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Autore: shanna_b    18/04/2008    13 recensioni
“Dottore, dove va l’amore? Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va l’amore che si prova? I sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come ombre al sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”
“Non lo sappiamo. E non lo sapremo mai. Per questo vogliamo morire.”
La Shannonite è una malattia pericolosa che cambia la vita in maniera radicale e può, in certi casi, diventare cronica. Scoprite come.
Dedicata a mia cognata Deborah e a tante mie amiche che hanno un attacco di questa malattia (vale anche come Jaredite, eh...). Ho provato a scrivere quello che si prova in questi casi e questo ne è uscito. Ed ovviamente mi sono inventata tutto!! Shannon+Jared Leto non mi appartengono (acc...), non li conosco (acc...) e non ho la minima idea di come siano (acc...). Non l'ho scritta a scopo di lucro, ma solo per me e per chi la voglia leggere. Grazie a chi la leggerà e lascerà un commento.
Questa ff ha visto il Best Male, Best Plot, Best Romance e il Readers' Choice nel Contest "Never Ending Story Awards" primo turno.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shannon Leto
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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DOMANI – parte seconda

 

Stella arrossì fino alla radice dei capelli, incredula, paralizzata in mezzo al corridoio, senza fiato.

Arrivatole a pochi metri, anche l’uomo si fermò, più per lasciarle il passo che per altro, visto che il corridoio in quel punto era stretto ed in due non ci si passava. Ma Stella non si mosse: le sue gambe non rispondevano, il suo cervello era andato in catalessi  e tutto le sembrava andare al rallentatore. Shannon, già arrabbiato di suo, per un momento la guardò in malo modo, in attesa che si decidesse a passare, desideroso di raggiungere la sua camera, tanto da avere già le chiavi in mano, ma lei era immobile con gli occhi sbarrati, l’espressione inebetita.

L’unica cosa che invece non era rimasta immobile erano i faldoni che, animati da vita propria o forse perché Stella non li teneva affatto, avevano cominciato a cadere di lato, verso Shannon, aprendosi.

Improvvisamente una cascata di fogli cadde addosso a Shannon, che, sorpreso, fece un passo indietro, e anche a Stella, che, ad occhi spalancati, lo stava ancora fissando. In breve tutto il pavimento attorno a loro era pieno di fatture, bilanci e documenti, come se fosse nevicato in corridoio, e tutto l’ordine che Stella aveva messo in quelle maledette carte era andato istantaneamente in fumo.

Stella si riscosse e si guardò attorno come se si risvegliasse da un brutto sogno, cercò con gli occhi Shannon che sogghignava, quasi divertito da quella scena comica, arrossì nuovamente, balbettò una mezza scusa nemmeno sicura di quello che avesse detto, si inginocchiò per terra e cominciò, tremando, a raccattare i fogli sparsi in giro, il più velocemente possibile, per rimetterli nei faldoni ormai quasi completamente vuoti.

Il suo cervello le diceva di fare in fretta e di andarsene di volata, mentre il suo cuore non smetteva di martellarle in petto. L’importante era recuperare tutto il prima possibile ed allontanarsi da quell’uomo: non importava l’ordine, i fogli li avrebbe messi a posto più tardi in reception o anche l’indomani, al limite.

“Serve una mano?” Shannon la guardava da sopra, incuriosito da quella strana situazione, visto che non gli era mai capitato di avere un mucchio di carta davanti alla porta della sua camera d’albergo!

“Ehm… No, no. Grazie.” La voce non le uscì convinta come avrebbe voluto, ma sperò che fosse sufficiente. Ed invece, purtroppo, no.

“Rischi di passare la notte qui, però…” Nonostante il cattivo umore, Shannon, educatamente, si accucciò anche lui a dare una mano, sorridendo appena, mentre Stella lo guardava di sottecchi, praticamente in apnea. Cominciò a raccattare i fogli mentre si chiedeva cosa ci facesse una ragazza del genere, vestita di tutto punto, tailleur nero e tacchi alti, con un discreto sentore di Calvin Klein, a quell’ora di notte a spasso per i corridoi di un albergo con dei libroni recalcitranti. Dopo un po’, l’uomo le passò un pacco di fogli che aveva raccolto.

“Tieni.” Le disse.

“Grazie.”

Stella allungò il braccio sinistro per prenderlo.

Shannon le appoggiò i fogli sulla mano e la vide: bianca, leggermente in rilievo, tratteggiata chiaramente sopra una trama di vene azzurre.

Una cicatrice.

Non una qualsiasi: una identica alla sua.

