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Autore: kiara_star    31/10/2013    6 recensioni
[Crossover | Adam (Only Lovers Left Alive); Eric (Snow White and the Huntsman)]
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“Ci sono leggende che si tramandano per decenni, secoli, millenni.
Ci sono leggende che raccontano mille verità e poche bugie, molto più spesso, accade che sia solo una la verità narrata e miriadi le gocce di menzogna in cui essa si perde.”
[...]
Si avvicinò per riprendere la sua arma e fu allora che lo sentì: un battito di mani, secco, a intervalli regolari, un rumore sordo che ricordava in modo inquietante il dondolare di una campana.
«Lascia che mi congratuli con te, ragazzo. La tua tecnica è sublime.»
Alzò lo sguardo sul muro di mattoni grezzi alla sua destra e strinse forte le dita sull'argento.
Occhi spenti eppure accecanti, pelle pallidissima e una corona informe di capelli neri.
«Scendi da quel muro così ti faccio assaggiare la mia tecnica sulla pelle, bestia
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Crossover is the way!'
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A story ever told Altro strambo crossover Hiddlesworth per festeggiare(?) questo Halloween.
Eric lo conoscete tutti, Adam... beh, è Hiddleston con una parrucca riciclata dal set di THOR u.u
A parte gli scherzi, Adam è un po' Lokieggiante in questa storia, ma siccome è ancora un personaggio privo di caratterizzazione canonica, diciamo che si può chiudere un occhio, vero? Chiamatelo “effetto-parrucca”.

Buona lettura e Happy Halloween.
Kiss kiss Chiara










A story ever told





Ci sono leggende che si tramandano per decenni, secoli, millenni.
Ci sono leggende che raccontano mille verità e poche bugie, molto più spesso, accade che sia solo una la verità narrata e miriadi le gocce di menzogna in cui essa si perde.
Ci sono leggende che cambiano di bocca in bocca, di lingua in lingua ma che vengono conosciute in ogni angolo del mondo.
E poi, poi ci sono storie piccole, storie di uomini senza nome e senza importanza che vengono dimenticate.
Storie di cui nessuno ricorda l'inizio né la fine, storie che sono solo polvere su un libro mai scritto.
Adam faceva parte delle grandi leggende, delle leggende immortali come immortale era la sua maledizione e quella dei suoi fratelli.
Adam il vampiro musicista. Adam il bello, Adam che il solo incontrarlo era morte certa.
E infine c'era Eric, un'ombra come tante altre, perse nelle memorie.
Perché tutti conosceranno il mito dell'immortale vampiro Adam, nessuno saprà mai la storia di Eric, il cacciatore che dedicò la sua vita a dargli la caccia, che mai riuscì a trafiggergli il cuore con un paletto, ma il solo a cui il vampiro Adam donò quel cuore immortale.
Questa è quella storia mai raccontata e io son la voce che accetta di prender sulle spalle il fardello di narrarla.
A voi, nobili lettori, solo la preghiera di non dimenticare.



***

I. L'alba del Cacciatore


Eric aveva sette anni quando sua padre lo portò a caccia la prima volta, lo ricordava bene.
Ricordava il manto di neve che copriva la landa, gli alberi alti e spogli che sembravano disegnati di nero sullo sfondo bianco. Ricordava la lana che pizzicava il suo collo, il segno rosso sotto il mento di suo padre, poggiato per ore sul legno del fucile.
«Ci vuole pazienza, Eric, pazienza e calma.» Lo educò con rigore ed Eric annuì.
Sentiva la neve bagnare la sua pancia, gli abiti che sua madre aveva cucito con le poche stoffe che era riuscita a racimolare.
I guanti avevano troppi buchi per impedire al freddo di gelare le dita ed Eric le avvicinò alla bocca e alitò più volte. Suo padre lo guardò severo e lui lasciò che il freddo di dicembre congelasse la pelle senza più scaldarla.
Da dietro al tronco umido gli occhi di suo padre tornarono a osservare ciò che a Eric sembrava solo un paesaggio sterile e vuoto.
Cosa avrebbero cacciato? Cosa c'era da cacciare in quel freddo?
Voleva tornare a casa, voleva dormire accanto al fuoco con il profumo dello stufato, ma non avrebbero avuto uno stufato se suo padre non avesse trovato della selvaggina.
Sentì il colpo e si portò le mani alle orecchie tremando.
«Andiamo, figliolo.» Non avvertì neanche la mano sulla sua piccola spalla.
Aprì gli occhi e vide il corpo senza vita di un alce. Grande, immenso, steso immobile contro il tappeto nevoso.
Eric non seppe da dove fosse uscito, come avesse fatto suo padre ad abbatterlo.
Quella sera accanto al fuoco Eric non mangiò lo stufato.


