Questa OS partecipa al contest «Medioevo: ma quale epoca buia?!»
Alcune precisazioni per la lettura:
Zhongdu è
l'odierna Pechino. Venne conquistata dai Mongoli nel 1215. Le
informazioni su Internet sono però differenti: Wikipedia, per
esempio, parle di "Yanjing";
Temujin è il nome di quello che sarebbe poi diventato Gengis Khan;
La Festa di Primavera è ciò che noi chiamiamo «Capodanno cinese»
Per quanto riguarda il significato dei nomi: Ming-Mei («intelligente e bella»), Xi-Wang («speranza»), Zhuang («forte»), Yuxin («yu: pioggia» , «xin: felicità») e Daiyu («giada nera»).
Per qualunque altra precisione, chiedete pure :)
Buona lettura!
Fiore d'Oriente
Come la fiamma di un lume sale anche se capovolta, così l’uomo dal piegato destino si rialza per lottare.
[Proverbio cinese]
Zhongdu, anno 1210
«Mio
imperatore!» Il piccolo uomo riccamente vestito si
inginocchiò davanti alla figura seduta sul trono. «Temujin
sta avanzando con il suo Touman verso il confine dei nostri territori.
I Vostri soldati riferiscono che non intende arrendersi... l'invasione
avrà inizio tra pochi mesi al massimo.»
Chin Xuan Zong chiuse gli occhi e si alzò di scatto dal trono,
irato. «Vuole la guerra? Bene, non sarò di certo io a
sottrarmi allo scontro. I Meng-ku capiranno cosa significa essere
nemici della Cina.»
«Imperatore, se posso permettermi-»
«No. Prepara il nostro esercito per la guerra, mobilita soldati
da ogni angolo dell'Impero e dì loro di recarsi ai confini
nord-occidentali del Paese, ordina che rafforzino la Grande Muraglia in
vista dell'orda di quel selvaggi e chiama i nostri migliori comandanti
a palazzo, insieme prepareremo una strategia.»
«Come desidera, Imperatore.»
*******
Zhongdu, anno 1215
«Allarme, i Meng-ku ci attaccano!»
Fu quel grido a cambiare per sempre la vita di Ming-Mei. Quel
pomeriggio la giovane stava leggendo sulle colline della grande
Zhongdu, quando il grido dei soldati di guardia alle mura la sorprese.
Da mesi ormai i Mongoli si stavano avvicinando alla capitale,
distruggendo i villaggi, saccheggiando, devastando i raccolti ed
uccidendo, ma niente in quel pomeriggio di sole avrebbe lasciato
presagire l'arrivo di quel popolo di selvaggi.
«Devo andare.» sussurrò spaventata la ragazza,
cominciando a correre a perdifiato lungo il pendio della collina,
mentre le trombe dei soldati davano l'allarme e scatenavano il panico
tra i sudditi.
Dall'alto del suo palazzo il grande imperatore di Cina, le mani giunte
dietro la schiena ed il cappello di porpora calato sul capo, guardava
mesto le piccole case della città, le mura e all'orizzonte,
oltre i campi coltivati ed i boschi, l'orda dei barbari che avanzava
urlando.
*******
Aveva
il fiatone. Correva da più di dieci minuti ormai, ma il popolo
nel panico e le marce dei soldati l'avevano rallentata a tal punto che
si trovava ancora lontano da casa sua, intrappolata nella folla urlante
di madri che cercavano i propri figli e uomini che correvano preparando
il necessario per la fuga.
Cosa stavano facendo in quel momento i suoi genitori?
Per un attimo ebbe paura di non ritrovarli nella calca di persone che
le impediva il passaggio, ma tutte quelle sensazioni svanirono nel
momento in cui qualcosa, o qualcuno, la colpì alla testa e lei
cadde a terra, svenuta.
Quando
rinvenne, il silenzio di quelle vie era interrotto solo dal sibilo del
vento e da urla lontane, selvagge e primitive, che parevano giungere
dall'altro capo della città, da ovest.
Le strade deserte sembravano essere state abbandonate da diversi
minuti, solo qualcuno era rimasto nella propria abitazione, forse
sperando di riuscire a nascondersi, oppure aspettando la morte,
arrendendosi all'evidenza dei fatti: i Meng-ku erano penetrati in
città. Nessuno sarebbe stato più al sicuro da quel
momento in poi, nessun luogo avrebbe potuto proteggere dall'orda nemica.
Riprese a correre, in fretta, sempre più in fretta. Non importava che il dolore alle gambe fosse divenuto quasi insopportabile, che i piedi inciampassero continuamente nel vestito o che la direzione in cui stava andando per raggiungere la sua casa fosse anche quella da cui provenivano le grida degli invasori. Doveva raggiungere la sua famiglia.
Arrivò
a destinazione dopo altri dieci minuti, con le gambe a pezzi, il fiato
corto e la gola secca per la corsa. Girò l'angolo, cauta, ma
tutto ciò che riuscì a vedere fu il rosso del fuoco che
divampava in quella che era stata la sua abitazione. Che i suoi
genitori fossero ancora dentro o meno, non lo sapeva.