L’uomo sobbalzò, si alzò di scatto in piedi e in pochi secondi gli passarono per la mente le immagini di quell’episodio in Bolivia che credeva di avere dimenticato: lui e Jared, la strega, il fumetto azzurro del falò, la brace ardente, la cicatrice sul suo polso, la donna che moriva d'amore per lui.

Rivolse il suo sguardo a Stella che, non capendo la ragione del suo strano gesto, aveva continuato a raccogliere i fogli, senza dire niente, sempre più velocemente. Ormai ne rimanevano pochi, per terra. Stella stava sistemando l’ultimo mucchietto di fogli, poi si alzò con i faldoni impilati ma completamente in disordine e, dicendo un timido ‘grazie’, si girò per andarsene.

“Aspetta.” Le disse, le sopracciglia aggrottate, il viso pensoso; ma Stella non aveva nessuna intenzione di rimanere lì. Gli lanciò un’occhiata quasi impaurita e poi tentò di allontanarsi da lui, lungo il corridoio, ma le gambe non le reggevano a sufficienza e i suoi passi erano lenti.

Shannon fu più svelto: infilò la chiave nella toppa, aprì la porta e poi, con un gesto che sorprese persino lui, prese la donna, allontanatasi di pochi passi, per un avambraccio e cercò di trascinarla dentro la sua stanza. Doveva parlarle, c’erano delle cose da chiarire: quella donna non poteva andarsene così. Razionalmente non sapeva nemmeno lui perché, ma doveva parlarle.

“No!” Stella tentò di divincolarsi, ma non ci riuscì: Shannon era decisamente più forte di lei e i faldoni di fogli, il portatile e la borsa le ostacolavano i movimenti, già di per sé precari. Così l’uomo, senza lasciarle il braccio, le diede una piccola spinta e la fece entrare in camera a forza.

Stella si ritrovò in mezzo alla stanza, con quei fetenti faldoni di nuovo pericolosamente in bilico ma miracolosamente salvi, al buio, non fosse per la tenue luce che entrava dalla finestre con le tende scostate, con il cuore che sembrava scoppiarle in petto, spaventata a morte. Si girò verso la porta decisa ad andarsene ma Shannon entrò a sua volta ed accese la luce. Poi, lentamente e senza smettere di guardarla, si chiuse la porta alle spalle.

Per un attimo Stella, leggermente abbagliata, si fermò a guardare il lusso incredibile di quella stanza d’albergo, i mobili chiari, la luce soffusa, la TV al plasma alla parete, il tavolino e le sedie di mogano, un divanetto ad angolo, ma poi ritornò a guardare fissamente Shannon, immobile e sbigottita, le guance in fiamme. L’uomo era più affascinante di quanto si ricordasse ed averlo davanti in carne e ossa era la cosa peggiore che potesse capitarle. Si chiese come facesse ancora a respirare e come mai non fosse ancora caduta per terra, svenuta. Pensava di averlo relegato in un angolo della sua mente ed invece adesso se lo trovava inaspettatamente proprio lì davanti e anche particolarmente agguerrito.

“Chi sei?” le chiese Shannon, cominciando a depositare le sue cose sul mobile vicino alla porta.

Stella deglutì una inesistente saliva. Shannon non sapeva nulla di lei e così doveva continuare a essere: “Cosa vuoi da me?”

“Ti ho fatto una domanda mi pare. Chi sei?” E mentre lo chiedeva si avvicinò mettendosi a pochi passi, con un viso che a Stella parve decisamente cupo.

“Non capisco cosa vuoi dire. Io…”

“Tu sai chi sono, o no?” Shannon si puntò un dito al petto.

Stella sospirò ed annuì: “Sì.”

“Dillo.”

“Tu sei… sei Shannon Leto.” Da quanto tempo non diceva quel nome, pensò Stella, anni interi che sembravano secoli.

“Esatto. E tu chi sei?”

“Io… Io mi chiamo Stella, ma… ma perché ti interessa, non capisco…”

Shannon le si avvicinò velocemente, scazzatissimo.

“Guarda!” Le prese il polso sinistro, mentre i faldoni stregati ricominciavano a dondolare in braccio a Stella, e vi accostò il suo: le cicatrici sui loro polsi erano identiche. “Ecco perché, accidenti!”

Stella, rabbrividendo al contatto della mano dell’uomo sul suo polso, guardò attentamente le cicatrici, a bocca aperta: da non credere. Come faceva Shannon ad averla identica alla sua, nello stesso posto? Non si ricordava di aver mai sentito o letto da nessuna parte che l’uomo avesse una cicatrice del genere. Sembrava pure che questa cosa gli mettesse una gran rabbia. “Non capisco cosa…”

“Come te la sei fatta?” Shannon le lasciò il polso, ma il suo atteggiamento inquisitore non cessò.