*


A undici anni Eric uccise il suo primo coniglio.


*

Quando suo padre morì lasciandolo solo con sua madre, di anni ne aveva diciassette.
Sapeva sarebbe giunto il momento di prendersi le responsabilità della sua famiglia, non pensava giungesse così presto. Non sperava così presto.
Ma la febbre era durata giorni e con tutte le pelli che aveva venduto, non era riuscito ad acquistare le medicine necessarie e così, un mattino di un grigio autunno, suo padre spirò fra le lacrime di sua madre.
Eric non pianse, prese il fucile e quella sera tornò con un grosso bottino. Scuoiò i conigli uno per uno e ne cucinò le carni.
Sua madre pianse anche la notte.
Il giorno seguente gli consegnò una scatola di legno.
Eric l'aprì e capì solo allora che le lacrime non erano per suo padre.
«Sei un Cacciatore» gli disse tirando su con il naso.
Eric guardò il libro dalle pagine ingiallite, guardò il paletto che brillava di un metallo che non aveva mai avuto modo di vedere da così vicino, e prese la lettera che portava la calligrafia di suo padre.
“Per Eric”.
«Sei un Cacciatore» ripeté sua madre ancora una volta.


*


La prima volta che si era trovato le mani piene di sangue aveva urlato. Aveva urlato bestemmie e dannazioni, aveva odiato suo padre.
Guardava quel viso farsi sempre più pallido senza rendersi conto che stava piangendo, senza rendersi conto che tremava come un moccioso.
Tirò via il paletto e lo lanciò lontano.
Il sangue bruciava sulla sua pelle, il tanfo era nauseante e neanche l'acqua sembrava lavarlo via.
Urlò ancora.


*


La seconda volta andò meglio.


*


La centesima volta lo incontrò.


*


Alla taverna di Briston non era difficile trovare qualche preda. Eric passava due sere a settimana lì, quando era una settimana particolarmente negativa, anche tre.
Le femmine erano più facili da attirare. Bastava fingere di ricambiare i loro sguardi, bastava sorridere a propria volta e arrossire quando dicevano che aveva un bel viso.
Poi veniva naturale uscire e andare dietro al vicolo, era semplice lasciare che lo spingessero contro il muro. Tirare fuori il paletto e affondarlo nel loro bel seno prosperoso era solo l'ultimo atto.
Quella sera era il turno di una moretta dagli occhi nerissimi, dalle labbra rosse e dalla voce suadente.
Quando la vide contorcersi al suolo e poi smettere di dimenarsi si avvicinò per riprendere la sua arma e fu allora che lo sentì: un battito di mani, secco, a intervalli regolari, un rumore sordo che ricordava in modo inquietante il dondolare di una campana.
«Lascia che mi congratuli con te, ragazzo. La tua tecnica è sublime.»
Alzò lo sguardo sul muro di mattoni grezzi alla sua destra e strinse forte le dita sull'argento.
Occhi spenti eppure accecanti, pelle pallidissima e una corona informe di capelli neri.
«Scendi da quel muro così ti faccio assaggiare la mia tecnica sulla pelle, bestia
Si sarebbe aspettato la solita risata stridula, di quelle che gli facevano rivoltare lo stomaco, perché quelli erano animali arroganti e stupidi, troppo pieni di sé per capire quanto pericolosa fosse la superbia.
Degni figli del loro padre.
«Sono diverse notti che ti guardo.» E invece quello scese sul serio.
Non sorrise, non rise.
Fece solo pochi passi ed Eric serrò la mascella e le falangi. «Sei troppo giovane per essere un Cacciatore, ragazzo.»
«Non troppo per piantarti questo nel petto.»
«Allora fallo, lascia che mi goda lo spettacolo dalla prima fila, Cacciatore
Ed Eric lo fece, si avventò con ferocia su di lui, lo afferrò al collo e lo spinse a terra. Ghignò vittorioso.
Il paletto brillò alla luce della luna, ma quando lo piantò nel suo petto, Eric colpì solo il suolo.
Vuoto. La sua mano non stringeva nulla.
«Ma che-»
Poi fu solo un dolore alla schiena e il sapore ferroso del sangue in bocca.
Fu solo una voce all'orecchio. «Sei troppo giovane, ragazzino.»
Riuscì a trascinarsi fino a casa. Fu sua madre, come sempre, a curargli la ferita alla schiena.
«Devi stare più attento, Eric. Poteva ucciderti quell'animale.»
Tutto ciò che riusciva a chiedersi era perché non l'avesse fatto.