Scossa, rimase ad osservare quel devastante spettacolo per minuti
interi, finché non udì voci di uomini avvicinarsi,
urlando parole in una lingua che lei non conosceva, ma che in quel
momento le parve rozza e volgare. Meng-ku.
Non fece nulla per fuggire. Non le sarebbe servito, non in quel momento
in cui, presa dalla stanchezza e dallo sconforto, l'unica cosa che
avrebbe voluto fare era chiudere gli occhi e non vedere più
quello scempio, rifugiarsi nei ricordi di una famiglia felice e di una
città ridente.
«Ehi, guarda là, ce n'è ancora una!»
L'avevano scoperta. «Prendila e mettila assieme alle altre, avanti!»
Ming-Mei non sapeva cosa avessero detto, ma l'uomo corpulento che aveva
parlato spintonò un altro di loro, che avanzò verso di
lei brandendo una rudimentale lancia. La ragazza aspettò,
terrorizzata ma consapevole di non poter fare nulla contro quei
guerrieri. L'uomo la guardò e per un momento le parve di vedere
un lampo di compassione attraversare i suoi occhi. Poi quello
alzò il braccio e la colpì con il legno del bastone.
Tutto si fece buio per la seconda volta in quell'infausta giornata.
*******
Ming-Mei
si svegliò dopo quella che le parve un'infinità di tempo.
La testa le doleva e quando alzò piano un braccio per toccarla,
la sentì pulsare.
«Ti sei svegliata?»
Le palpebre non volevano saperne di alzarsi e nemmeno il resto del
corpo sembrava voler collaborare, ma lei si costrinse a sedersi.
Aprì gli occhi e scoprì di trovarsi in quella che poteva
essere una vecchia cantina. L'odore di spezie si mescolava a quello
umido del luogo che rendeva l'aria pesante. L'unica fonte di luce era
rappresentata da una torcia appesa al muro, accanto ad una grande porta
in legno.
Spostò l'attenzione verso le persone che, con lei, erano chiuse
in quella stanza. Perché, sì, probabilmente erano
divenuti tutti prigionieri di guerra, schiavi. O meglio, schiave,
poiché si rese conto di essere in compagnia di sole ragazze.
Molte avevano la sua età ed erano sue conoscenti, ma c'erano
anche donne più mature e addirittura bambine, tutte svenute,
frastornate o, quelle che di loro erano sveglie, terrorizzate.
Quella che le aveva rivolto la parola era una ragazza forse di qualche
anno più giovane, che la guardava intimorita con un po' di
curiosità.
«Dove ci troviamo?» riuscì a farfugliare.
«Nel palazzo dell'Imperatore.» rispose prontamente quella.
seria «I Meng-ku stavano per vincere, ma l'Imperatore è
fuggito ed ha spostato la capitale a Kaifeng. Gli invasori,
però, hanno preso possesso del palazzo e ci hanno detto che
torneranno presto qui.» sussurrò.
Allora era davvero tutto finito. Non avrebbe mai più rivisto i
suoi genitori, avrebbe passato il resto della sua breve vita da schiava
nelle mani del popolo dei selvaggi a cavallo.
«Hanno bloccato le uscite di Zhongdu, chi non è riuscito a
scappare ha dovuto far ritorno a casa e rimanerci.»
Doveva solo aspettare, stare ferma e attendere ciò che la sorte le avrebbe riservato...
La
porta si aprì con un tonfo e due uomini vestiti di pelli
entrarono, prendendo in mano la torcia e confabulando parole
incomprensibili tra di loro, ridendo.
«Sono una decina, vero?»
«Si, vai di là e prendine un poche.»
Un mormorio spaventato accolse i due guerrieri mentre questi avanzavano
tra le ragazze, che al loro passaggio si stringevano ancora di
più nelle vesti. Alcune tra le più anziane vennero fatte
alzare con la forza da uno dei due uomini, mentre l'altro camminava
dalla parte opposta. Quando guardò Ming-Mei, la ragazza
pensò di non aver mai visto un viso più spaventoso di
quello.
«Tu.» non parlava cinese, ma la ragazza capì che si
stava riferendo a lei. «Alzati.» le fece segno con le
braccia.
Tremante, le gambe che non la reggevano in piedi, lei obbedì e
si ritrovò intrappolata nella stretta dell'uomo che la
portò fuori da quel posto.
******
Da
qualche giorno Ming-Mei aveva cominciato a prestare servizio al palazzo
imperiale, ormai occupato dai nuovi conquistatori. Ancora non voleva
rendersi conto della realtà dei fatti, ancora sperava di di
incontrare di nuovo la sua famiglia.
«Arrenditi all'evidenza, ragazza, eviterai di soffrire ulteriormente.»
«Ormai sono tutti morti, e se non lo fossero tu non li rivedrai.»
