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Autore: MissysP    01/11/2013    3 recensioni
Un ragazzo vive un'infelice adolescenza circondata da persone che non sanno della sua esistenza, ignorandolo, maltrattandolo ed, infine, abbandonandolo a morte certa. Alla fine sarà un criminale a salvargli la vita.
[Partecipa al concorso "I do what i want!" indetto da Vannagio]
Genere: Angst, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Spaventapasseri aka Jonathan Crane
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Batman
Titolo: Alone
Personaggi: Jonathan Crane, Nuovo personaggio
Villain scelto: Spaventapasseri/Jonathan Crane
Pairing: nessuno
Raiting: giallo
Betareading: si. [RuboLaVitaDentroDiMe]
Avvertimenti: OOC
Generi: Angst, Slice of Life
Note: il soprannome che il protagonista dà a Kent, ovvero Ken, è voluto in quanto fa riferimento al bambolotto della barbie. Anche Ally Bello è voluto e non c’è nessun errore di trascrizione in quanto dev’essere per l’appunto un altro soprannome e in quanto tale mi sono permessa di prendere qualche libertà.
Ho cercato di confondere un po’ le idee del lettore, facendo confondere la storia fra il passato di Jonathan e del ragazzino, che ho verificato su wikipedia e ne ho lette diverse versioni. In qualche modo dovrebbero essere parenti, ma non lo sono affatto. Alla fine ho capito che ne sarebbe uscito fuori un bel pasticcio e quindi ho cercato di non strafare, comunque mantenendomi sulla mia idea originale. Infatti come si può notare per gran parte della storia il nome del ragazzo non viene nominato, ma solo verso la fine.
La storia non ho la più pallida idea da dove sia spuntata.
Non c’è altro da aggiungere se non: l’attore che interpreta questo personaggio a un gran fascino e lo ringrazio per l’ispirazione (sceglie ogni volta la parte del cattivo!).
Un ringraziamento speciale va anche alla beta, che mi ha aiutato moltissimo =)
 
 
Alone
 
Il cielo era di un uniforme color bordeaux, interamente ricoperto da grosse nuvole di colore grigio; era tuttavia possibile imbattersi in qualche fascio di luce, timido e debole, che riusciva a scalfire quella coltre plumbea. Il vento fischiava, sferzando con ferocia le persone che camminavano lungo la strada e che si stringevano nei propri cappotti alla ricerca di calore. In lontananza si udivano i rombi selvaggi di un temporale che prometteva di giungere presto e il vento si accaniva sulle chiome degli alberi, scuotendole e staccando foglie che disegnavano piroette in aria e ricadevano stancamente a terra; all’orizzonte, oltre i tetti di quelle villette rosse a schiera, erano perfettamente visibili i primi lampi.
Era un quartiere relativamente tranquillo, a tratti addirittura monotono, e le case si assomigliavano tutte. Lungo il marciapiede bianco e immacolato camminava lentamente un ragazzino dai lunghi capelli neri che nascondevano un viso scheletrico e pallido. La figura esile era coperta da un'uniforme scolastica color verde muschio a scacchi, troppo grande per poter essere riempita da quelle ossa fragili; un paio di occhi color grigio-azzurro guardavano verso il basso, oltre i libri che le braccia stringevano contro il petto incassato: fissavano i piedi che si muovevano automaticamente, facendogli percepire il suo corpo che si alzava e abbassava, ma che continuava ad avanzare sul cemento, pur schiacciato dalla gravità. Una folata di vento gli scompigliò i ciuffi scuri, che gli coprivano il volto e il ragazzino fu costretto ad alzare lo sguardo, spingendo la frangia di lato, per poter essere finalmente libero di vedere una realtà che gli andava sempre più stretta, da cui voleva scappare: il marciapiede costeggiava un viale alberato che nascondeva buona parte del cielo, mentre il vento trasportava il vociare delle persone che passeggiavano, portando a spasso il cane, quello dei bambini che ridevano, si rincorrevano e zigzagavano fra i vecchietti, sempre pronti a borbottare, irritati, nella loro direzione.