*


Nonostante lo conoscesse ormai a memoria, capitava che durante il giorno, quando si riposava sotto l'ombra di una quercia, Eric leggesse il diario di suo padre, il diario di un Cacciatore.
Anche lui avrebbe dovuto iniziare a scriverne uno perché, come aveva letto, era dovere di ogni Cacciatore far conoscere al suo successore ciò che aveva imparato nella sua vita, ciò che lo aveva aiutato nella sua missione, ciò che aveva sbagliato così che potesse essere di monito a chi lo avesse letto in futuro.
Suo padre scriveva che ogni cacciatore deve avere un successore.
Ogni Cacciatore che abbia un figlio maschio deve fare di quel figlio maschio un Cacciatore. Colui che non avrà la benedizione di una prole, dovrà saper scegliere un giovane coraggioso a cui tramandare il suo compito. Così è stato comandato da San Michele e così dovrà sempre essere.”
Eric si disse che non avrebbe mai avuto figli, che non avrebbe mai scritto un diario perché non l'avrebbe dovuto lasciare a nessuno.
Diciotto anni. Era questa la data, al compimento del diciottesimo compleanno, suo padre gli avrebbe consegnato quella scatola e gli avrebbe insegnato davvero cosa voleva dire cacciare.
Ma suo padre era morto prima di quel momento e tutto ciò che Eric sapeva di quel suo nuovo mondo erano frasi scritte in un diario e in una lettera.
Eric, figlio mio, se leggerai queste parole vorrà dire che non ho avuto modo di parlarti di persona.” Così iniziava.
So che saprai rendermi orgoglioso di te.” E così terminava.
Ma la frase che Eric leggeva e su cui ogni volta ingoiava un rospo di rabbia era: “Sii onorato della tua missione.
Eric non cacciava perché glielo aveva detto un padre morto in una lettera, o perché sua madre in lacrime gli aveva consegnato una cassetta contenente uno spaventoso segreto.
Cacciava perché era l'unica cosa che sapesse fare, era l'unica cosa che gli era stata insegnata.
Che fossero conigli, o alci, o bestie venute dall'inferno, non importava.
Eric era solo un cacciatore, nulla di più.
Avrebbe passato la vita ad esserlo, e forse un giorno sarebbe diventato una preda.
Un giorno lontano, pensò sotto l'ombra di una quercia.


*


Quel giorno arrivò prima del previsto.