Le avevano detto questo le cuoche a cui aveva chiesto informazioni al
suo arrivo nelle cucine poco dopo il suo arrivo, prima di spedirla alla
sala da pranzo dove faceva da cameriera ai più importanti
guerrieri meng-ku.
Quel
giorno, mentre portava i vassoi con il cibo, si accorse che qualcosa
era diverso. Aveva appena messo piede nella sala, quando si accorse del
silenzio che vi regnava, ma non osò alzare il capo e guardare in
faccia quei visi dall'aspetto brutale, minaccioso.
Posò i piatti sul lungo tavolo e si inchinò in fretta per
fuggire dalla stanza che in quel momento le sembrava ancora più
tetra.
Commise un solo errore, ma fu quello a rovinarla per sempre.
Alzò gli occhi per un unico, veloce secondo, ed incontrò
lo sguardo di un uomo dall'altra parte del tavolo. Non si trattava di
un comandante qualunque, di questo era certa. Bastava guardarlo: la sua
figura era imponente, non tozza e grossa come quella degli altri
guerrieri. I capelli avevano lo stesso colore della pece e cadevano
lunghi e ribelli fin sotto le orecchie. Il viso era quello di un uomo
segnato dal tempo, qualche ruga percorreva il volto pieno di cicatrici
procuratesi in chissà quante battaglie. Quell'uomo possedeva uno
sguardo incredibile. Due occhi così, Ming-Mei non li aveva mai
visti in tutta la sua vita. Avevano il colore del mare, anzi, sembrava
che quell'uomo avesse osato strappare due pezzi del cielo all'alba di
un estate.
Non era il viso di un Dio, ma quello di un essere demoniaco arrivato lì con il solo intento di distruggere.
Prima di distogliere lo sguardo, la ragazza lo poté vedere
chiamare una delle altre giovani serve e farla chinare per dirle
qualcosa. I suoi occhi di cielo non si spostarono da lei per un solo
attimo.
Ming-Mei ormai ne era certa: aveva appena incontrato il volto di colui
che era passato sulla bocca di tutti con il nome di Gengis Khan.
Aveva
finito il lavoro da quasi un'ora e si stava recando nella stanza che
condivideva con altre serve, quando una delle inservienti la raggiunse
e le parlò: «Il padrone vuole vederti, mi ha detto di
lavarti e di farti indossare abiti puliti. Vieni con me.»
Attonita ed impaurita, Ming-Mei la seguì.
«Chi è il padrone?»
«Il nuovo comandante, Khan.»
L'uomo dagli occhi di cielo... Cosa voleva da lei?
Si
trovava nella camera più lussuosa in cui avesse mai messo piede.
Era stata trattata con tutti i riguardi dalla serva che l'aveva lavata
in una grande vasca di marmo, le aveva pettinato i capelli e le aveva
profumato la pelle con oli ed essenze dal profumo delizioso.
Le era stata fatta indossare una raffinata sottoveste di lino, simile a
quella che possedevano le ricche cortigiane dell'Imperatore, poi era
stata lasciata sola in quella grande stanza.
Aveva finalmente capito la sorte che l'avrebbe investita da lì a poco.
La
porta si chiuse dietro l'enorme figura di Gengis Khan. L'uomo era
entrato di soppiatto ed aveva fatto spaventare la giovane che,
impaurita, se ne stava rannicchiata in un angolo del grande letto.
Alzò la testa guardandolo con quegli enormi occhi scuri, quando
lui si avvicinò e cominciò a togliersi i vestiti, senza
smettere di fissarla.
«Ming-Mei» parlò l'uomo con voce profonda «non avere paura.»
Parlava in cinese, il mostro più spaventoso tra i Meng-ku. Ma la
ragazza non vi prestò attenzione, troppo preoccupata quando lui
cominciò a toglierle la veste preziosa.
Non parlò, non protestò. La giovane ragazza lo
lasciò fare, lasciò che le facesse del male fisicamente e
mentalmente, ma non si oppose. E quella fu soltanto la prima delle
innumerevoli notti che trascorse assieme a quell'uomo spaventoso.
Del resto, non era mai stata capace di decidere della sua vita. I suoi
genitori, i suoi fratelli, i suoi padroni. C'era stato sempre qualcuno
a scegliere per lei.
Ming-Mei non viveva.
Ming- Mei si lasciava trasportare dagli eventi della vita, senza aprire
la bocca e far sentire la propria voce tra le urla di chi aveva
più potere di lei.
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Zhongdu, anno 1216
Aveva
in mano un cesto con quel pochi averi che le erano stati concessi dal
suo vecchio padrone, e al collo la fine collana d'oro che Khan le aveva
fatto indossare poche ore prima della sua partenza dal palazzo, come
«segno di riconoscenza per il lavoro svolto», le aveva
detto lui. Ma Ming-Mei avrebbe voluto gettarla nei meandri della terra,
tanto era disgustata da quel dono che sembrava scottare sulla pelle.
Era arrivata da alcuni minuti davanti a quella casa. Non l'abitazione
dei suoi genitori, quella era stata rasa al suolo dall'incendio.