Il ragazzino osservò quelle fronde verdi e tendendo l'orecchio per sentire il cinguettio degli uccelli, probabilmente rondini. Sul suo volto si aprì una sorriso sereno, mentre si guardava attorno per capire da dove provenisse quel suono. Camminò sull’aiuola, ignorando il divieto di salirci sopra, e si diresse sotto l’enorme quercia, puntando il naso aquilino verso l’alto, alla ricerca del nido: lo trovò quasi subito, poco più in alto, sul terzo ramo a destra.
Lasciò cadere a terra i libri e lo zaino, si tirò le maniche fino al gomito e cercò un appiglio per arrampicarsi fino al proprio obiettivo. Ci mise non più di pochi secondi e, giunto in cima, si sedette su uno dei ramo più solidi, giusto per essere certo che il suo peso venisse sostenuto, poggiandosi poi contro il tronco.
Nel nido, come aveva immaginato, c’era una rondine che covava delle uova ancora chiuse. L’uccello ruotò di lato la testolina, osservandolo con diffidenza quell'intruso, ma il ragazzo non mosse un muscolo, limitandosi a ricambiare lo sguardo.
Gli piacevano gli uccelli: fin da piccolo aveva desiderato poter volare come loro, poter spiegare le ali e spiccare il volo, sentendo l’aria soffiargli sul viso. Ma tutto ciò sarebbe rimasto sempre un sogno impossibile, irrealizzabile.
Un tuono più potente degli altri rimbombò nel cielo, scuotendo persino l’albero, e il ragazzo lanciò l'ennesima occhiata sfuggente verso l’alto, lasciandola vagare  fra i rami e le foglie. Con un sospiro si decise a sbilanciarsi per ritornare a terra, saltò e atterrò piegando le gambe per attutire la caduta. Con un sospiro ancora più grande, poi, si chinò ad afferrare lo zaino e tutti i libri.
Un’altra occhiata bastò a fargli notare che ormai tutti i bambini stavano correndo a casa, richiamati dalle stridule grida di genitori fin troppo apprensivi, e che tutti gli altri si apprestavano a fare lo stesso, prima che il temporale li sorprendesse senza ombrelli.
«Ehi, ragazzi, guardate chi c’è: Ally!»
Il ragazzino si fermò di scatto, voltandosi verso quella voce tanto familiare quanto detestata che l’aveva apostrofato con quel nomignolo irritante. Si sforzò di rimanere impassibile davanti alla faccia da schiaffi del grasso e arrogante compagno di scuola.
La divisa scolastica faticava a rimanere allacciata, soprattutto all’altezza della sua pancia rotonda e deformata; le maniche erano troppo corte e lasciavano vedere i polsi gonfi e le mani grassocce; i pantaloni rimanevano alzati in vita tramite una cintura di cuoio logora che doveva aver visto giorni migliori.
Ally preferì rimanere in silenzio, senza rispondere a quel saluto che aveva il sapore amaro dello scherno e ritornò sui propri passi, cercando di allontanarsi il più in fretta possibile. Mettersi a correre sarebbe stato inutile, anzi, avrebbe spronato il ciccione a prenderlo maggiormente di mira.
«Ally Bello, dai. Fermati, amico mio» continuò l’altro, ridacchiando, senza riuscire a nascondere l’affanno che quella semplice azione gli aveva provocato, e, con un cenno del capo, fece segno ai due ragazzi che stavano al suo fianco di raggiungerlo e fermarlo.
«Sempre a fare i ruffiani, ragazzi. Almeno tu, Josh: ti credevo più intelligente» li derise il giovane e questi non dovettero gradire particolarmente quell’insinuazione perché non esitarono a dargli un violento pugno nello stomaco, che fece piegare il ragazzo su se stesso.
«Divertente, Crane» sibilò quello più alto, coi capelli a spazzola.
«Fossi in te resterei zitto e buono, Ally» continuò l’altro, più basso e pieno di piercing.
Il capobanda li raggiunse con calma, con il volto già leggermente arrossato per la camminata.
«Ah, Ally, Ally, Ally…» sospirò, fermandosi di fronte a lui «Ogni volta che ci incontriamo ti trovo a divertiti con quegli stupidi volatili» affermò, con un cipiglio divertito. Sembrava soddisfatto di quei loro incontri che parevano fortuiti, ma che decisamente non lo erano.
