Fanfic su artisti musicali > McFly
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Autore: Dafren    31/10/2013    1 recensioni
E se l'ambizione e la voglia di solcare nuovi orizzonti vi spingesse a prendere strade inaspettate che vi riconducono ad un passato che sembrava ormai lontano? Può una passione profonda rovinare un'amicizia solida? Rinuncereste all'amore per amicizia o lascereste che questa si spenga per egoismo? Un viaggio improvviso che doveva portare una delle band più famose degli UK alla fama mondiale rischia invece di distruggerla per sempre.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Danny Jones, Dougie Poynter, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
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3.
 
 
La notte. A molti faceva paura. Buia, tenebrosa, nascondiglio perfetto per ogni genere di insidia. Persino i poeti e gli scrittori la definivano come qualcosa di ambiguo o spettrale seppur necessaria. Ricordai alcune celebri frasi che spesso avevo sentito o letto in giro: Nessuna notte è abbastanza lunga da impedire al sole di sorgere, oppure, bisogna attraversare la notte per raggiungere l’alba.
Io non la vedevo così.
La notte non mi faceva paura, non più del giorno. La notte era l’unico specchio nel quale riuscire a vedere il riflesso di sé stessi, quello che il tram tram quotidiano offuscava dietro mille e più futilità. La notte aveva in sé qualcosa di magico, era l’unica in grado di fermare il tempo, rimettere le cose nella giusta prospettiva come i tasselli di un puzzle che dopo il dodicesimo rintocco prendevano vita ritrovando da soli il loro posto.
La notte era silenzio, era pace, era armonia… tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento, forse per questo non la sprecavo dormendo come tutti gli altri.
Un mugolio appena percepibile si unì al suono della pioggia battente sul tetto. Dal salotto si potevano appena udire il ticchettio delle lancette sul vecchio pendolo ricevuto in dono da zio Paul quando andai a vivere da sola alcuni anni prima.
Tirai fin su il mento la spessa coperta in pile tenendo scoperte solo le braccia. In una mano il telecomando con il quale giravo con scarso interesse i canali del televisore.
Di solito dopo le undici partivano a raffica le trasmissioni di vecchi film d’autore come Hard Time, Wuthering Heights, Gone with the Wind o Pride and Prejudice che preferivo centinaia di volte alle solite e banali commedie degli ultimi tempi, tutte uguali, tutte dal finale scontato.
Poi la corsa si fermò. L’ennesimo talkshow con i nostri volti spiattellati sullo sfondo seminascosti da una vistoso “New” a caratteri cubitali. Mi chiesi quale altra novità si erano inventati quella volta. Quanti altri danni avessero intenzione di fare con le loro paparazzate montate a posta per farci più male di quanto non ce ne fossimo già fatti da soli.
Le diffide degli avvocati avevano ottenuto poco e nulla. Nonostante ogni notizia venisse prontamente smentita o ritirata dalla vetrina scandalistica non si riusciva ad interrompere il bombardamento mediatico a cui eravamo sottoposti ogni maledetto giorno.
Assottigliai lo sguardo leggermente infastidito dalle luci ultraviolette dello schermo di fronte al letto mentre partiva sottotitolato un filmato girato al Luton Airport di Londra. Flash e telefonini puntati verso le grandi porte d’uscita che spalancandosi lasciarono intravvedere Dougie attraversare la folla a testa bassa nascosto dietro il cappuccio della felpa e gli occhiali scuri per poi infilarsi in un auto scura e lasciare alle sue spalle i curiosi che continuavano a fare domande urlate al vento. Il filmato si interruppe. Il viso sorridente della conduttrice che tra una battuta di cattivo gusto e l’altra commentava il ritorno nel Regno Unito di Do’. Era tornato e lo aveva fatto da solo.
Che avesse davvero abbandonato la band? Scartai quel pensiero, i ragazzi non glielo avrebbero permesso. I Mcfly erano quattro, o tutti o nessuno.
Voltai lo sguardo verso l’altro lato del letto. Il palmare dal display spento parve quasi occupare il posto che spettava a qualcun altro.
Lo fissai a lungo decidendo se era il caso di scrivergli. Di chiedergli perché Dougie era rientrato a Londra. Iniziai a formulare mentalmente il messaggio meditando su quale variazione di parole potesse essere la più indicata e immaginandone per ognuna una sua risposta. Peccato che non mi avrebbe risposto come non aveva risposto a nessuno dei messaggi che gli avevo mandato nelle ultime due settimane.