L'unica famiglia che le rimaneva, l'unico posto in cui poteva ancora
rifugiarsi, era la casa di sua cugina, Daiyu .
L'avrebbe mai accettata in quello stato?
Bussò ed attese. La donna che dopo qualche minuto uscì
dalla modesta abitazione era una piccola signora dall'aria gentile ed
il viso truccato, che la vide e le corse incontro.
«Ming-Mei, amica mia, come stai? Cosa ci fai qui?»
La ragazza si lasciò abbracciare, poi entrambe entrarono in casa
e lei raccontò tutto all'amorevole cugina, che l'ascoltò
per tutto il tempo, annuendo preoccupata e consolandola quando le
lacrime si fecero troppo forti per essere trattenute.
«Shh, non ti preoccupare. Mio marito sarà d'accordo... resterai a vivere con noi... e lui con te.»
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Zhongdu, anno 1217
Mesi
interi erano passati dal suo ritorno a casa, e la primavera era ormai
sbocciata nell'estate, assieme agli alberi in fiore e alla natura che
si manifestava in tutti i suoi colori. Zhongdu e l'intera Cina erano
bellissime in quel periodo dell'anno, ma nulla poteva ormai giovare
all'umore nero di Ming-Mei, che passava la maggior parte delle sue
giornate al lago nei pressi della città, seduta sotto un tronco
di ciliegio fiorito e tinto di rosa. Si sentiva l'unico elemento in
contrasto con tutti quei colori e quella serenità che aleggiava
nell'aria. La Cina non stava passando dei bei periodi sotto il comando
di Khan, ma la natura rigogliosa sembrava non curarsene, e allora
sbocciava in tutte le sue allegre tonalità, quasi sperasse di
poter cambiare il corso degli eventi che ormai, per molti uomini, aveva
cambiato per sempre direzione.
Era triste, Ming-Mei. Sentiva che la vita non le avrebbe più riservato un'altra occasione per essere felice.
Ma per quel momento doveva sopravvivere.
Si toccò la pancia gonfia.
Si, sarebbe sopravvissuta per lui.
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Le
urla si potevano udire anche a distanza. Nove mesi erano ormai passati
da quando viveva nella sua nuova casa, e per Ming-Mei era ormai giunto
il momento del parto.
Fu difficile, estenuante per una giovane ragazza, ma dopo ore di dolore
poté finalmente vedere il frutto di tutta quella fatica,
poté toccare con le proprie mani il piccolo essere che aveva
cresciuto nel proprio grembo per mesi.
«È femmina.» constatò.
Aveva sperato fino all'ultimo che nascesse un maschio, in modo che non
dovesse correre il rischio di vivere la sua stessa esperienza, ma le
sue preghiere agli dei non erano state esaudite.
Ming-Mei
aveva ormai esaurito il suo compito. La sua bimba, la sua amata bimba,
era nata e avrebbe trovato una famiglia e degli affetti nei suoi zii e
nei cugini.
Baciò sua figlia, la depose nella culla e, con il male nel
cuore, uscì dalla casa, diretta ai confini della città.
Era
pomeriggio inoltrato quando raggiunse le alte torri delle mura. Il
cielo terso aveva lasciato il posto a grossi nuvoloni neri che
minacciavano pioggia.
La sua vita era stata un disastro. Lei era un disastro.
Non aveva saputo cogliere le occasioni, ridere, vivere. Aveva passato
un'intera esistenza, seppur breve, a sognare un mondo in cui lei era
diversa, donna forte e coraggiosa che sapeva far fronte a qualunque
difficoltà. Solo in quel momento, quando la sua vita si svolgeva
velocemente al termine, si rese conto di quanto tutto ciò fosse
stato sbagliato, di quanto vivere nelle illusioni l'avesse resa una
donna fragile ed incapace di agire, lottare e rialzarsi contro chiunque
le avesse messo i piedi in testa. Era cominciato con i suoi genitori, i
quali esigevano una sua totale obbedienza, ed era finita con Khan,
l'uomo che l'aveva definitivamente distrutta nel corpo e nella mente.
Colui che l'aveva e resa inerme, solo corpo che conteneva uno spirito
ormai morto da tempo. Vivere non aveva più alcun significato,
non quando l'anima era stata sconfitta e nessuna speranza si
prospettava all'orizzonte ormai tetro e nero.
Solo la morte le avrebbe dato finalmente la pace da quell'eterno supplizio; la fine di ogni dolore stava a pochi passi da lei.
E fu con questi pensieri, e con il ricordo dei suoi cari, di sua figlia, che Ming-Mei si gettò dalle mura di Zhongdu.
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«Si chiamerà Xi-Wang, Speranza. La speranza che sua madre non vedeva più, la speranza di un futuro migliore. Più bello della giornata di sole in cui lei è venuta al mondo.»
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Zhongdu, anno 1225
«Aspettami! Voglio venire a giocare con voi!»
«No, tu non puoi! Vai via, Xi-Wang!»