«Non pensavo che fra le tue attività preferite ci fosse anche lo stalking, Ken» sputò la vittima con un ansito, mentre cercava di riprendere fiato dopo il pugno appena ricevuto. Cercò di rialzarsi per riconquistare una parvenza di posizione eretta, ma una gomitata alla base del collo lo gettò a terra, facendo sbattere il mento contro l’asfalto del marciapiede.
Il suo cervello percepì chiaramente i denti che cozzavano l’uno contro l’altro, sensazione sgradevole a cui si aggiunse molto presto anche il  sapore di sangue; le mani scattarono in avanti, in ritardo, e cercarono invano un appiglio per rialzarsi; i libri caddero disordinatamente a terra e uno dei due tirapiedi ne raccolse uno a caso, sfogliandolo con sufficienza.
Crane, ancora a terra, boccheggiava, tossendo forte: la mascella gli faceva male, denti compresi, e rialzarsi si stava dimostrando complicato. Spalancò la bocca, cercando di inspirare più ossigeno, e qualcosa di duro rischiò di strozzarlo. Tossì ancora e sputò quel qualcosa, facendolo cadere a terra e rotolare poco più avanti con un tintinnio: era un dente, in una piccola pozza di sangue.
«Oh, Ally Bello ha perso un dente?» domandò con derisione Kent. Il suo volto era deformato da un sorriso, o meglio un ghigno, sadico e pieno di disprezzo.
«Kent, io mi sto annoiando. Non vale la pena di prendersela troppo con questo sfigato» affermò Josh con un tono che esprimeva incredibilmente bene la noia e l’indifferenza che provava nei confronti di ciò che stava avvenendo. La loro era uno routine che incominciava a stufarlo: in fondo che divertimento c'era nel prendersela con qualcuno che subiva, senza  nemmeno avere, poi, la possibilità di vantarsi dell'accaduto davanti ad un pubblico?
Kent gli concesse un’occhiata fugace e poi annuì, tornando ad osservare il giovane mingherlino steso ai suoi piedi. In un improvviso moto di violenza gli diede un calcio, colpendolo in pieno volto, sullo zigomo, e facendolo rotolare di lato, di nuovo senza fiato. Il ragazzo si accanì su di lui, colpendolo dove capitava – fianco stomaco, ancora il viso – mentre cercava di sottrarsi a tutto quel dolore.
Poco dopo uno dei due ragazzi intervenne, bloccando il compagno prima che commettesse qualche sciocchezza di troppo.
«Kent! Fermati, sei impazzito? Così lo uccidi!» esclamò Josh, posando una mano sul petto petto dell'interessato e spingendolo indietro nel tentativo di fermarlo, ma questo era troppo pesante e Josh fece fatica a bloccarlo. Il volto di Kent era rosso, sulle gote pasciute, e la sua bocca spalancata, ansante, alla ricerca di aria; le narici fremevano e le spalle si alzavano, per poi riabbassarsi, seguendo il ritmo di quei respiri zoppicanti.
«Lasciamolo perdere e andiamocene, prima che qualcuno ci veda» concluse alla fine, infilando le mani nelle tasche della divisa e incamminandosi, seguito a ruota dagli altri due.
Il ragazzo rimase steso a terra per qualche minuto, gemendo di tanto in tanto, ma alla fine si decise a spingeva i palmi contro il marciapiede e, facendo forza, sentì le sue unghie grattare contro di esso.
Con enorme fatica riuscì ad aprire un occhio per potersi guardare attorno: in giro, ormai, non c'era più nessuno. Il cielo era di un grigio piombo quasi tendente al nero e i tuoni, più assordanti di prima, seguivano a ruota gli imprevedibili guizzi di luce dei lampi.
Si rimise in piedi lentamente e le costole lanciarono un grido di protesta, procurandogli una forte fitta a cui lui rispose stringendo i denti, portandosi una mano fianco e premendo fino a sentire un vago e leggero sollievo.
Raccolse i libri e s’incamminò, zoppicando, verso casa sua.
