che invece così faceva sembrare che la colpa fosse stata solo di lei quando non era affatto vero – i suoi occhi verde foglia scorsero da lontano, vicino alle porte del villaggio, una figura dalla chioma color del grano.

E, per quanto volesse negarlo, meno passi la separavano da loro e più quella figura assomigliava a lui.

 

Naruto.

 

“… cosa ci fa lui qui?” mormorò la donna, un po’ curva su sé stessa sotto quell’altro pezzo del peso del mondo che le crollava sulle spalle. “Dopo tutto questo tempo, cosa ci fa lui…?”

Il ragazzo la interruppe, piuttosto bruscamente, con tono irritato. “Viene qui ogni mattina. Molto presto, un po’ dopo l’alba. Fa così da anni, ormai. E’ l’unico momento libero che ha.”

Sakura rimase in silenzio, occhi incollati sulla figura del giovane Hokage dall’aria scarmigliata ed assonnata, dal tradizionale copriveste rosso e bianco, dal pendente al collo che catturava la luce del sole ormai sorto.

 

“Per tutto questo tempo, lui…?” mormorò, con un filo di voce.

 

“Inizia a parlare.” Commentò il fantasma di Sasuke, senza guardarla: il suo sguardo sembrava, in quel momento, distratto dalla luce riflessa dal ciondolo. “Ogni giorno comincia con ‘sai, ieri…’, e non fa che raccontare quello che ha fatto.”

Ancora una volta, silenzio.
Ancora una volta, Sakura stava rischiando di rimaner soffocata dal senso di colpa.

“E’ irritante.” Aggiunse il ragazzo, quasi dopo un piccolo ripensamento. Tuttavia, non appena la donna schiuse le labbra per dire qualcosa, per mormorare una scusa, per giustificarsi in qualunque maniera, fu interrotta di nuovo.

 

Non dalla voce profonda e calda di Sasuke.
No.
Da un’altra voce più adulta, che sembrava riecheggiare come se non appartenesse davvero al loro mondo.

E che non poteva, d’altronde, appartenervi.

 

“Ohi, teme.” Aveva esordito Naruto, in quel momento, e la sua voce un po’ roca e selvatica - la sua voce di sempre - aveva infranto il silenzio come se fosse stato fatto di vetro.

 

Sakura trasalì. “E’ lui.”

 

Un cenno di assenso.

 

“Lo sento. Perché…?”

 

“I morti sentono i vivi solo quando i vivi si rivolgono a loro.” Commentò il ragazzo, voltando verso di lei la cavità oculare sporca di sangue.

“Quando pregano?”

“Preferirei non sentirli proprio.” Mormorò stancamente l’ombra di Sasuke, scotendo il capo. Fu la seconda – terza? quarta? - stretta al non-cuore per lei, perché ricordava di aver sempre detto cose orribili, su quella tomba. Aveva avuto troppo rancore per non farlo.

 

“Quello che ho detto, Sasuke-kun, io…”

 

“Sai, ieri…” cominciò il sesto Hokage, piccolo sorriso – genuino ma un po’ amaro – dipinto sulle labbra. “… Hinata ha cominciato ad avere quei capricci da donna incinta. Sai, quelli assurdi. Credo li chiamino voglie. Di punto in bianco ha detto che sarebbe stato davvero carino da parte mia comprarle delle fragole con la panna.” Qui l’uomo si interruppe appena, grattandosi la nuca. “Ma se riuscivo a sopportare te, teme, che eri in costante crisi premestruale, riuscirò a sopravvivere anche a questo. Mi hai temprato la pellaccia, tu… Ah, non ho un attimo di tempo libero. Tutta colpa di quel disastro diplomatico con quel cavolo di paese della nuvola. E’ fatto di teste di cazzo quel paese, te lo dico io.” L’ultima frase venne fuori come un borbottio, ed in un’altra situazione Sakura avrebbe riso. Tuttavia in quel momento non ne ebbe la forza, e non potè fare altro che guardare l’accenno di divertimento sul volto del fantasma bruno al suo fianco.

 

“… ho visto Sakura, ieri.”

 

E Sakura deglutì.

 

“All’ospedale. Era con un gruppo di infermiere, sembrava stanca. Si è fatta crescere i capelli, sai. Se non sembrasse così triste e stufa e… non so, così depressa, sarebbe bellissima. Saresti tu a caderle ai piedi, credimi.” Il sorriso sulle labbra di Naruto, tuttavia, era tenuto su da pura inerzia. “Non sono riuscito ad avvicinarmi, però. Non ne ho avuto il coraggio. So che è stata colpa mia, in un certo senso, che si è ridotta così… e non ho avuto il coraggio di parlarle. Neanche ieri. Era il suo compleanno, sai? Il 28 marzo, ricordi? … certo che no, bastardo. Non le hai mai fatto un regalo in vita tua, tu. Era il suo compleanno, e non sono riuscito neppure a dirle ‘auguri’. … L’ho pagato caro il mio sogno, io.”

 

“Come tutti noi, del resto.” Commentò spassionatamente Sasuke-kun, rivolto a nessuno in particolare. Ma a quel punto Sakura soffocò un singhiozzo, nascondendo il viso fra le mani.