«Perché non posso?»
«Perché sei figlia di un mostro. Tu non sei come noi!»
Xi-Wang arrivò a casa piangendo. La zia che l'aveva cresciuta la vide e le andò incontro.
«Piccola mia, cosa succede?»
«Zia, io sono cattiva?»
«Perché mi chiedi questo?»
Tra i singhiozzi, la bambina raccontò tutto. «Zia... sono davvero la figlia di un mostro?»
«No, Xi-Wang. Tuo padre era solo un uomo. Sii felice, capirai che
non importa chi sia tua madre o tuo padre, che tu sia maschio o
femmina, piccola o grande. L'importante è chi tu vuoi essere:
saranno le tue scelte a decidere chi diventerai, ricordalo sempre, e
nessuno potrà mai metterti i piedi in testa.»
Xi-Wang
ripensò molto, nei giorni successivi, alle parole della zia.
Seduta sotto un piccolo albero di ciliegio in fiore, la piccola bimba
di otto anni rifletteva.
Le avevano detto che sua madre era morta perché troppo debole.
Troppo fragile per affrontare tutto quello che le era successo.
Xi-Wang non voleva essere come lei. Voleva essere forte ed avere il diritto di giocare anche con gli altri bambini.
La bambina si alzò e raggiunse il pontile di legno sul lago.
Raggiunta la fine, si sporse verso l'acqua e guardò lo specchio
limpido.
No, non era come gli altri bambini. Un po' perché amava
immergersi nella solitudine di quel posto che quasi nessuno, tranne
lei, conosceva. Ma il particolare che la rendeva diversa per chiunque
l'avesse guardata era evidente... erano i suoi occhi. Tutti gli
abitanti di Zhongdu avevano iridi di colore scuro, che poteva variare
dal nero al castano. Ma lei... lei aveva gli occhi del colore del cielo. Perché?
Era forse colpa di suo padre, il mostro di cui tutti parlavano?
Mostro... tutti lo definivano un essere terribile dall'aspetto
spaventoso. Aveva sentito tante cattiverie su di lui... lei era
destinata a diventare così, dato che era sua figlia?
No, non lo voleva. Avrebbe potuto scegliere di essere forte e
coraggiosa, di diventare l'eroina che sognava tutti i giorni, proprio
come la leggendaria Mulan.
Sì, lei avrebbe viaggiato per tutto il mondo e sarebbe stata
felice, alla faccia di tutti quei vecchi dalla folta barba sul viso
ricoperto di rughe, che ogni giorno la guardavano scuotendo la testa e
blaterando frasi sconnesse sul suo infausto destino.
E in quel giorno di sole, guardando il lago azzurro in cui – ma
lei non poteva saperlo – anche la madre si era specchiata, decise
che avrebbe lottato.
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Zhongdu, anno 1229
Per
le trafficate strade dei mercati di Zhougdu la gente prestava di rado
attenzione a chi incrociava. Per questo la dodicenne Xi-Wang si sentiva
a suo agio quando la zia la mandava per le bancarelle a comprare il
necessario per la famiglia. La ragazzina sapeva d'essere un peso per
gli zii, già impegnati nella crescita e nell'educazione dei suoi
cugini, così cercava di aiutare il più possibile.
Più d'una volta Daiyu l'aveva etichettata come una
“piccola adulta”, ridendo, ma Xi-Wang si sentiva orgogliosa
di quello che stava diventando.
Il problema arrivava unicamente quando, durante il ritorno a casa, le vie si facevano sempre meno affollate.
Ogni volta, allora, sentiva su di sé il peso dello sguardo
penetrante degli anziani, delle donne mature e dei bambini. Se gli
ultimi la guardavano con stupore, i primi lanciavano solo sguardi di
ribrezzo, oppure di compassione per la sua sorte.
«È segnata.» sussurrava qualcuno «nessuno la vorrà sposare, vedendola.»
Ed avevano ragione. Nessuno avrebbe mai voluto unirsi ad una femmina il
cui destino era stato scritto fin dal suo concepimento. Questo a lei
non importava: lei avrebbe viaggiato lontano, molto lontano da quella
città in cui tutti potevano riconoscere le sue origini. Un
marito avrebbe solamente spezzato i suoi sogni. Ma quegli sguardi
compassionevoli bruciavano sulla pelle, facevano male.
Aveva promesso a se stessa che sarebbe stata forte.... ma era dannatamente difficile.
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Zhongdu, anno 1234
Le
due ragazze si trovavano sotto un albero di ciliegio fiorito, sulle
sponde di un piccolo lago. Si trattava dello stesso idilliaco luogo che
Xi-Wang aveva scoperto da bambina, in una di quelle tiepide giornate di
primavera che amava trascorrere da sola, immersa nella natura.
Un leggero venticello scosse i capelli delle giovani, sistemati in elaborate pettinature.
«Gli zii mi hanno detto di rientrare a casa presto oggi. Vogliono parlarmi.»
«Come mai?»
«Non lo so, ma ho una brutta sensazione, Yuxin.»