Non poteva dirglielo, in nessun caso. No davvero. Anzi, doveva attaccare: “Senti: io non so cosa tu voglia da me, ma io non ho nessuna intenzione di stare qui a raccontarti gli affari miei. Fammi passare.”

Stella tentò di guadagnare la porta ma l’uomo le si mise davanti sbarrandole il passo.

“Devi rispondere.”

“Perché? Sono affari miei.”

Shannon non gradì molto la risposta e quasi le gridò in faccia: “Perché qualcuno mi ha accusato di essere la causa della tua cicatrice, di essere stato IO a procurarti quella ferita. E’ vero?”

A Stella il cuore balzò in petto: accidenti, non era l’unica ferita che le aveva procurato. Ne aveva una anche nel cuore, ben più profonda. Ma poi cosa sapeva Shannon di lei e in che modo era venuto a saperlo? Chi aveva parlato? Il suo dottore? Macché, che idiozia…

“Chi te l’ha detto?” azzardò, in un filo di voce.

Shannon si passò una mano tra i capelli, restio a ricordare: “Una strega in Bolivia, tre anni fa. E perchè ti trovassi, o forse per punirmi, me ne ha fatto una identica. Mi ha detto che una donna mi amava ma che io non sentivo il suo amore perché ero… insensibile. Ed invece  l’amore arriva sempre a destinazione. Che cavolo di teoria sarebbe, questa?”

Stella non credeva ai propri orecchi: era la domanda che aveva fatto al suo dottore, tanti anni prima, e ora la risposta le veniva proprio dall’oggetto del suo passato amore. Non sapeva che dire. L’uomo continuò: “Fino ad ora io ho creduto che fossero soltanto baggianate esoteriche e che la strega fosse pazza da legare, ed invece stasera, una delle sere peggiori della mia vita, mi compari davanti con quella cicatrice. A questo punto voglio sapere se è tutto vero o sono coincidenze. Sei tu quella donna? Quella che mi ‘amava’?”

Doveva mentire, per forza. Aveva alzato un magnifico muro dentro il quale si era rifugiata, ci aveva messo un po’, le era costato un bel ricovero in clinica, ma c’era. Sapeva però che non era così saldo come avrebbe voluto e se solo avesse aperto uno spiraglio, il muro sarebbe crollato, con lei sotto le macerie. Non poteva permetterlo, non adesso che aveva raggiunto un suo pur minimo equilibrio.

“No.” Gli rispose, cercando di essere più convincente possibile.

“Sicura?”

“Non sono io, non so nemmeno di cosa stai parlando.” Stella si sistemò meglio quei dannati faldoni in mano con fare indifferente, ma le era difficile anche solo respirare a vedersi Shannon con la fronte corrugata che la fissava in quel modo torvo.

“E la cicatrice?”

“Emh…” Doveva inventarsi una bugia, lì su due piedi. E non era mai stata brava a dirle. Azzardò l’incidente domestico. “Me la sono fatta con il ferro da stiro. Mi stava cadendo, ho tentato di afferrarlo ma non sono riuscita a prenderlo e mi sono ustionata un polso.” La prima che le era venuta in mente, la più stupida e anche la bugia peggio proferita della storia dell’umanità.

Shannon sogghignò, incrociando le braccia, perplesso: “Certo, come no? Se tu facessi l’attrice come lavoro, moriresti di fame.”

“Ma, è vero!”

“Raccontala a tua nonna questa fandonia, capito? Non mi fare incazzare, per favore. E soprattutto dammi un po’ di credito, non sono rincoglionito del tutto.” Shannon alzò la voce e le si parò davanti con le mani sui fianchi. “Allora?”

Stella abbassò gli occhi, imbarazzata. Sotto lo sguardo furioso di Shannon, le pareva di essere una scolaretta sorpresa a copiare il compito in classe. Non aveva immaginato che quell’uomo potesse essere un osso così duro da trattare, dalle foto non sembrava.

Era stanca, esausta, sfinita e adesso aveva anche Shannon Leto che la stava interrogando su una cosa che, in fondo, lo riguardava ma che Stella si vergognava a morte a dirgli. E poi anche a dirglielo, che cosa ne poteva capire un uomo del genere? Avrebbe riso di lei, sicuramente. Appoggiò i maledetti faldoni su un tavolino lì vicino ed il portatile per terra. Che cosa doveva fare? Raccontare la verità? Sospirò e si girò a guardare verso la finestra le luci di Milano che brillavano nella notte, per un momento.