*


Erano in due, due uomini.
Uno era il garzone di un barbiere, l'altro aveva l'aspetto di un signorotto, ben vestito e tutto profumato.
Riuscì a scansare il gancio di uno colpendolo con un calcio dritto allo stomaco. Si voltò per ritrovarsi le mani del garzone che lo stringevano al collo.
I denti aguzzi scintillavano a pochi centimetri dalla sua faccia. Il disgusto era così forte che avrebbe potuto vomitare.
I muscoli si tesero mentre gli tirava una testata.
L'altro alle sue spalle si era alzato e lo aveva spinto con il viso contro il muro.
«Devi avere un buon sapore, Cacciatore... Non ne ho mai assaggiato uno.»
Il paletto scivolò dall'avambraccio. Si voltò e colpì la bestia dritto al cuore. I suoi occhi si sgranarono e un urlo lasciò la sua gola.
«Sebastian! Lurido mortale!» Quando vide il garzone scagliarsi contro di lui spinse via il corpo dell'altro animale e lanciò il paletto contro il suo.
Un tonfo, un altro urlo.
Ora erano due i corpi a terra.
Poggiò le mani sulle ginocchia prendendo fiato. Era stato uno sciocco a lasciarsi seguire da entrambi.
Non si era accorto del garzone, credendo fosse solo il signore ben vestito la preda della serata.
Si accasciò al muro continuando a respirare, deciso a recuperare la sua arma se nonché vide con la coda dell'occhio una nuova ombra alla sua sinistra.
Scrutò il marciapiede spoglio illuminato dai fiochi lampioni.
Non un suono, non un rumore.
Cercò qualcuno, qualcosa, ma non trovò nessuno.
Quando tornò con gli occhi sui due corpi il suo cuore prese a galoppare forte: il suo paletto d'argento non era più dove lo aveva lasciato.
«È un'arma affascinante.» Riconobbe all'istante quella voce e la figura nascosta dietro a una carrozza. Era passato un pugno di anni dalla prima e unica volta in cui l'aveva incontrato. «La maggior parte dei cacciatori usa legno di frassino. Solo i membri di una Congrega hanno dei paletti d'argento, e questo è alquanto particolare...»
Cercò di regolare il battito mentre guardava i suoi occhi scorrere sul freddo metallo stretto fra le pallide dita.
Non aveva altro con sé a parte la sua arma, se quell'animale lo avesse attaccato in quel momento sarebbe stata la fine.
«Ne conviene che tu sei uno di loro, dico bene, ragazzino?» Lo guardò ed Eric si chiese se avesse notato il fremito di paura che gli aveva attraversato la schiena.
Aveva capito quella prima sera che non era come gli altri, che forse era più pericoloso. Pericoloso perché non riusciva a capiva cosa gli passasse per la testa.
Quelle bestie erano facili da decifrare: bramavano sangue e commettevano imprudenze e ingenuità quando si presentava loro la possibilità di averne.
«Un giovane membro della congrega. Di quale? Sei uno delle Tre Punte? O dei Fratelli della Fede?...» Le sue labbra sottili si piegarono all'insù ed Eric deglutì. «Hai perso la lingua o non sai minimamente di cosa sto parlando?»
«No, è che non spreco parole con un animale come te.»
Il coraggio del verbo quando manca quello delle azioni, così scriveva suo padre. Cercò di ricordare altri insegnamenti lasciati sui fogli gialli, ma tutto ciò che riusciva a fare era cercare di non respirare più forte.
«Mi credi un animale... È per questo che mi cacci, giusto?» L'essere fece qualche passo verso di lui facendo saltare nel palmo della mano il paletto. «Ma se fossi io a cacciare te... Allora saresti tu l'animale, non è così?»
Ormai gli era pericolosamente vicino. Non aveva armi, non aveva idee. Era solo un ragazzino spaventato che malediva il giorno in cui sua madre gli aveva mostrato quella cassa.
«Vuoi cacciarmi, quindi?» chiese e sentì la sua stessa voce tremare. Anche l'altro se ne accorse e ghignò appena.
Le spalle di Eric incontrarono il muro quando gli fu definitivamente di fronte.
«Saresti una splendida preda, non lo metto in dubbio.» Il freddo del paletto percorse la sua guancia, poi il suo collo finché non lo sentì pungere contro il petto. «Fa male, lo sai? Sentirlo entrare nella carne e aprirti in due... Non è una fine piacevole... La vuoi provare, Cacciatore?»
«Non ho paura di morire.»
Le sue labbra furono così vicine che avrebbe voluto urlare. «Sì che ce l'hai.» Sentì il suo fiato caldo contro la bocca e ingoiò un senso di disgusto. «Riesco a sentirla, la tua paura.» Di nuovo l'argento conto la guancia. «È inebriante.»
Non riusciva a spostare lo sguardo dal suo, gelido eppure profondo come l'oceano. Sapeva che quelli della sua razza potevano avere capacità particolari, capacità per manipolare e soggiogare gli umani. Si chiese se fosse per questo che non aveva ancora cercato di spingerlo via. Forse non era paura, non era il terrore a bloccargli gambe e braccia, era solo un trucco.
Lo era?
«Qual è il tuo nome, giovane Cacciatore?»
«Perché dovrei dirtelo?» Provò a fingere un sorriso beffardo, non seppe se ci riuscì, sentì solo il caldo di una mano contrastare con il freddo del paletto. Sentì le sue dita sfiorargli il viso e poi le labbra.
Il terrore crebbe.
«Perché stai per morire e voglio sapere su quale lapide dovrò portare un fiore quando ricorrerà l'anniversario di questa notte.»
In quell'istante pensò a sua madre, vide i suoi occhi in lacrime e la solitudine della loro casa.
«I-io...»
Stava tremando? In realtà non lo voleva sapere.
«Dimmi il tuo nome e ti lascio andare.»
Non gli credette. Quei mostri non avevano umanità e quindi neanche nobiltà. Non avrebbe mai mantenuto la parola. Lo avrebbe solo deriso e poi lo avrebbe ucciso con il suo stesso paletto, con il paletto di suo padre.
Cercò nel fondo delle viscere l'ultimo brandello di coraggio. Si sporse in avanti fin quasi a sfiorargli le labbra e sorrise: «Vai all'inferno, mostro.»
Ciò che successe dopo sembrò ancora più irreale.
Il paletto non gli perforò il petto, ma gli riempì il palmo.
L'essere si allontanò di qualche passo con un ghigno indecifrabile.
Eric si guardò palesemente confuso la mano di nuovo armata.
«Adam.» Quando parlò di nuovo tornò con lo sguardo su di lui. «Nel caso volessi sapere il nome di chi ti ha graziato, giovane Cacciatore.»
Avrebbe voluto rispondere qualcosa, ringhiargli che erano tutti uguali, che non avevano nomi, erano solo bestie infernali da rispedire al mittente.
Ma non disse nulla, lo guardò attonito finché non lo vide sparire nelle pieghe della notte.