Ormai la sua posizione verso di me era chiara. Non voleva più saperne.
Mi odiava anche lui e, forse, ora che Dougie aveva lasciato il gruppo mi avrebbe detestato ancora di più.
Un nuovo filmato si intravvedeva in sottofondo mentre la voce di vari opinionisti presenti nello studio continuavano a dire la loro su quello che era accaduto tra i Mcfly. Ne riconobbi le scene immediatamente, erano le stesse che avevo visto per la prima volta solo pochissimi mesi prima quando al California Airport arrivarò la nuova band etichettata dalla Fascination.
Ricordai quella sera come se si fosse svolta il giorno precedente.
 
Le luci verdi lungo le ali furono rimpiazzate da quelle rosse che si accendevano e spegnevano ad intermittenza riflettendosi sui vetri degli oblò. Con un rumore stridente il carrello si abbassò toccando bruscamente l’asfalto ruvido della pista di atterraggio avanzando a lungo su di essa prima di fermarsi dopo un lento rallentamento. La voce metallica di una hostess che, cimentandosi in tre lingue diverse, annunciava ai passeggeri di poter slacciare le cinture di sicurezza dando istruzioni su come uscire ordinatamente dai portelloni laterali dell’aereo ai quali erano appena state agganciate le scale mobili.
Oltre gli oblò, il buio pesto.
“Ehi sveglia, amico. Siamo arrivati.” Tom si sentì scuotere bruscamente una spalla mentre la voce ilare di Harry lo riportava nel mondo reale. Dodici ore di volo erano state troppe anche per loro che erano abituati a prendere gli aerei con lo stesso ritmo con cui i liceali salivano sugli autobus per andare a lezione.
“Chi è arrivato? Dove?” Sobbalzò confuso guardandosi intorno notando con aria sconvolta di non essersi risvegliato nel suo letto caldo accanto a sua moglie e i suoi due gatti.
“Obama a Bachingam Palace, idiota.”
“A proposito di Obama, secondo voi verrà a sentirci?”
“No, ma se vede la tua faccia da terrorista in tv ci spedisce tutti a Guantanamo, Do’.” Una risata collettiva, qualche pugno scherzoso e gli sguardi degli altri passeggeri si posarono su di loro preoccupati. Si guardarono in viso scettici per poi ridere di nuovo mentre il velivolo si svuotava intorno a loro.
Le luci dei flash e degli obiettivi fotografici si confondevano tra quelli dei segnali sulla pista di atterraggio e degli altri mezzi nei paraggi. Scesi dall’aereo attraversare la folla di giornalisti e fans elettrizzate fu un’ardua impresa. Domande di ogni genere arrivavano una sull’altra come sparate da una mitragliatrice impazzita. Anche se avessero voluto rompere il silenzio mediatico a cui erano stati vincolati da contratto fino alla conferenza stampa con la nuova etichetta, rispondere anche alla metà di quelle era impossibile.
“Cosa vi ha spinti a lasciare la Island?”
“Di chi è stata l’idea della Fashinate Records? Sono stati loro a contattarvi o è stata un’idea di Dougie?”
“Cosa ne pensate di lavorare con la stessa casa discografica delle The Saturdays? Loro sono al corrente del vostro arrivo?”
“Signor Dougie, sono vere le voci su un suo ritorno di fiamma con la Sandford?”
“Si dice in giro che abbia deciso di riconquistare la sua ex fidanzata e strapparla al nuovo compagno, è vero?”
“Quando vi incontrerete di nuovo? E’ vero che le The Saturdays apriranno il vostro primo concerto negli USA?”
Gli sguardi preoccupati e irritati di Tom e Danny che si muovevano furtivamente tra la mischia per sfuggire all’assalto mediatico non perdevano mai di vista Dougie che a testa bassa ignorava le domande dei paparazzi tutte incentrate su di lui rispondendo di tanto in tanto con un freddo “No comment.”
Le porte scorrevoli che li separavano dall’uscita si aprirono davanti a loro, fuori dall’aeroporto un auto scura li attendeva per condurli nel residence dove avrebbero alloggiato. La preoccupazione aumentò quando con una risata divertita Dougie commentò come “elettrizzante” l’interrogatorio al quale era stato sottoposto.