«Sai che ti starò accanto, vero? Qualsiasi cosa accada.»
«Rimarrai per sempre la mia migliore amica... sempre.»
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«Xi-Wang, sei cresciuta ormai, sei diventata una ragazza splendida.»
Ed era vero. I lineamenti paffuti di anni prima erano mutati in forme
graziose, la pelle pareva seta e i capelli d'ebano erano lunghi e
morbidi, sapientemente acconciati dalle mani della zia. Ma le iridi
azzurre, quegli sprazzi di cielo che dovevano sembrare bellissimi,
stonavano con la forma allungata degli occhi e la porcellana del viso.
Xi-Wang odiava quel tratto del suo corpo, segno della sua appartenenza
a due razze diverse. La segnava come un ibrido, una figlia illegittima
di un qualche dominatore straniero.
«Abbiamo una grande notizia.» continuò la zia «abbiamo trovato uno sposo per te!»
La bocca di Xi-Wang si aprì in una piccola “o”, meravigliata. Un marito? Chi mai aveva voluto...?
«Zhuang è un coraggioso generale a servizio nel palazzo
imperiale. È giunto qui, a casa nostra, per chiederti in sposa.
È una grande occasione, Xi-Wang, riscatterà il tuo onore
e ti donerà tutto quello di cui hai bisogno. Un guerriero di
grande fama gode di privilegi, possedimenti...»
«Ma io non l'ho mai incontrato, zia...Come può-?»
«Oh, ha detto di averti visto un giorno, per caso, al lago. E poi
quelli successivi, sempre nello stesso luogo. Sapevo che la tua
bellezza avrebbe fatto centro, piccola mia. Ti rendi conto? Ti
sposerai!»
Daiyu sembrava così felice. Perché lei non poteva
sentirsi partecipe di tutta quella gioia? E cos'era quella sensazione
che le opprimeva il petto?
Due
giorni dopo, Xi-Wang si trovava con la sua famiglia davanti alle porte
del palazzo imperiale. Non l'aveva mai visto così da vicino: era
grande, imponente, nato per dominare la città dall'alto.
Solamente quando fece la conoscenza di Zhuang, si rese conto che c'era
qualcosa di più spaventoso del palazzo: il suo futuro sposo.
L'uomo doveva avere più di vent'anni: era alto, molto più
di chiunque lei conoscesse; la veste che indossava, lasciava
intravedere la muscolatura resa possente dagli allenamenti militari. I
capelli scuri circondavano un viso dall'aria fiera ed altera,
contraddistinto da due occhi di ossidiana, neri come la notte, dalla
forma curiosa, meno allungata rispetto agli altri cinesi.
La prima cosa a cui Xi-Wang lo paragonò guardandolo fu il lupo: un predatore della notte, nero, affascinante... e letale.
Ed allora capì: non avrebbe mai potuto vivere con lui.
******
Era
calata la notte da qualche ora. Xi-Wang uscì di casa di
soppiatto, cercando di fare meno rumore possibile. Aveva riflettuto
tutto il giorno riguardo la sua vita, il matrimonio ed anche Zhuang, ma
per quanto si sforzasse non riusciva proprio a rendere accettabile
l'idea di una vita da passare al suo fianco. Il solo pensiero sembrava
opprimerla, e seppur avesse pensato alla felicità della zia alla
notizia del suo matrimonio, aveva preferito la fuga.
Dopo aver preparato un sacco con del cibo e alcuni degli oggetti a cui
teneva di più, aveva scritto una lunga lettera agli zii,
spiegando il motivo della sua scelta e scusandosi con tutti loro.
Si era così ritrovata davanti alla casa di Yuxin, a battere
piano sulla porta esterna della sua camera. La figura della ragazza
assonnata le apparve solo dopo qualche minuto.
«Xi-Wang! Cosa ci fai qui a quest'-?»
Si bloccò quando vide i suoi abiti ed il sacco che ella si portava appresso.
«Cosa hai intenzione di fare?» domandò seria, incupendosi.
Xi-Wang sospirò e cominciò a spiegare cos'era accaduto dal suo ritorno a casa, fino all'incontro con Zhuang.
«Mi capisci? Non sopporterei una vita così. È da
vigliacchi, lo so, ma voglio scappare, fuggire lontano da tutto
ciò che conosco. Rifarmi una vita in cui non sono più la
figlia del mostro. Voglio provarci, Yuxin... voglio vivere.»
«Allora verrò con te!»
«Non puoi, tu hai una vera famiglia.» le prese le mani tra
le sue. «Ti scriverò così spesso che non sentirai
nemmeno la mia mancanza, te lo prometto.» continuò, quasi
piangendo.
«Dove andrai?» chiese l'amica, trattenendo le lacrime.
«Mi dirigerò a sud, dove i Meng-ku non sono ancora giunti. Troverò un lavoro e poi raggiungerò il mare, voglio imbarcarmi su una nave e andare lontano.»
«Promettimelo... promettimi che un giorno ritornerai.»