Alla fine si decise: ma sì, poteva raccontargli tutto, tanto per farla finita a breve, no? Cosa sarebbe cambiato? Ormai era passato. Non importava più. Ridesse pure, tanto...

“E’ tutto vero.” Disse, dopo un attimo, a voce bassa, dandogli le spalle. “Io… Io ti amavo. Ti desideravo da morire. Non so se puoi capire. Così intensamente, che l’idea di non poterti avere mi ha portato a tentare il suicidio. Tre anni fa, più o meno. Mi sono tagliata il polso con una lametta da barba… o almeno ci ho provato… e, ovviamente, non ci sono riuscita.”

Si girò verso l’uomo, che era rimasto silenzioso: “Sono stata un’imbecille, vero? Stavo buttando nel cesso la mia vita, per te. Soltanto per te. Non ti conoscevo e non ti avevo nemmeno mai visto da vicino. Non sono mai venuta ad un tuo concerto. Non potevo sapere com’eri in realtà. Eppure…” Ormai quella parte della sua vita era passata. Se la doveva gettare alle spalle, lo aveva già fatto. Non aveva senso riconsiderarla ora, nemmeno per uno Shannon reale, lì, in piedi in silenzio davanti a lei. “Ma come mai potevo essermi innamorata di te, da una fotografia? Da un video? Scema, vero?”

Stella si scherniva, ridendo di sé stessa. Poi abbassò gli occhi a guardarsi le mani, imbarazzata.

Ma Shannon non rise. Le si avvicinò di un passo: dunque era vero quello che aveva detto la strega. Era stato lui a ferirla, senza volerlo, soltanto per il semplice fatto di esistere. E lei? Che genere di donna poteva essere, per amarlo senza conoscerlo? Non sapeva bene cosa dirle. “Mi dispiace.” Le disse, semplicemente, toccandole un braccio.

La donna scosse una spalla e la testa, guardandolo in viso: “Non fa niente, ora sto bene. E’ tutto passato. Era solo ieri. Ormai non importa più.” Gli sorrise timidamente, quasi convinta di quello che aveva detto, decidendo che doveva andarsene di lì, e subito. “E… adesso devo proprio andare.”

“Perché?”

Che domanda le stava facendo? “Perché? Perché non c’è nessun motivo per cui io debba rimanere qui, no?”

Shannon si mise a fissarla, studiandola: lunghi capelli castani ondulati le cadevano sulle spalle e due occhi azzurri, truccati di scuro, dalle ciglia arcuate, tristissimi, lo guardavano. Una giacca nera sfiancata e una gonna a tubino, anch’essa nera, appena sopra il ginocchio, mettevano in rilievo la sua magra figura, ulteriormente slanciata da un paio di scarpe con il tacco alto; due gambe perfette avvolte in calze nere trasparenti. Di bianco soltanto la camicetta di seta e gli orecchini di perla.  E, come una bambina, portava la borsetta a tracolla.

La fede al dito. Che sembrava un peso su quella mano affusolata dalle unghie dipinte elegantemente di rosso. C’era un marito, dunque, e forse anche dei figli.

A quell’esame, Stella si sentì in imbarazzo.

Arrossendo per l’ennesima volta, gli disse: “Non mi scrutare così, per favore: noi… non abbiamo proprio niente da dirci. Mi dispiace che la strega ti abbia fatto del male, ovviamente io non volevo finisse così, ma non potevo pensare che è vero che l’amore non va perso. Non potevo prevederlo, né immaginarlo.” Si girò nuovamente verso le finestre. “Ora… ora ci siamo detti quello che dovevamo, hai voluto sapere e non c’è altro da dire. Quindi me ne vado.” Per un momento le parve di aver detto più volte la stessa cosa, di essere un disco rotto.

Shannon le si avvicinò e cominciò a guardare dalla finestra anche lui. Che cosa doveva dirle, ancora? Stava improvvisando, non ne aveva idea. La situazione era talmente strana da non essere razionalmente prevedibile. “C’è un’altra cosa, in realtà.”

“Cosa?” Stella lo guardò un attimo, desiderosa di terminare al più presto quella conversazione.

“Io… l’ho sentito. E’ strano a dirsi ed è senza dubbio una specie di stregoneria, ma… Ho sentito quello che provavi per me. E’ stata sempre la strega.”