 

Vergogna.

Non vedevo niente, io.

Solo me stessa.
Miserabile me stessa.

 

“Oggi la vado a trovare, però. Tra poco. Lo so che è presto, ma la sveglierò io. Sì. E sarà talmente commossa che non riuscirà neppure a gridarmi contro. O a picchiarmi. La sveglierò e le dirò ‘buon compleanno’. E lei mi lancerà addosso il cuscino e dirà ‘guarda che era ieri, stupido!’. Sì. Tu sta’ a vedere, Sas’ke. Domani avrò sicuramente qualcosa da raccontarti.”

 

Piccola pausa, piccolo sospiro. I piccoli segni sulle guance di Naruto erano ancora stirati nell’impalcatura di quel sorriso.

 

“… certo che se non vuoi che continuo a scassarti le palle anche nell’aldilà, ecco, è un altro discorso. … fammi un segno? … nulla? Ok. Allora a domani, ne. Cercherò di convincerla a venire. Può portare dei fiori, sai, quelli che ci portava sempre all’ospedale. So che ti piacevano, li guardavi sempre con un sorriso quando pensavi che non ti stesse a guardare nessuno. Perlomeno apprezzavi il pensiero, ne, teme. Avresti potuto farglielo sapere, qualche volta. Ero io che dovevo sorbirmi tutte le lamentele, poi…”

 

“Non è vero. Non è vero.” Mormorò Sakura, con un filo di voce. Era un sussurro urgente, un sussurro quasi allarmato, quello che sfuggiva dalle labbra della donna. “Non li hai mai apprezzati, tu. Non è vero.”

 

Sasuke scosse il capo, ma rimase in silenzio, non sapendo effettivamente cosa ribattere.

“Non è vero.” Mormorò, infine, ed anche la sua voce si ridusse ad un filo.

 

Sakura ringraziò il cielo – e chiunque ci fosse lassù, nel caso ci fosse qualcuno – di aver ormai finito le lacrime e di non essere costretta ad umiliarsi ancora, a tornare ancora una volta bambina. Maledì tuttavia sé stessa e Sasuke, una volta e mille altre volte ancora.
Non sentì il sospiro di Naruto, né i suoi passi che si allontanavano.
Sentì solo calare ancora una volta quel silenzio ovattato.
 “Sei uno stupido, Sasuke. Sei uno stupido. Come potevo capire, io? Come potevo capire tutto da quell’ultimo sguardo, io? Sei un idiota. Sei tu il vero idiota. Cazzo, cazzo, cazzo, sei tu il vero idiota!”

 

Il ragazzo incassò distrattamente il colpo, mordicchiando un labbro. Assorto. Poi, sospirò.
“Viene qui tutti i giorni, il dobe. Quindi io me ne sto qui.” Fece spallucce, quasi la cosa non avesse la benché minima importanza. “E aspetto. E da qualche parte, penso continuassi a sperare che un giorno saresti tornata tu.”

 

“…”

 

“Finalmente, senza piangere.” Soggiunse, a voce così bassa che se non fosse stato per il silenzio disarmante, probabilmente la donna non l’avrebbe neppure sentito. “Anche solo per dire ‘va tutto bene, qui’.”

 

Tu non ci sei più, ma qui va tutto bene lo stesso.

                                                                                              (non sentirti in colpa)

 

“…”

 

“… non è successo. E invece ora sei qui.”

 

“…”

 

“… ti odio, Sakura. Dannazione, ti odio.”

 

Stringendo le labbra in una linea sottile, la donna cercò a tentoni la mano di lui ma, pur avendola trovata, non riuscì neppure a sfiorarla perché – in fondo lo sapeva, in qualche parte del suo non cuore lo sapeva – non aveva alcuna consistenza, quella mano.

 

E neppure la sua.

 

Proprio quando avrebbe voluto stringere la mano di Sasuke, la mano di Sakura non fece altro che attraversarla, come se non fosse stata lì, e sfiorare il terriccio umido. Senza sentire davvero neppure quello.

 

“Sasuke… non posso toccarti, io. Vero?”

 

Proprio quando avrebbe voluto abbracciarlo, chiedendogli scusa, e poggiare le labbra sulle sue e dire ‘mi sei mancato, dio, mi sei mancato’, e…

 

“No.” Mormorò lui, con un tono simile alla tranquilla rassegnazione, sguardo rivolto verso il basso – verso quelle due mani unite senza alcun calore, senza alcuna sensazione; sguardo nascosto agli occhi della donna, che strinse i pugni.

 

“Siamo solo ricordi, ne? Siamo solo ricordi, noi.”

 

E fu in quel momento che accettò di essere davvero morta, e che quello doveva necessariamente essere l’inferno. Nessun incubo avrebbe potuto fare così male, dopotutto.

 

“Si prospetta una lunga, lunga giornata.” Mormorò, stancamente, senza lacrime.

 

E Sasuke si limitò a schioccare la lingua e alzare quell’unico occhio al cielo, come ai vecchi tempi.

 

 

 


 

 

A/N: Ciurma, ancora non ci credo X°D

 

 

Ehm, ancora non ci credo. Sto divagando, vero? XD

 

Fatemi sapere cosa pensate, ne!

  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: Kodamy