«Te lo giuro. Rimarrai per sempre la mia migliore amica, non ricordi?»
E mentre correva via, non si volse più indietro, verso il
passato. Ma se l'avesse fatto, forse avrebbe notato due occhi di
ossidiana che la scrutavano...
******
L'aveva
inseguita per tutto il viaggio. La ragazza, quella che avrebbe dovuto
essere la sua sposa, stava scappando da lui, e questo non gli era
affatto piaciuto.
L'aveva vista camminare a piedi per lunghi chilometri, salire su
piccole carovane che le offrivano un passaggio, ed una settimana dopo
l'inizio della sua fuga, lei era giunta a destinazione, nella
città costiera di Shangai, ancora libera dall'assedio mongolo.
Era stato facile per lui seguirla da lontano, ed altrettanto semplice
era stato ottenere l'accesso alle sue stanze dai proprietari del locale
in cui si era fermata per la notte.
La sua pazienza era però giunta al limite. Aveva aspettato
invano che recuperasse il senno e ritornasse a Zhongdu, ma dal momento
che le sue speranze si erano rivelate infondate, aveva scelto di uscire
allo scoperto e sorprenderla; avrebbe anche usato la forza, pur di
riportarla a casa propria.
Oh, quella femmina non aveva idea di come il suo stomaco si fosse
contratto alla vista di lei, quel giorno al lago in cui la ragazza
appariva così sola e rilassata, ma anche terribilmente pensosa.
Era quasi giunto a pensare di aver compiuto un'azione avventata
decidendo di chiederla in sposa, ma si era ricreduto dopo averla vista
a palazzo, così elegante nel suo abito decorato a fiori,
così bella con la pelle diafana coperta da un sottile velo di
trucco. E dopo averla guardata negli occhi del colore intenso del cielo
d'estate, tutto ciò che avrebbe voluto fare era prenderla tra le
braccia e portarla fino al primo letto che avrebbe trovato, per
possederla tutta la notte.
Aveva visto quel colore soltanto una volta in vita sua: era ancora un
bambino quando i suoi occhi scuri avevano incontrato quelli azzurri del
conquistatore a cavallo: Gengis Khan.
******
Xi-Wang
si era appena svegliata da un lungo sonno ristoratore, poco dopo il suo
arrivo in città. Si stava per alzare dal letto, quando
udì un fruscio di vesti.
Allarmata, si voltò verso la direzione da cui proveniva il
suono, e il suo cuore smise di battere per un istante, mentre il sangue
sembrava gelarsi nel corpo.
Zhuang, avvolto in un pesante mantello nero, se ne stava seduto
sull'unica, scomoda sedia presente nella camera spoglia, immobile a
fissarla negli occhi.
«Era ora che ti svegliassi.» sentenziò, alzandosi.
Xi-Wang si coprì come meglio poteva con le lenzuola.
«Cosa pensavi di fare, fuggire?» l'accusò.
La ragazza era pietrificata. Solo gli occhi si muovevano freneticamente
cercando una qualche via di fuga per poi tornare su di lui, come
controllandolo.
Solo gli dei potevano sapere quanto lo eccitasse l'averla lì,
sola ed indifesa, argilla nelle sue forti mani. Così
spaventata...
«Non possiamo sposarci.»
Sembrava aver ripreso l'uso della parola. Era un buon segno, visto che
spesso le ragazze avevano una dannata paura di lui. Non ne capiva il
motivo, a dire il vero, ma sembrava intimidirle con la propria presenza.
«E perché no? Non mi pare che qualcuno si sia opposto; non credi anche tu, Xi-Wang?»
Era la seconda volta che pronunciava il suo nome, e sembrava ancora più spaventoso della prima, a palazzo.
«Perché dovresti volere una come me?»
A quella domanda, il ragazzo si accigliò. «Una come te?»
«Sono certa che l'hai capito sin da quando hai incontrato i miei
occhi. Sono la figlia di un mostro, io. Il risultato della violenza di
un conquistatore. Non merito di sposarmi.»
La risposta di lui consistette unicamente in un lungo, pesante silenzio.
«Resta nella stanza, non osare uscire. Se disobbedisci, lo
saprò e non riuscirai a scappare ancora, non da me.»
Lasciò la stanza subito dopo averle impartito quest'ordine, lasciandola immobile, con un pensiero fisso in mente.
Non ha replicato, quindi è vero: la figlia di un mostro non è degna di uno come lui...
******
Quella
ragazza era pazza. Come poteva pensare di non aver valore, per il solo
fatto di avere indegni natali? Oh, ma lui l'avrebbe fatta rinsavire!
Uscì dall'edificio alcuni minuti dopo averla lasciata sola e
pagato un ragazzo per controllarla ed impedire una sua eventuale sua
fuga.
Raggiunse il mercato e, all'improvviso, un'idea gli balenò in mente.