Shannon si guardò attorno un attimo, perplesso: ma che cazzo stava dicendo? Lui? Non era da lui dire scemenze del genere. Aveva quarant’anni, l’era dei sogni era tramontata da un pezzo, quella sera gli si era infranto anche l’ultimo, di che cosa andava parlando? Ma cosa gli stava succedendo? Il mondo girava alla rovescia, quella notte, ormai non c’era più dubbio. Eppure…

“Come?” Stella si girò a fissarlo, sorpresa.

Shannon fece un sorriso di traverso: ormai aveva iniziato il discorso, tanto valeva finirlo. “Io non sono un sentimentale e la strega non so come abbia fatto, ma… beh, era una sensazione bellissima di tenerezza e affetto che non avevo mai sentito prima di quel momento…” Shannon si posizionò tra la finestra e Stella, vicinissimo.  D’istinto, alzò una mano a toccarle una ciocca di capelli che le scendeva sulla spalla. “Né l’ho più provata da allora.” Si diede nuovamente dello scemo, si sentiva come se avesse quindici anni, ma quella era la verità e non riusciva a stare zitto: era come se le parole gli uscissero da sole. Non riusciva a non dirla a Stella, la verità. Improvvisamente di rese conto che quella donna gli piaceva e non sapeva neppure lui perché. Era così e basta.

Lo sguardo dell’uomo era fermo sul suo e Stella si sentiva nuovamente paralizzata. Non le uscì niente se non un: “E…?”

“Vorrei sentirla ancora.” La voce di Shannon era un sussurro.

Stella non era sicura di dove Shannon volesse andare a parare, con quello sguardo furbetto e quel sorriso appena accennato, e decise che doveva glissare: “Non… non saprei come. Dovresti tornare in Bolivia.” Si allontanò di un passo.

Shannon sorrise. “No, non occorre andare così lontano.” L’uomo le si avvicinò di più e, sorprendentemente, le mise le mani attorno alla vita stretta, attirandola verso di sé. “Non la voglio sentire dalla strega: se è vero quanto hai detto, voglio sentirla direttamente da te.”

Stella si ritrovò occhi negli occhi con Shannon, con le gote in fiamme e le mani appoggiate sul suo petto, sulla difensiva, mentre lui la stringeva di più. L’uomo abbassò il viso per appoggiare la sua bocca su quella di Stella, ma lei girò il volto dall’altra parte e lo respinse.

“No. Per favore.” Era una cosa che aveva desiderato per tanto tempo ma che ora non si sentiva di affrontare. Non poteva. Non doveva. E poi non stava succedendo veramente. Era impossibile. “No. Io… devo andare.”

Si irrigidì e tentò di spingerlo via, ma Shannon non si scostò di un millimetro. Anzi, riportò il viso vicino a quello della donna, ne aspirò il delicato profumo, ad occhi semi chiusi, deliziato. Voleva sentire quella splendida emozione nuovamente, a tutti i costi. E solo lei poteva fargliela sentire, ne era certo.

Stella era senza fiato, ne trovò appena per dire qualcosa: “Non fare niente. Ti prego. Io… ho sofferto a sufficienza. E comunque non ti amo, non potresti risentire la stessa sensazione qui ed ora, e tu… non mi ami nemmeno tu e non mi amerai mai, perciò… lasciami andare via.” Stella sperò di essere stata convincente: non poteva credere nemmeno per un momento che adesso Shannon volesse stare con lei. Ma l’uomo non demordeva.

“La strega parlava di amore tra anime simili, capisci?”

Stella sbuffò, irritata: possibile che quelle parole le dicesse quell’uomo? Non era da lui, erano certamente delle balle, per farla restare in quella stanza, chissà perché. Replicò subito: “Le anime simili non esistono e se esistono non siamo noi: io e te apparteniamo a mondi diversi, siamo agli antipodi e, soprattutto, non ci conosciamo. Non potremmo mai e poi mai stare insieme. Io sono sposata e devo tornare a casa mia e tu… beh io non so come sei messo ma…”

“Io voglio… Voglio crederci.” Shannon non credeva ai suoi orecchi, ma cosa stava dicendo? Ormai stava andando a ruota libera. Il suo ultimo sogno era crollato e lui aveva bisogno di credere in qualcosa.

“Volere non basta, nella vita. Ci sono tutte le conseguenze e le circostanze ad impedirlo. Lasciami.”

“Aspetta. Dammi una possibilità. Resta qui.”

“No. Non ci conosciamo, non è possibile.”

“Ci siamo incontrati da dieci minuti, come fai a dire?”

“Io… ” Stella riuscì a liberarsi e si diresse verso la porta, decisa ad andarsene. “Devo andare. E… basta.”