*


La Congrega dei Figli della Neve.
Sull'ultima pagina del diario, Eric trovò un simbolo. Non gli aveva dato importanza fino a quella notte, finché gli occhi di Adam non lo avevano inchiodato al muro e nuove verità non gli avevano violato le orecchie.
Non c'era scritto nulla sulla Congrega né sulle altre, ma il simbolo di un fiocco di neve ne richiamava il nome.
Scoprì il resto grazie a Padre Jonathan, che lo aveva cercato un mattino di primavera.
Aveva bussato alla sua porta, coperto da un mantello marrone, con il viso tondo e gentile e una bibbia stretta nella mano.
Sua madre aveva avuto le lacrime sospese sulle ciglia mentre lo faceva entrare in casa.
Eric era accanto al fuoco a scuoiare l'ennesima lepre.
«Sei il ritratto di tuo padre.» Fu la prima frase che gli rivolse.
«Perché adesso?» In fondo erano ormai sei anni che era un cacciatore, eppure quell'uomo di chiesa con mille segreti da svelargli aveva bussato con più di un lustro di ritardo.
«Perché adesso è necessario che tu sappia tutto, Eric.»
«So abbastanza, e ora puoi anche andartene, prete.» Il coltello si era conficcato nel legno del tavolo con ferocia eppure Padre Jonathan non aveva mostrato turbamento.
«Identico a lui non solo nell'aspetto...» Aveva sorriso, aveva fatto un cenno con il capo. «La Congrega dei Figli della Neve. È il nobile ordine a cui apparteneva tuo padre.»
«Di che stai parlando?» La voce di Adam risuonò nella sua testa, e si sentì nudo e spaventato a pensare che quella bestia immonda conoscesse la sua vita meglio di quanto non la conoscesse lui stesso.
«Dieci Congreghe Sacre, dieci ordini a cui giurano fedeltà tutti i cacciatori sparsi per questo mondo. Dieci Congreghe, perché dieci erano gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele al termine della biblica lotta.»
Assorbì ogni parola come fosse pece che gli scendeva sulla pelle, ardeva e non andava via.
«Perché non c'è scritto nel diario? Perché mio padre-»
«Lui lasciò la Congrega prima che nascesti.»
Sentì il pianto sommesso di sua madre, ma non riuscì a spostare lo sguardo dal viso del prete, da quel viso che sembrava sereno in maniera inquietante.
«Perché?» La domanda era debole e incerta, eppure abbandonò le sue labbra comunque.
«Perché essere un confratello della Congrega è un onore non privo di obblighi.»
«Quali obblighi?»
Padre Jonathan si alzò dalla sedia e prese la sua bibbia. «Tuo padre era un grande Cacciatore, uno dei più abili e dei più coraggiosi e-»
«Quali obblighi? Perché sei qui? Cosa devo sapere sul serio?» ringhiò sbattendo le mani sul tavolo. Il pianto di sua madre si fermò, ma forse lo aveva solo soffocato con una mano.
Il religioso prese un respiro e annuì. «Dieci sono gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele come dieci sono quelli che asciugarono le lacrime di Lucifero. Dieci Congreghe per dieci Casate. Un Mastro per un Sire.»
Non capiva, era un fiume informe di notizie che non riusciva ad assimilare. Non fu necessario porre domande, le risposte arrivarono tutte.
«Tuo padre era un Mastro, il Mastro dei Figli della Neve. Abbandonò il suo compito per crescerti, per proteggerti dalla verità finché non saresti stato pronto ad affrontarla. Purtroppo il destino ha voluto che non fosse lui a educarti a questa missione, ma è giunto il momento che tu sappia che coloro che hai affrontato finora sono niente rispetto ai demoni che li guidano. E in cima a tutti ci sono i Sire delle Casate di Lucifero.»
«Un Mastro per un Sire...» sospirò fissando il tavolo. «Che vuol dire?»
Quando tornò a guardare Padre Jonathan vi trovò un sorriso.
«Significa che la tua intera vita sarà devota alla ricerca e all'uccisione di quel Sire e solo a quel punto l'intera Casata sarà sconfitta. Tuo padre non riuscì a tenere sulle spalle il suo fardello e non gliene faccio una colpa, ma tu, Eric, hai il dovere di adempiere a quel compito eluso non per paura ma per troppo amore. Hai il dovere di trovare quel Sire prima che sia lui a trovare te. Ecco perché sono qui, figliolo.»
Il suo cuore iniziò a battere a un ritmo stranamente regolare, avvertì i respiri scendere profondi fin dentro alle ossa e poi abbandonare la sua gola carichi di certezze.
Una, la più forte di tutte lasciò le sue labbra con ironica sicurezza. «Sei in ritardo, prete.»