Un tuono rombò più forte e fu seguito dalle prime gocce acide della pioggia, alle quali seguì presto l'inizio di un vero e proprio diluvio, e il ragazzino si ritrovò improvvisamente bagnato da capo a piedi, senza sapere nemmeno come.
Quando fece ritorno a casa, ormai pioveva fittamente da un po', così che era praticamente impossibile vedere ad un palmo dal naso.
Il costato gli doleva a tal punto che respirare stava diventando progressivamente sempre più doloroso e così cercò di premere più forte contro la cassa toracica, ma il sollievo non si fece sentire, sostituito solo da altro dolore.
Con uno sforzo non indifferente sollevò la propria mano e girò le chiavi nella serratura, provocando un sinistro schiocco di articolazioni malconce, livide e ingrossate. La porta si aprì con un rumore lieve e il ragazzo la socchiuse giusto il necessario per potersi infilare in casa, richiudendosela poi alle spalle e poggiandosi contro di essa. Si lasciò scivolare fino a sedersi a terra e poggiò all’indietro il capo, socchiudendo gli occhi per sfuggire al pulsare sordo e continuo della propria testa, alla profusione di puntini luminosi che minavano il suo campo visivo e alla stanza che vorticava pericolosamente in fretta.
L’aria che invase il suo naso era disgustosamente familiare: pregna di birra, sudore e sigaretta com'era, fece sì che il suo stomaco si ribellasse con decisione.
Il ragazzo decise però che in quel momento non gli era rimasta la forza di combattere quell'odore nauseabondo e pensò che fosse meglio cercare di salire al piano superiore, per chiudersi in bagno e potersi medicare.
«Ragazzino?» chiamò una voce maschile, arrochita dall’eccessiva birra in circolo nel corpo. Il ragazzo trattenne il fiato, rendendosi conto che anche quell’azione gli provocava una sofferenza immensa. Si rimise in piedi, non senza fatica, e si diresse verso il salotto di casa.
Trovò suo padre sdraiato sul divano, come al solito, con la canottiera sporca di birra e di residui del cibo spazzatura che gonfiava in maniera esponenziale la sua pancia, facendolo ingrassare a vista d’occhio. Il volto era coperto da una leggera patina di barba unta e gli occhi rimanevano socchiusi, troppo stanchi per rimanere aperti. In una mano, l’uomo teneva stretta una lattina di birra ormai vuota. Il suo sguardo vacuo faticava a mettere a fuoco gli atleti di rugby che correvano da una parte all’altra del campo contendendosi una stupida palla ovale. Quel gioco, a detta del giovane, sembrava del tutto inutile.
«Portami una birra, moccioso. E muoviti, che ho sete» biascicò l'uomo con indifferenza, senza degnarlo di uno sguardo.
«Non ti sembra di aver bevuto abbastanza?» gracchiò a fatica il figlio.
Il genitore non si accorse nemmeno dello stato fisico in cui il figlio versava e continuò a tenere gli occhi puntati sullo schermo della televisione.
«Non farmi la predica, moccioso. Sono io a portare i soldi in questa casa di merda, a darti un tetto sulla testa, a riempirti lo stomaco e a mandarti a scuola. Se dico di portarmi una birra, tu lo fai. Capito, idiota?» tuonò il padre, con ira, biascicando di tanto in tanto.
Il ragazzo non rispose, preferendo andare in cucina, afferrare l’ultima lattina di birra e porgerla al padre, che gliela strappò di mano, senza troppa gentilezza.
Sua nonna, al contrario, era seduta compostamente sulla poltrona, vicino alla sua abatjour che, da accesa, le permetteva di lavorare a maglia, avvolta dal suo maglione di lana azzurro candido. Fino a poco prima doveva essere stata intenta a sferruzzare qualcosa di giallo limone, troppo lungo per essere una sciarpa o un maglione, ma quando il nipote la guardò, mantenendo il suo cipiglio serio, la vide addormentata, nonostante il casino assordante della TV; al collo le pendeva una collanina e il piccolo crocifisso ad essa appeso rifletteva la luce gialla della lampadina.