******
Xi-Wang
osservava da qualche minuto, attonita, il bellissimo vestito che
un'inserviente le aveva appoggiato sul letto. Aveva passato l'intero
pomeriggio ad aspettare il ritorno di Zhuang, ma questi non si era
fatto vivo. Al suo posto era entrata in camera una giovane donna che
lavorava nel locale, portandole il vestito che in quel momento giaceva
morbido sul letto, annunciando che era un dono di Zhuang. La ragazza
non aveva mai visto un abito così bello, nemmeno indosso alle
ricche amiche di Yuxin. Era dipinto di rosso fuoco e ricoperto da
svariate decorazioni floreali. Forse eccessivo per una ragazza anonima
come lei, ma affascinante, esuberante nel suo intenso apparire.
La cameriera glielo fece indossare, sorridendole e dicendo che le stava
davvero d'incanto, poi la truccò e le acconciò i capelli.
Trovò Zhuang ad aspettarla appena fuori dal locale. Era sera ed il sole stava ormai tramontando.
«Sei meravigliosa.» sorrise lui, facendola arrossire.
«Dove mi stai portando?»
Xi-Wang cercò di dissimulare l'imbarazzo fingendosi attenta alla strada che stavano percorrendo.
«Sai che giorno è oggi?» chiese lui di rimando.
«No...»
«Oggi si celebra la Festa di Primavera.»
«Oh.»
Aveva sentito parlare di quella festività, ma mai vi aveva
assistito personalmente. Dopo l'invasione mongola, Zhongdu non aveva
più celebrato quei riti tipici di cui sua zia aveva tanto
parlato.
La città era bellissima quella sera: il colore rosso vinceva
ogni altra tonalità: era presente negli abiti delle persone,
nelle grosse buste che tenevano in mano e nelle decorazioni delle case,
fatte di lanterne e pesci di carta.
I bambini correvano per le strade portando in mano e regalando
splendidi ed elaborati origami: dappertutto si sentiva aria di festa ed
allegria, una gioia che mise anche a lei la voglia di sorridere. A
Zhuang non poté che far piacere la sua felicità.
«Oh, che cosa sono quelli?»
Meravigliata, Xi-Wang indicava due grosse figure che avanzavano ondeggiando.
Zhuang capì e sorrise, spiegando: «Stai guardando la Danza
del Drago e, subito dietro, quella del Leone. Gli uomini che lo muovono
stanno all'interno, e con la loro danza invocano i Draghi benigni e
scacciano i cattivi spiriti...»
«Sono bellissimi!» continuò lei ridendo, dimentica
della paura e meravigliata dal quelle forme enormi che si muovevano e
producevano il rumore di tanti tamburi. Pensò di non essere mai
stata così felice in vita sua.
Quasi
urlò dallo spavento quanto due forti botti sovrastarono i rumori
delle vie e della folla in festa, ma Zhuang le passò un braccio
attorno alle spalle e, con l'altro, indicò il cielo scuro:
«Guarda quei fuochi, non sono meravigliosi?»
Quando anche lei alzò lo sguardo, sgranò gli occhi alla
vista delle luci colorate che scoppiavano in cielo e che avevano
prodotto quei rumori. Com'era possibile tutto ciò?
Provava emozioni così intense, e tutte così ravvicinate,
da impedirle di capire qualcosa in tutto quel caos che era il suo cuore.
«Lo vedi? Vedi che anche tu puoi essere felice?» la ragazza
si voltò verso Zhuang che le tenne la mano. «Sei
così bella e così pura, che nessuno al mondo potrebbe mai
pensare tutte quelle cose che tu stessa hai detto. Speranza...
“Xi-Wang” significa speranza... lo sai che ognuno di noi
rimane ancorato per tutta la vita al nome che gli viene assegnato?
Guarda quante persone ti hanno già voluto bene: hai degli zii
che ti hanno accolta quando non avevi nessuno e ti hanno cresciuta come
una loro figlia, un'amica che ti è sempre stata accanto, ed ora
ci sono anche io. Io che voglio sposare una donna che non capisce
quanto la sua vita sia bella e preziosa.»
Il ragazzo fece una pausa, sospirando. «Tu odi i tuoi occhi,
questi bellissimi occhi color del cielo che hai ereditato da un padre
indegno. Ma non capisci quanto essi non siano il segno di un tuo
immutabile destino, quanto una delle caratteristiche più belle
del tuo corpo. E non importa da chi tu le abbia ereditate. Io riesco
soltanto a vedere una donna unica, che deve ancora capire di non essere
un'erba cattiva, ma un bellissimo fiore d'Oriente che presto
sboccerà e potrà vedere il sole.»
E mentre le labbra dei due giovani si univano, Xi-Wang capì
finalmente che non importava chi fossero i propri genitori, in che
luogo si fosse nati o che lingua si parlasse. Lei era forte, in grado
di lottare contro il destino che qualcuno aveva scelto per lei alla
nascita. Poteva liberarsi dalle catene che le aveva imposto la vita ed
essere libera.
L'unica persona che può decidere chi diventerò sono
io, io e le mie scelte. Ed ora... ora io scelgo di essere felice.