*


Eric iniziò a spuntare paletti di frassino, iniziò a nasconderli negli stivali, nella cintura, sotto al cuscino, nella testa dell'ascia con cui spaccava la legna.
Iniziò ad ascoltare i passi silenziosi che lo seguivano quando andava a caccia.
Inizio a sentire il profumo della Morte ogni volta che gli aleggiava intorno.
Iniziò sempre più a bramare il tramonto.
Sapeva che i passi si sarebbero presto arrestati, che la Morte lo avrebbe fronteggiato spoglia di una qualunque maschera d'ombra.
Sapeva che presto, una di quelle notti, si sarebbe ritrovato di fronte di nuovo quegli occhi.


*


E la notte giunse.
Giunse precisamente un anno dopo la sua grazia.


*


Stava tornando verso casa. Mancava poco all'alba e il cielo di un tenue viola era maestosamente limpido sulla sua testa.
Una schiera di alberi spogli costeggiava il sentiero che percorreva ormai da anni, il sentiero che divideva la sua dimora dal villaggio, la sua pace dal suo inferno.
Sua madre lo stava aspettando con le pezze immerse nell'acqua calda, con le radici di malva e il fondo di un vecchio whisky.
La spalla bruciava, bruciava terribilmente e forse quel whisky sarebbe stato costretto a buttarlo giù tutto.
Si scostò la maglia e guardò stizzito lo squarcio che tagliava di netto la sua pelle, il sangue si era arrestato ma ciò non voleva dire che il peggio fosse passato. Un'infezione era possibile e curarla avrebbe portato via denaro e tempo e lui non voleva restare una sola notte nel suo letto.
Una notte senza caccia era una notte non vissuta.
Si era spesso chiesto anche da bambino perché non bramasse il sonno come gli altri, perché dormire sembrava così superfluo, perché gli bastava chiudere poche ore gli occhi anche su una scomoda panca di legno per sentirsi rigenerato.
Perché era un Cacciatore.
La risposta era giunta anni più tardi fra le pagine di un vecchio diario.
Ricoprì la ferita e distese i muscoli del collo. Quei cinque animali lo avevano letteralmente sfinito.
Aveva trovato sempre più utile l'utilizzo dei paletti di frassino: erano leggeri, maneggevoli e soprattutto non lo obbligavano a recuperare l'arma ogni volta.
Fece un passo, poi un altro e quando udì lo spezzarsi di un ramo alle sue spalle si fermò.
Prese un profondo respiro e decise di non badare alla serata piuttosto sfavorevole, qualcosa nella sua testa gli suggeriva che era per questo che si era fatto vivo solo allora.
«Sei ferito.» All'udire la sua voce ebbe un breve brivido. Era davvero lì.
«Sono i rischi del mestiere» sibilò voltandosi lentamente. «Ci si può far male.»
Sembrava non fosse passato un giorno dall'ultima volta. Indossava la stessa camicia candida, la stessa giacca di un rosso troppo acceso, gli stessi pantaloni nerissimi e la stessa immutata luce negli occhi.
Per quanto pochi fossero gli anni scivolati via da quando si erano incontrati la prima volta, Eric sentiva di avere poco di quel ragazzino arrogante che aveva creduto di ucciderlo al primo colpo, ancora meno di quello che un anno prima si era lasciato mettere con le spalle al muro.
Aveva una leggera barba adesso, i capelli più lunghi e qualche ferita di più a ricordargli cosa fosse.
«Ho notato che hai abbandonato l'argento... È un vero peccato.» Seguì guardingo i suoi passi che lo portavano ad avvicinarsi a lui.
«Legno o argento non ha importanza, entrambi ti entrano nella carne e ti aprono in due... Non è così che hai detto?»
Sorrise. Un sorriso debole e appena accennato. Un sorriso che sapeva essere terrificante nella sua leggerezza.
«A dire il vero non so cosa si provi.»
«Non ancora.»
Stavolta il sorriso si allargò ed Eric avvertì il sangue pompare nei muscoli forte e deciso.
Era pronto.
«Credi davvero di potermi uccidere, Cacciatore?»
Ormai erano solo pochi metri che li dividevano. «Perché non dovrei? Forse perché sei un Sire?»
Non scorse l'ombra di alcuna sorpresa sul suo viso.
«Oh, bene... facciamo progressi. È stato il tuo Mastro a informarti?»
La sua gola lasciò andare una risata che risuonò beffarda alle sue stesse orecchie.
«Mi segui come un'ombra da mesi e ancora non l'hai capito.»