“No, da quella porta non esci. Parola mia.” Shannon le prese di nuovo il braccio e la tirò nuovamente verso di sé. “Finché…”

Stella si divincolò, rabbiosa e frustrata allo stesso tempo: “Finchè, cosa?” Cominciò a fissarlo con occhi di fuoco e poi gli sibilò tra i denti: “Che ti succede? Non hai trovato nessuna modella minorenne da rimorchiare, stasera? L’albergo non ti ha trovato nessuna prostituta? Tutte esaurite? E allora vuoi scopare con me, Shanimal?”

“Che cazzo stai dicendo?” Gli occhi di Shannon mandarono un lampo pericoloso, quel soprannome non gli era tanto gradito e nemmeno il maligno commento di Stella. Era anche vero che lo conosceva bene, a quanto sembrava. Fin troppo. E questa cosa gli fece un male cane.

“Hai capito benissimo. Lasciami il braccio. E subito.”

“Chi credi di essere, per dirmi cose simili?” Invece di lasciarlo, Shannon glielo strinse di più.

“Non sono proprio nessuno per te, per quello te le posso dire.”

“Non hai nessun diritto di giudicarmi, capito?”

“Lasciami andare.” Stella tentò ancora di liberarsi, senza riuscirci.

“Ti ho chiesto di restare per parlare, non per scopare.”

“Da te non voglio né l’uno né l’altro.”

Shannon rimase di sasso.

Le lasciò subito il braccio: non aveva senso chiederle perché. Era ormai ovvio: Stella non lo voleva, l’aveva desiderato in passato e ora non più. Aveva ragione lei, non c’era niente da dire: qualsiasi cosa lui provasse non aveva alcuna importanza, ora. La guardò mentre riprendeva il portatile e quei libroni, si voltava a fissarlo per un attimo e poi girava la maniglia ed usciva dalla porta, lasciandola spalancata. Tornava alla sua vita, da suo marito, dalla sua famiglia, mentre lui non aveva nessuno e non poteva farci nulla. Non poteva pretendere nulla da lei: l'aveva trovata, senza cercarla, ma forse era troppo tardi per costruire qualcosa. La seguì e per un attimo rimase sulla soglia, a guardarla allontanarsi silenziosamente lungo il corridoio illuminato.

Chiuse la porta: sarebbe stata una notte lunga e piena di tenebre, per lui.

 

RRR

 

Ho preso la porta e sono uscita quasi di corsa. E dei faldoni che ho in mano farei un falò qui in mezzo al corridoio, non fosse che il mio inculcato senso del dovere ha sempre il sopravvento.

Non mi giro a vedere la porta che si chiude: la sento solo sbattere. Arrivo all’ascensore, trafelata. Premo il pulsante per chiamarlo, ma è come se fossi investita da una scossa elettrica.

Ma cosa sto facendo? Cosa? Cosa, perdio?

Sto fuggendo, di corsa. Come ho fatto sempre in vita mia, a casaccio, sbagliando quasi sempre a scegliere quando sono stata ad un bivio, non cogliendo le occasioni al momento giusto.

Se esco da questo albergo avrò preso la strada giusta?

E se rimango?

L’ho insultato, beffeggiato e, involontariamente, anche cicatrizzato, il povero Shannon. Ma cosa voglio veramente da quell’uomo? Cosa potrei avere da lui?

Sono ritornata lentamente sui miei passi, davanti alla sua porta bianca. 537. Bel numero, dispari, portafortuna, inciso in argento.

Lui è là, dietro quella soglia, ci separa soltanto un pezzo di legno lavorato, e non mi aveva mandato via. Me ne sono andata da sola. Mi aveva detto di restare per parlare di noi, di questa assurda situazione, e io invece ho preso la porta e sono uscita.

Brava.

Un genio.

Quante volte ho pensato che avrei voluto incontrarlo, parlargli, vederlo sorridere? E ora che ce l’ho qui, cosa faccio? Scappo via. Impaurita della mia stessa paura di rimanere da sola con lui. Spaventata dalla possibilità che per lui io conti qualcosa, terrorizzata dall'idea che la storia delle anime gemelle sia vera.

E ora sto malissimo.

Perché? Perché mi faccio male da sola? Il destino mi aveva riservato questa sorpresa, questa notte magica ed impossibile, e io cosa sto facendo? La sto buttando dritta nel cesso. Perché?

Appoggio per terra, vicino alla porta, i faldoni e il PC, maledetti fardelli, e busso leggermente.