Chiuse le porte dell’auto, ritornarono a respirare ormai al sicuro. Non c’era che dire, le strade americane erano così diverse da quelle inglesi. Le auto sfrecciavano a gran velocità sull’asfalto, le corsie enormi erano intraversabili per qualsiasi pedone, anche il più agile e scattante. Le luci delle insegne luminose di locali e night club dominavano ogni angolo della città superando quelle dei negozi di alta moda.
Fu un istante, un attimo fuggente e, dall’altro capo della strada un enorme cartellone pubblicitario ritraeva i loro volti sorridenti, il suo, i suoi occhi scuri e taglienti, avvolgenti, impenetrabili.
Si chiese a cosa stesse pensando nell’istante in cui era stata scattata quell’immagine, a chi.
Lei sapeva per certo del loro arrivo, non c’era rivista o programma musicale che non lo aveva annunciato e con molta probabilità era stata sottoposta alle stesse domande che avevano fatto  lui. Cosa aveva risposto? Sarebbe stata contenta di rivederlo?
“Smettila di pensarci e cerchiamo di non attirare casini.” Alzò lo sguardo verso Danny quasi colpevole, come se l’amico fosse riuscito a leggere nella sua mente.
“Tranquillo, andrà alla grande.”
“Avanti Da’, non cominciare con le tue solite paranoie e goditi il momento: siamo in America, amico.”
L’ingenuità di Harry era sempre stata motivo di burle e risate tra i ragazzi, ma in quel momento a qualcuno parve fuori luogo. 
Il chiasso di un clacson che suonava all’impazzata attirò poi la sua attenzione mentre l’auto svoltava in una strada meno trafficata raggiungendo in pochi minuti l’hotel.
“Cazzo, che sciccheria!” Esclamò Tom entrando nell’albergo quasi in punta di piedi notando l’arredo lussuoso nella hall circondata da un’infinità di specchi, divani e tappeti pregiati.
“E che personale di servizio…” Commentò Dougie fischiettando verso una delle cameriere che attraversava il corridoio della reception.
“Guarda la bionda. Che carrozzeria da infarto.” Bisbigliò Harry timidamente alle sue spalle.
“Le preferisco more e meno formose, amico ma non male.”
L’ennesima allusione. L’ennesimo doppio senso. L’ennesima conferma a tutti i suoi sospetti, pensò Danny. Ormai non aveva più il minimo dubbio.
Lanciò un’occhiata scettica a Tom alzando le spalle.
Aldilà del banco il concierge, un uomo alto sulla quarantina, prendeva le accettazioni per poi accompagnarli nei loro mini appartamenti ai piani alti dell’edificio all’interno dei quali li attendeva, stampato e siglato sul tavolino del salottino un foglio con il programma dell’intera settimana.
La conferenza stampa con la quale sarebbero stati presentati agli USA si sarebbe tenuta la sera stessa nella sala conferenze dell’albergo.
“Non perdono tempo, ‘sti qui. Neanche siamo arrivati e già ci caricano di lavoro.”
“Non lamentarti, Brò. Solo una settimana fa limavi annoiato le unghia a Bruce sul divano di casa.” Ricordò Tom a Danny camminando per la sala con fare esplorativo.
Certo avevano pensato davvero a tutti i confort del caso. Gli appartamentini erano tutti standadicamente uguali. Tutti e quattro sullo stesso pianerottolo riservato esclusivamente a loro. A tutti si accedeva attraverso un piccolo salottino circondato da enormi finestre che si affacciavano sul mare. Separata da una penisola in marmo la piccola cucina fornita di elettrodomestici di ultima generazione. Alle spalle del divano, dietro due enormi porte in vetro, la camera da letto perfettamente accogliente e confortevole. Due porte più piccole rivelarono la cabina armadio grossa quanto la vecchia cantina di Danny e il bagno con tanto di idromassaggio e doppio lavello.
“Cazzo. Cazzo. Cazzo. Guarda qua Brò.” Un urletto stridulo da ragazzina esasperata richiamò Danny ancora spaparanzato sul divano del salotto impegnato a leggere il programma che gli avevano lasciato.
“Che roba è quella?” Chiese raggiuntolo nel bagno mentre indicava varie bottiglie in vetro dalla forma strana.
“Boh.” Tom ne aprì una annusandola. “Ma puzza da far schifo.” La richiuse riposandola dove l’aveva presa.