Un solo unico passo. L'ennesimo sorriso. «Tu sei un Mastro, lo so. Il figlio di Victor.»
Eric, letteralmente smise di respirare. Tutta la sicurezza defluì dal suo corpo come il colorito dalla pelle, era più che certo che in quel momento lui e Adam avessero praticamente lo stesso viso pallido.
«Tu sai-?» La domanda gli morì in gola non appena le dita di quella bestia si avvolsero attorno al suo collo. Sentì il battito aumentare repentino e la testa far male.
«Sei lo stesso ragazzino di un anno fa, Eric, lo stesso ragazzino spaventato e debole.» L'aria mancava sempre di più e si ritrovò ad accasciarsi sulle sue stesse ginocchia. Le mani strette attorno a quel polso e gli occhi a implorare. Pietà, morte.
Non sapeva cosa vi giacesse realmente sul fondo.
«Sei lo stesso ragazzino per cui Victor abbandonò la sua battaglia venti anni fa.» Poi l'aria tornò a riempirgli i polmoni quando si sentì gettare senza troppi complimenti a terra. Tossì tastandosi la gola dolente e seguì con lo sguardo ormai annebbiato i suoi passi.
«Come avrei potuto non riconoscere il figlio di Victor? Sei la sua copia, Eric.»
A sentirgli pronunciare il suo nome quel breve respiro appena ritrovato si smorzò.
«Come...»
Come fai a conoscere il mio nome? Come sai chi sono?
Padre Jonathan gli aveva detto che suo padre aveva abbandonato l'ordine e la sua stessa patria per poterlo crescere al sicuro da quel mondo di tenebre. Nessuno, neanche i suoi confratelli, sapeva dove fosse e che vita stesse vivendo ora. Nessuno sapeva avesse un figlio di nome Eric.
Ma Adam sapeva. Sapeva chi era, l'aveva sempre saputo anche quella prima notte.
Perché mi hai lasciato vivere?
Ogni domanda restò muta ad aleggiare nel suo sguardo.
Adam le lesse tutte, Eric lo capì dal sorriso sulle sue labbra.
«Avevi solo un paio di anni. Eri piccolo e gracile e giocavi sulle sponde di un lago vicino casa tua...»
Il cuore gli pulsava forte nelle tempie, doloroso e incontrollato mentre stringeva nel pugno della mano la terra umida su cui si ritrovava in ginocchio. Adam gli si avvicinò e si chinò. «Victor mi pregò, mi supplicò di non farti del male. Non lo avevo mai visto supplicare nessuno, non Victor, non il Mastro della Congrega dei Figli della Neve, eppure ti teneva stretto fra le braccia con le lacrime a bagnargli il volto... Patetico.»
«Non è vero» sospirò cercando nelle sua memoria quegli occhi, quel viso, quel momento. Cercando senza trovarlo, il pianto di suo padre.
Suo padre non aveva mai pianto, Eric non lo aveva mai visto piangere perché piangere non era da uomini, era da deboli. Ricordava la forza di suo padre, il coraggio, la severità ma anche la pazienza con cui gli aveva insegnato a caricare e pulire un fucile, a saper scegliere un buon punto per la vedetta e il momento perfetto per scagliare il colpo.
No, quell'essere mentiva, stava impiantando semi malati nella sua testa.
Non era vero, non poteva essere vero.
Adam scosse la testa e si alzò dandogli le spalle.
«Sei degno di Victor, in te scorre lo stesso sangue da codardo, Eric.»
«Non osare neanche pronunciare il suo nome!» ringhiò cercando la forza di mettersi in piedi. Ci riuscì traballando sulle sue stesse gambe. «Se mio padre non è riuscito a ucciderti, lurida bestia, stai pur certo che suo figlio completerà l'opera.»
Ancora gli dava la schiena, con i capelli a sfiorargli le spalle che si muovevano appena. L'ombra della notte andava sparendo e ormai l'alba era prossima.
Eric sapeva cosa accadeva quando sorgeva il sole, era conscio che i raggi del giorno avevano lo stesso effetto di un paletto, e allora perché...
«Pensava fossi lì per te...» Poi si voltò e un primo raggio gli illuminò il volto. «Non era così, ma ora sì, ora sono qui per te, Eric.»
Eric corrucciò la fronte quasi non prestando più attenzione alle sue parole. Guardò l'arancio scaldargli la pelle e far diventare i suoi occhi pericolose gemme chiare.
Perché non bruciava? Perché non si riduceva in polvere urlando come la bestia che era?
Chi sei?
Diede uno sguardo confuso al sole dietro le colline e poi tornò di nuovo al suo volto.
Non lo trovò.