Non mi risponde nessuno. Trattengo il fiato.

Busso nuovamente. Ultima volta, penso, e poi me ne vado davvero.

La porta si apre lentamente.

Shannon è lì davanti a me, a torso nudo, con la maglia nera in mano, e mi fissa con il suo solito mezzo sorriso sornione, quello che ho sognato per notti intere. Evidentemente si stava spogliando per andare a letto, visto che adesso è anche scalzo.

Per un momento rimaniamo così, io appoggiata allo stipite della porta, lui con un braccio a tenere la maniglia: non ci sono parole da dire, o perlomeno io non ne ho nessuna.

Non so cosa dirgli, non so cosa provo, non so cosa fare.

Non so nemmeno che espressione ho in volto, non riesco ad immaginare come possa vedermi, che cosa legga nei miei occhi. Gli guardo il tatuaggio artistico sul braccio sinistro, i glyphis sul destro, i suoi muscoli scolpiti, i suoi occhi, il suo petto quasi glabro. Conosco i suoi tratti a memoria, avevo il suo poster nel bagno dell’ufficio ed era fotografato proprio come lo vedo ora, come se il poster si fosse animato. 

E lui non si muove, si lascia guardare, perché?

Poi non so cosa mi prende. E’ come se mi si aprisse improvvisamente una porta in testa, come se crollasse un sipario.

Ma perché mi faccio tutti queste domande inutili? Perché continuo a chiedermi ‘perché’? Perché ho passato la vita a farmi problemi del tipo ‘cosa diranno gli altri’, mentre non mi importava cosa avrei detto io? Perché ho sprecato il mio tempo ad analizzare tutte le situazioni, a dividere un capello in quattro, a fare come DOVEVO fare, imprigionata in obblighi morali ed etici quasi infantili, infarciti di sensi di colpa e peccati, e non come MI SENTIVO di fare?

Io non so cosa voglia da me e non mi importa.

Ma io so cosa voglio da lui e ora mi importa.

Io voglio lui.

Lo voglio e basta.

E lo voglio adesso.

Entro dalla porta e me la chiudo alle spalle.

Mi tolgo la borsetta a tracolla e la appoggio sul tavolo alla mia destra, poi mi tolgo la giacca e le scarpe. Comincio a sbottonarmi la camicetta di seta, lentamente. Non sono una spogliarellista di Las Vegas, quel genere di donne a cui lui è abituato, né una zoccola d’alto bordo, una puttana di mestiere.

Non sono una stragnocca da copertina, una modella da taglia XXS, una attrice di Hollywood ripiena di silicone e botulino, finta come una bambola. Non so se sono bella o sexy in questo momento, non mi importa. Non so se ho il trucco a posto, la pettinatura impeccabile o se sembro uscita dalla centrifuga della lavatrice.

NON MI IMPORTA. Non mi importa più di niente.

Io lo desidero e se Shan mi vuole, fosse anche per un’ora, io sono qui. Solo questo conta, adesso. Non ho più paura di nulla.

Butto la camicetta per terra, poi mi tolgo la gonna e rimango in slip, reggiseno e autoreggenti. Poi mi avvicino a Shannon e lo abbraccio, passandogli le braccia attorno al collo. E’ un delirio di piacere infinito: finalmente posso sentire il calore ed il profumo della sua pelle, il suo corpo contro il mio, le sua braccia che mi stringono. Rabbrividisco al contatto, sono quasi senza fiato.

Gli accarezzo lentamente la nuca, il viso, le spalle, i capelli, il petto, il tatuaggio al centro della schiena e lui, buttata la maglietta per aria, fa altrettanto: mi accarezza la schiena e poi le natiche, i fianchi, il seno.

Poi finalmente sento le sue labbra, avide e bollenti, sulle  mie, la sua lingua che incontra la mia, mentre mi sgancia il reggiseno e percepisco il suo desiderio contro di me. Shannon mi solleva di peso e mi porta sul letto. In breve la mia biancheria vola per la stanza e così pure i suoi pantaloni.

E la notte è solo nostra.

 

RRR

 

Ti ho lasciato che dormivi ancora. Profondamente.

Il jet lag e la notte quasi insonne ti hanno stroncato. Non hai sentito quando mi sono sciolta dal tuo abbraccio, mi sono vestita, ho preso le mie cose e me ne sono andata dalla tua stanza, dopo averti fatto una lieve carezza sul bel viso.

Ti ho lasciato il mio numero di telefono sul tavolino e dal tuo blackberry (che contiene ben sette prolissi SMS non letti di un Jared incazzatissimo con te) ho preso il tuo.