Si avvicinò all’anziana, sporgendosi per afferrare la cordicella della lampada, e fece per spegnerla, ma una mano raggrinzita e scheletrica gli afferrò il polso, bloccandolo. Il ragazzo si voltò e si scontrò con lo sguardo confuso e assonnato della vecchia signora. Alcune ciocche di capelli bianchi le impedivano di vedere meglio quegli occhi grigio antracite, uguali ai suoi, dietro spesse lenti.
«Non toccare le mie cose, essere immondo».
Un sibilo, velenoso come poche altre cose al mondo. Lui non aveva mai capito come mai sua nonna, la madre di sua madre, lo odiasse in quel modo, con così tanta ferocia e accanimento. Forse non gli aveva mai perdonato la morte di sua figlia che alla fine si era arresa, sfiancata da quel parto che lo aveva dato alla luce. I soccorsi da parte del personale medico si erano rivelati inutili e ora loro tre si trovavano sotto lo stesso tetto, riuscendo a mala pena a sopportarsi.
Lo sguardo della donna era carico di odio e di disprezzo, nei suoi confronti; le labbra sottili e pallide erano arricciate in una smorfia che esprimeva tutto il disgusto che la sua presenza doveva provocarle. Probabilmente non lo riteneva nemmeno degno della sua attenzione.
Crane la fissò e ritrasse la propria mano con lentezza, sottraendola alle dita ruvide della nonna, ma non rimase un secondo di più nel salotto.
Si diresse in bagno, si disfò dei vestiti bagnati fradici e si guardò allo specchio: il suo petto era cosparso di macchie violacee che spiccavano in contrasto alla pelle pallida. Aprì lo specchio della mensola e afferrò il tubetto della pomata, strizzandone sulla mano il contenuto freddo che poi spalmò con delicatezza sul petto e anche sulla schiena, non risparmiata dalle gentili attenzioni dei compagni di scuola.
Portate a termine quelle blande medicazioni, si rintanò nella sua confortevole stanza, tappezzata di foto e cartoline di posti mai visti, ma che avrebbe tanto desiderato visitare, una volta o l'altra, nella vita. Semplici desideri di un adolescente del liceo, disprezzato dalla propria famiglia, che a mala pena si accorgeva della sua esistenza. A volte desiderava non essere mai nato: in fondo si sarebbe semplicemente risparmiato un bel po' di dolore.  
Steso sul letto, era ormai troppo stanco per fare qualsiasi cosa, compreso nutrire il suo corpo, che reclamava cibo con gorgoglii sempre più forti.
Chiuse gli occhi, sospirando e ignorando quei rumori, e si abbandonò ad un lungo sonno ristoratore. Con l'unica speranza che fosse anche tranquillo.
 
Dopo quello che gli era parso solo un istante, venne risvegliato da una mano che artigliava la sua spalla e lo scuoteva con energia, con le unghie che graffiavano contro la stoffa calda della maglietta di cotone, senza badare a fare attenzione e svegliandolo malamente, di proposito.
Il ragazzo si riscosse, sbatté le palpebre un paio di volte e riacquistò lentamente la lucidità. Si voltò nelle coperte, ancora assonnato, rifiutandosi di uscire allo scoperto e abbandonare il suo caldo rifugio per tornare al gelo, e, a metà del proprio gesto, grazie alla luce fioca che proveniva dalla porta aperta, vide il voltò atterrito e più pallido del solito di sua nonna.
«Jertrude?» la chiamò, confuso, con la voce rauca e impastata di sonno. Diede uno sguardo veloce alla sveglia sul suo comodino, notando faticosamente che erano le quattro del mattino: troppo presto per svegliarsi e andare a scuola «Cosa c’è? Che succede?» domandò, ancora un po’ assonnato, decidendo comunque di rimettersi in piedi, assecondando il volere di sua nonna.
«Vieni, piccino» si limitò a dire questa, liberando la sua spalla e uscendo dalla camera.
Non si voltò a controllare che il ragazzo eseguisse il suo comando - il tono con cui gli aveva detto di seguirla non lasciava di per sé altra scelta - e sparì dietro l’angolo. Il giovane Crane si alzò, afferrando il maglione al bordo del letto, indossandolo e dirigendosi a piedi scalzi al piano di sotto, dove vide sua nonna infilare il soprabito ed aprire la porta.