*


Era tornato all'alba tremando, con le mani e gli abiti sporchi di terra, con la vita che quasi aveva abbandonato la sua carne.
Si era seduto al tavolo e aveva bisbigliato un nome: Adam.
Sua madre lo aveva guardato e aveva abbassato il capo.
«È tornato.»
Eric non sapeva da dove nacque quel sorriso. «Non è mai andato via.»
Aveva continuato a tremare finché le braccia magre non gli strinsero le spalle.
Poggiò la testa contro il suo petto e lasciò che gli accarezzasse i capelli come faceva quando era un bambino.
Un bambino piccolo e gracile.
Avrebbe voluto piangere; sua madre lo fece per lui.


*


Sotto la pioggia di un venerdì di gennaio, Eric poggiò un fiore rosso sulla croce di legno.
Non versò una lacrima.
Guardò l'altra croce di faggio accanto, più vecchia, più malconcia e deglutì mentre l'acqua gli bagnava i capelli e i vestiti.
«Lo prenderò, padre.»
Non aveva più nulla da proteggere, adesso. Aveva solo qualcuno da distruggere.
Aveva solo una missione.
«Lo prenderò.»


*


Due occhi guardarono il giovane posare il fiore sulla croce.
Ascoltò le sue parole.
Le labbra sorrisero.









***


  
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