Non so ancora se mi chiamerai, se ti chiamerò o se ci vedremo ancora.

Intanto sono in treno e torno a casa dalla mia famiglia. Tu non ce l’hai una famiglia, non la vuoi, mi hai detto. Io invece ce l’ho e la voglio, comunque, contro tutte le convenzioni. Forse, in fondo in fondo, sono una bacchettona. Non ho pensato nemmeno per un momento di lasciare la mia famiglia e scappare con te. Viviamo in mondi diversi, in modi differenti, ma non per questo non possiamo trovare un punto di contatto, quando meglio ci aggrada. E a me basta e avanza.

Che cosa c’è stato, la notte scorsa, tra di noi?

E’ stato solo sesso? Può essere. Se anche fosse, perché dovremmo negarlo? E’ andato bene ad entrambi, esattamente così com’è stato. Non escludo che tu lo farai con tante altre donne, forse ancora anche con me, ma non ci posso fare nulla, sei un uomo libero ed io, stranamente, non sono gelosa. Io lo farò anche con mio marito, ogni tanto, ma credo che immaginerò di farlo con te, come spesso è successo anche in passato.

E’ stato amore? Può essere. Non lo so. Non ci siamo detti tiamotiamotiamo, come due teneri fidanzatini quindicenni, né giurato amore eterno (niente dura per l’eternità, nemmeno la vita stessa e forse è questa la sua bellezza) perché non sappiamo se è la verità o una balla colossale. Solo il tempo, medico infallibile, potrà dirlo. Mi hai anche detto, prima di crollare dalla stanchezza tra le mie braccia, che la tua sensazione perduta l'hai sentita nuovamente mentre facevamo l'amore, mentre univamo i nostri corpi e i nostri spiriti. Vale anche per me, la sento ogni momento, ogni volta che ti penso, con ogni fibra di me stessa, credevo di averla sepolta ed è invece è più viva che mai.

E poi chissà se è vera la storia delle anime simili: cinicamente mi verrebbe da dire di no, ma sono cinquemila anni che questa leggenda gira, fin dagli albori dell’umanità, dalle mezze mele di Platone, alla Matrix Divina di Gregg Braden, passando per la tua strega boliviana.

E allora, magari, sopravvissuta alle maree del tempo, sì, può essere che sia vera. Mi veniva un po’ da ridere quando lo dicevi tu, però: non ti facevo così romantico! O forse ieri notte eri solo e disperato e ti andava bene chiunque, me compresa? Non so, ora non voglio saperlo. Sto bene così.

Arriva un SMS. E’ la mia collega che mi chiede se sono ancora viva, sopravvissuta alle trappole dell’errore fantasma. Sì,  sono viva, oggi più che mai, più di ogni altro momento che ho vissuto finora.

Guardo il paesaggio che corre oltre il finestrino, veloce, inafferrabile, c’è il sole, la giornata è splendida. O forse è a me che sembra splendida, penso, anche se venisse giù il diluvio universale, una tromba d’aria e una nevicata di due metri.

Mi suona il telefono.

Guardo il numero.

Sei tu.

“Ehi.”

“Ehi. Sei in treno?”

“Sì. E tu?”

“In aeroporto. Torno a casa. Problemi in famiglia.”

Credo di avere capito: “E’ tanto incazzato, Jared?”

“Che basta…” e ti scappa una delle tue inconfondibili risate. “Dovrò raccoglierlo col cucchiaino.”

Rido anch’io: “Ti vuole troppo bene, non sopporta di perderti.” Psicologia spicciola, da oroscopo mattutino.

“Anch’io gliene voglio, ma ogni tanto vorrei ucciderlo.”

“Odio e amore sono legati, lo sai no?” Ora sono agli stereotipi da bacio perugina, me ne rendo conto.

“Oggi vorrei uccidere anche te, a dire la verità.”

“Perché?”

“Perché quando sono uscito dalla camera sono inciampato sui tuoi dannati e merdosi libroni e sono finito a gambe all’aria in mezzo al corridoio! Vipera! Avevi fatto apposta, confessa!”

“O no!” Rido come una matta, immaginandomi la scena di Shannon che li calpesta, bestemmiando come un turco.

“Preparati per la mia atroce vendetta, la prossima volta che ci vediamo.”

“Aiuto, che paura!” Lo prendo in giro.

“Scema. Scappo che perdo l’aereo.”

“Ciao.”

“Ciao. A presto.” Riagganci subito.

A presto.

A presto, piccolo Shan, a presto.

 

 

FINE

 

 

 

   
 
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