Suo padre ronfava davanti la tele e la lattina di birra rovesciata sul pavimento sporco e puzzolente.
Il giovane indossò le scarpe e corse fuori, dove sua nonna stava percorrendo il vialetto per salire sulla propria vecchia Jaguar, nera come la notte, e accenderne il motore. Il ragazzo corse fino all’abitacolo e, appena chiuse la portiera, la vecchia partì in retromarcia, sgommando, senza preoccuparsi di fare troppo rumore.
«Dove stiamo andando, Jertrude?» domandò il ragazzo, osservando con attenzione la strada, mentre si stropicciava gli occhi per far svanire gli ultimi residui di sonno.
Lui rimase in silenzio, preferendo di gran lunga osservare il paesaggio cambiare velocemente, fuori dal finestrino.
L'ambientazione urbana venne ben presto sostituita da un'ambientazione molto più decadente, dove la natura era più rada e grandi e sconfinati campi di paglia gialla pronta al raccolto sconfinavano verso l'orizzonte. Le case sparirono per lasciare il posto a terreni coltivati e a sparuti gruppi di vecchie catapecchie ammuffite, lasciate cadere in rovina.
Il ragazzo non sapeva dove si trovassero, né tantomeno dove stessero andando.
La vecchia donna ogni tanto gli lanciava qualche occhiataccia, come se il disgusto le facesse sperare che lui sparisse nel nulla da un momento all'altro e, allo stesso tempo, volesse invece assicurarsi che fosse ancora al suo fianco. Il nipote semplicemente la ignorava, perché aveva finito per abituarsi a tutto quell'astio, anche se non ne capiva il motivo.
«Non manca molto, piccolo demonio. Un attimo di pazienza e vedrai. Ti aspetta una bella sorpresa» ghignò la vecchia donna, spingendo il piede sull’acceleratore, facendo ringhiare di dissenso il motore. Il ragazzo la guardò, senza capire le sue parole. Rimasero in silenzio, un silenzio teso e pieno di promesse sinistre.
«Hai sempre voluto conoscere quella puttana di tua madre! Oh, quanto me ne hanno combinate, lei e suo fratello! Lui, poi! Era di gran lunga il peggiore».
Il giovane semplicemente osservava il paesaggio dall’altra parte del finestrino, preferendo non comprendere quello che Jertrude aveva urlato, rischiando di sputare la dentiera.
Un quarto d’ora dopo il veicolo si fermò davanti ad una chiesa fatiscente, ormai sull’orlo del crollo. Il sole splendeva, illuminando le sue pareti bianche e crepate, e piccole schegge di vetro insistevano - quasi ne fossero orgogliose - a rimanere attaccate al freddo muro, attorno alle cornici delle finestre rotte.
Il piccolo non comprendeva come mai si trovassero proprio lì, ma fu distratto dallo sportello del conducente, che si aprì e si chiuse. Fece lo stesso, affrettandosi a raggiungere la donna, che si diresse con passi sicuri verso l’entrata della chiesetta e aprì con fatica il portone, quel poco che le era possibile, facendo cenno al nipote di precederla.
«Entra, c’è qualcosa che ti aspetta».
 
C’era stato, in effetti, qualcosa che lo aspettava: il corpo di un gatto morto, col ventre squarciato e gli insetti che ci giravano attorno, depositando le loro uova e cibandosi di quella carne in putrefazione e, sopra quel corpo morto, delle travi su cui era appollaiata un’orda di corvi neri che gracchiavano senza sosta, sempre più forte.
Alle sue spalle il portone si richiuse con velocità e uno scatto metallico lo fece voltare e correre verso l'uscita, cercando di riaprirla.
«Jertrude! Apri questa dannata porta» urlò. Ma lei non lo fece.
Sentì il rumore di accensione del motore e si agitò ancora di più, con il cuore che gli martellava contro il petto.
«Nonna!» implorò, nella speranza che la vecchia cambiasse idea.
Non aveva mai usato quell’appellativo, pensando che fosse da attribuire ad un reale affetto. Un affetto che né lei per prima né nessun altro aveva mai dimostrato nei suoi confronti.