“Allora? Cosa dice il buon vecchio Loraine?” Chiese tornando nella camera da letto dove, senza neanche sfilare le scarpe, si era gettato di peso sul letto reggendosi la nuca con entrambe le mani.
“Stasera la conferenza stampa. C’è un foglio con le probabili domande che potrebbero farci e le risposte che dobbiamo dare. Domani siamo a South Valley per un’apparizione in una trasmissione su Canale102, nel week invece siamo a Los Angeles. Si terranno due serate musicali dove parteciperanno i vari artisti del momento. Dalla settimana prossima avremo date nostre.”
“Ci sarà da annoiarsi, eh?” Borbottò sarcastico Tom prevedendo quello che sarebbe avvenuto da li a pochi giorni.
“Puoi sempre tornare a limare le unghie al gatto.” Rispose Danny lanciandogli addosso il foglio con gli impegni per poi dirigesi verso il proprio appartamento dove avrebbe iniziato a prepararsi per la conferenza che li attendeva.
 
Dopo l’interminabile e fastidiosa pubblicità il talkshow riprese a parlare della vicenda dei mcfly. Un’infantile stacchetto musicale con ballerini vestiti in modo bizzarro ne anticipò il ritorno in onda.  L’intera puntata era dedicata a loro.
Vari filmati si susseguirono l’un l’altro intervallati da commenti spesso inopportuni o infondati di gente che pretendeva di conoscere tutto di loro… di noi. Fischi vari partivano dal pubblico in studio ad ogni affermazione troppo cruda sul rapporto tra i ragazzi.
Il suo volto spento, amareggiato, colpevole al centro dello schermo. In una piccola finestra sovrapposta, il viso impassibile di Dougie mentre sfuggiva ai paparazzi al rientro a Londra.
L’ennesimo schiaffo in pieno viso, un’ulteriore fitta allo stomaco.
I suoi occhi. Il suo sguardo.
Stava male, forse anche molto più di Dougie. Uno era ferito, l’altro ne portava sulle spalle il rimorso. Uno era deluso, l’altro arrabbiato con sé stesso e con ciò che aveva rovinato la vita di tutti rivelando al mondo il suo errore. Uno era vittima delle circostanze, l’altro del proprio ingiusto destino che, per la seconda volta, lo aveva tradito giocando contro di lui.
Posai per l’ennesima volta lo sguardo sul telefono. La voglia di chiamarlo, di sentire la sua voce anche per un solo attimo, di dirgli che mi dispiaceva per come erano andate le cose, che mi mancava, che avrei voluto parlargli, vederlo, abbracciarlo di nuovo come quell’ultima volta prima che scoppiasse l’inferno. Chiedergli perdono per quello che stava accadendo.
La mano si mosse da sola in direzione del telefono. Un cruento scontro partì tra testa e cuore. L’una mi spingeva a scorrere con le dita sulla tastiera per formulare il suo numero, l’altra mi anticipava che me ne sarei pentita subito dopo. Lui non voleva sentirmi, lo sapevo, ma fermarmi fu impossibile nel momento in cui dall’apparecchio il suono squillante della chiamata era udibile anche se non avevo il palmare all’orecchio.
“Pronto.” Un sorriso mi si formò istintivamente sul viso nel sentire la sua voce. Prima di innamorarmi di lui, avevo amato lei. Una voce che non mi sarei stancata mai di sentire, ruvida, profonda, tagliente. Un brivido mi attraversò la schiena, la saliva si seccò in gola. Avvicinai il telefono e, facendomi coraggio, mi preparai mentalmente a dirgli tutto ciò che non ero riuscita a dirgli in quei lunghi mesi.
“Danny…” La luce violacea di un lampo riempì la stanza. Da li a pochi secondi sarebbe arrivato il rombo del tuono.
 Tirai un profondo respiro prima di riprendere a parlare.
“Scusami se ti ho chiamato, ma avevo bisogno di sentirti… ho bisogno di te.” Peccato che lui avesse riagganciato non appena aveva udito la mia voce. Sotto la cornetta rossa al centro del display il contatore riportava solo cinque secondi di conversazione.  Non mi aveva neanche lasciata parlare.
“Non piangere. Non puoi piangere. Non devi piangere.” Mi ripetei serrando gli occhi mentre sollevavo le coperte fin sulla testa accoccolandomi sotto il piumone. Prima o poi ci sarei riuscita, sarei riuscita a farmi ascoltare da lui. 
  
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