E ora era solo, totalmente solo.
I suoi occhi erano gonfi per il sonno arretrato, ma non poteva permettersi di addormentarsi. I corvi appollaiati sulle travi di quella chiesa cadente lo guardavano come uno spuntino prelibato che, con loro disappunto, tardava a morire.
Uno, in particolare, lo guardava con quei suoi occhietti rossi, sinistri e attenti: era diverso. Continuava a studiarlo, attento alle sue mosse, e lui non capiva il perché. Perché non ci leggeva quella brama di fame che apparteneva ai suoi simili? Perché non tentava di beccarlo e portarlo allo sfinimento?
E per la prima volta si ritrovò ad odiare quei pennuti che si era sempre fermato ad osservare, invidiandoli.
«Vattene, bestiaccia!» esclamò, artigliando un pezzo di terra, sotto la pavimentazione discostata, con le unghie e lanciarla nella direzione del volatile. Il terriccio non arrivò nemmeno a sfiorarlo e l’animale rimase al suo posto, continuando a guardarlo, inclinando il capo nero e lucido.
Il ragazzo si accasciò a terra, esausto e disperato. Poco gli importava di essersi dimostrato ridicolo agli occhi di un animale col cervello da gallina. Poco gli importava che questo lo deridesse in segreto, con i suoi starnazzi acuti e fastidiosi.
Si rannicchiò in un angolo, portandosi le ginocchia, avvolte dalle braccia, al petto e dondolando su se stesso. I suoi occhi erano chiusi, stremati dallo sforzo di versare lacrime che aveva esaurito ore prima. Adesso restava lì, abbandonato, in una chiesa fatiscente e sperduta, in un angolo remoto del pianeta, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo.
Sospirò, non potendo fare altro.
Il corvo dagli occhi rossi gracchiò nella sua direzione prima di aprire le ali e saltare verso il basso, verso di lui. Il ragazzo non si mosse, osservando i suoi movimenti, le ali grandi aperte e le piume nere che cadevano a terra. Non si mosse e aspettò che quell’uccello finisse il lavoro degli altri. Questo, però, planò inaspettatamente sopra il suo viso, sfiorando la sua nuca con gli artigli e prendendo il volo oltre la finestra, verso un cielo buio senza luna e coperto di nubi.
Il ragazzo voltò il viso, continuando a guardare la finestra, cercando di distinguere la figura alata, ma pochi secondi e l’aveva già persa di vista.
Chiuse di nuovo gli occhi e aspettò.
 
Fu risvegliato dal rumore di una serratura che si apriva di scatto e il legno che strisciava contro il pavimento irregolare e ghiaioso.
Poi la luce divagò per l’enorme salone.
Si voltò, nascondendo il volto nell’incavo del gomito fasciato dalla felpa. Nonostante le finestre rotte, le mura impedivano alla luce di passare, tanto che alla fine il ragazzo si era abituato all’ombra, all’oscurità.
Quella breccia di luce lo fece sussultare e il silenzio fu riempito dagli assordanti battiti del suo cuore.
Quanto tempo era rimasto rinchiuso in quel posto? Tanto, a giudicare dal buco nel suo stomaco, dalla bocca arida e dalla fatica di abituarsi di nuovo alla luce. Forse era tutto un sogno e lui, finalmente, aveva lasciato quel mondo bastardo.
Quella luce avrebbe rappresentato il suo Paradiso, oppure sarebbe stata tutta un’illusione e presto si sarebbe ritrovato all’Inferno.
Ai suoi battiti cardiaci si unirono anche dei passi che si avvicinavano, fin troppo velocemente. E lui si strinse ancora di più nelle proprie spalle, cercando di rintanarsi in un qualsiasi angolo. Non fu sufficiente.
Due mani grandi - decisamente troppo grandi e sconosciute - lo afferrarono per le spalle costringendolo a voltarsi.
Tenne gli occhi chiusi, serrati con forza, per la paura di riaprirli e cadere nella realtà: era ancora vivo.
«Ehi, moccioso, respiri. Quindi sei vivo, no?» disse una voce maschile sconosciuta. Il ragazzo smise di tremare e abbassò le spalle. Lentamente, per abituarsi alla luce, uscì dal suo nascondiglio buio e cercò di distinguere  i tratti di quell'uomo. La prima cosa che notò furono gli occhi chiari, di un azzurro intenso che non aveva mai visto, e il volto incorniciato dai capelli corvini, neri come l’oblio. La sua vista era offuscata e non riuscì a cogliere nient'altro.
La testa gli pulsava dolorosamente e lui gemette, abbandonandosi contro quel pavimento sudicio e freddo.
«Ragazzino» lo richiamò l'altro, scuotendolo ancora.
Tutto quello che lui percepì, poi, fu il continuo gracchiare del corvo.
 
Quando riaprì gli occhi si ritrovò circondato da un bianco asfissiante, innaturale e fastidioso.
Era sbagliato, tutto sbagliato.
Non si sarebbe dovuto trovare in un posto del genere; ci sarebbe dovuto essere solo buio, attorno, e pietre e legno e corvi neri. E invece non c’era nulla di tutto ciò, se non il bianco, puro e forte, delle pareti di una stanza. Quando la sua vista si fu abituata riuscì a percepire il ronzio incessante di qualche macchinario al suo fianco.
Si voltò, lentamente, e la testa prese a pulsare forte, facendolo gemere.
«Sta' fermo, idiota».
Il ragazzo sospirò e socchiuse gli occhi.
«Sono in ospedale».
Era un’affermazione, una costatazione, e l’altro non gli rispose.
«Grazie».
E non rispose nemmeno a questo. I suoi occhi azzurri erano indifferenti e non sembrava nemmeno troppo preoccupato per la sua salute, quasi il gesto che aveva appena compiuto fosse stato fatto d’impulso, senza pensare alle conseguenze, per poi pentirsene solo in quel momento.
«Non dovresti ringraziarmi, moccioso».
«Alexander, non moccioso» rispose il ragazzo, senza badare al tono pieno di sarcasmo del suo interlocutore.
«Il tuo nome non mi interessa. Non te l’ho chiesto».
«E lei come si chiama?»
«Questo non dovrebbe importare a te, ragazzino».
«È  da maleducati non presentarsi».
«Jo» sibilò, dopo minuti di silenzio. I suoi occhi color ghiaccio si assottigliarono, fissandolo con irritazione. Tuttavia c’era qualcos’altro in fondo a quei pozzi azzurri, oltre alla rabbia... Forse era curiosità, forse non lo era.
Alex si voltò per guardarlo meglio, quasi cercando di leggergli nella mente, ma era difficile. Il suo volto non esprimeva emozioni, così come non le esprimevano nemmeno i suoi occhi, ma riuscì a notarci qualcosa di diverso, quasi quello non fosse più l’uomo che aveva visto la prima volta, appena poco tempo prima.
«Un diminutivo di Jonathan?» domandò e sul suo volto pallido e smunto si formò un ghigno divertito. L’adulto non si mosse, limitandosi a restituirgli uno sguardo intenso. Lo stava studiando.
«Si».
«È anche il mio secondo nome. Jonathan».
L’uomo non disse nulla e il ragazzo ridacchiò, bloccandosi poco dopo per qualche recidivo dolore al petto. Tossì, cercando di respirare, e quando si calmò si rivolse a guardare fuori dalla finestra.
Nella stanza calò il silenzio, rotto solamente dall'incessante ronzio meccanico.
Fuori dalla finestra, appollaiato sopra un ramo, il corvo dagli occhi rossi li osservava.










The End.






Note finali: grazie mille per chi è arrivato fino in fondo alla lettura. Questa è la prima storia che pubblico in questo fandom, per il concorso "I do what i want" indetta da Vannagio sul forum di EFP. Spero che sia piaciuta. Ci tengo a precisare, comunque, che il gesto compiuto dal villain è un gesto totalmente disinteressato. In fatti la storia si svolge all'esterno dei film o dei fumetti, anche perché non ne ho letti nemmeno uno. Il contesto, per cui, è generale/vago, ma comunque avviene dopo che Crane è diventato cattivo.
  
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