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Autore: LordWeavile94    03/11/2013    0 recensioni
La storia di due amici speciali, uniti dall'inizio alla fine. Qualche litigio e un po' di romanticismo entrano nella loro storia, ma loro rimangono sempre e solo amici. Ma cosa succederà quando l'oscurità calerà sul mondo, costringendoli alla battaglia? Scopritelo da soli!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho scritto questa storia per un concorso letterario, tempo fa, che alla fine non ho vinto...ma, rileggendola, mi è venuta voglia di condividerla con tutti. La ho quindi riadattata un poco e cambiato qualcosina per renderla migliore. Ed ecco il risultato. Spero vi piaccia, e Buona Lettura.
Lord Weavile.


Ricordo.

È Maggio. L’estate si avvicina e il caldo comincia a diventare soffocante in questo mondo pacifico, ma che può precipitare nel caos da un momento all’altro. Mi siedo, stanco, sotto quel cedro. Poggio una mano sul tronco e un dislivello diverso dal normale attira la mia attenzione. Mi volto e vedo quella scritta. Stringo il ciondolo che porto al collo e, improvvisamente, Ricordo.
 
Era un dolce e tiepido settembre, quello lì. Tutto eccitato, uscii di casa: era il mio primo giorno di scuola. Ero sicuro di farmi tanti amici, di passare bei momenti. Mia mamma mi gridò di non correre, che era pericoloso, e mi prese per mano. Mi accompagnò fino a scuola, un edificio enorme e luminoso. Arrivammo all’entrata e, dopo avermi salutato, mi lasciò andare con la maestra. Giocai tutto il giorno e incontrai molti altri bambini. Tutti però sembravano conoscersi già e io mi sentivo un pochino solo. Ad un certo punto, correndo, scivolai e caddi, picchiando il ginocchio. Tutti gli altri cominciarono a ridere, mentre io piangevo. Piansi finché non sollevai la testa, e vidi una mano tesa verso di me. Alzai lo sguardo: era una bambina dall’aria preoccupata, che mi chiese –Tutto bene?-. Io annuii leggermente, con le lacrime agli occhi, e presi quella mano.
 
Ricordo.
 
Erano passati alcuni giorni da quel momento e la domenica Bianca venne a casa mia. Ero eccitato, e la aspettai sulla porta, con mia madre, sorridente, accanto a me. Non appena la vidi, gridai di gioia e alzai la mano per salutarla. Lei subito mi rispose, solare. Andammo al parco e giocammo tutto il giorno. Soprattutto a nascondino: lei era bravissima, non si faceva mai trovare. Poi, quando cominciava a muoversi, si scatenava una corsa a perdifiato verso la tana, che finiva quasi sempre con lei vittoriosa. Io mi arrabbiavo, ma poi cominciavamo a ridere. E non ci fermavamo più.
 
Ricordo.
 
Novembre, freddo e nevoso. Uno spettro violento e tenebroso volava sul mondo e su di noi, che avevamo appena cambiato scuola. Seduti insieme al primo banco, seguivamo la lezione di teoria, prima di passare a quella pratica. Bianca mi sembrò triste, quasi sul punto di scoppiare a piangere. Non rispose ai miei tentativi di stuzzicarla, continuò a seguire la lezione. Provai a chiederle cosa era successo, ma mi rispose con un’occhiataccia. Dopo l’intervallo, c’era la lezione pratica. Dieci minuti buoni dopo l’inizio, lei non era ancora arrivata. Mi preoccupai, e chiesi il permesso di andare in bagno. Mi diressi a colpo sicuro sul tetto della scuola: sentivo, in qualche modo, che lei era lì. Arrivato in cima all’edificio, aprii la porta che dava sull’esterno e, subito, un pianto mi risuonò nelle orecchie. Uscii. Bianca era lì, vicino alla porta, a piangere, nascondendo il viso tra le ginocchia. Vedendola così, per poco non mi misi a piangere anche io. Senza una parola, chiusi la porta, mi abbassai, e la strinsi al mio petto. Smise di piangere, per un secondo, ma poi strinse le mani sulla mia maglietta e riprese, ancora più forte. Continuando a tenerla stretta, le accarezzai dolcemente la schiena, sussurrandole che andava tutto bene, che ero lì per lei. La mia maglietta era ormai inzuppata delle sue lacrime, quando, tra i singhiozzi, mi disse:
 –Mio padre è morto-.
Chiusi gli occhi e la strinsi più forte. E quello spettro rideva, si godeva il dolore della mia migliore amica.
 
Ricordo.
 
Erano passati due anni e l’oscurità imperversava sul mondo. Noi, però, continuavamo la nostra vita: ci tenevamo impegnati con la scuola, stando l’uno con l’altra, e cercando di non pensare ad altro che non fosse il nostro presente.
Stavano girando delle voci, su di noi: dicevano che stavamo insieme, che eravamo una coppia, e molti ci invidiavano. Soprattutto i maschi, perché Bianca era oggettivamente bellissima: lunghi capelli neri come l’inchiostro, occhi verdi come un prato primaverile, corpo snello e atletico, e un sorriso che incantava. Anche se mi sforzavo di non darlo a vedere, incantava anche me, ma lei continuava a ripetere che non era vero, che noi due eravamo solo amici, e io lo ripetevo con lei, anche se dentro mi sentivo inquieto. Così, un giorno, nel giardinetto della nostra città, decisi di parlarle.
–Senti, Bianca- cominciai –hai visto che sempre più gente ci prende per una coppia?- Lei rise, alzando gli occhi al cielo, e mi rispose.
–Dai, Franz, e tu badi a quello che dicono loro? Noi due sappiamo che non è così, e questo basta!- Io, un po’ deluso, continuai.
–Certo, è strano che dopo così tanto tempo, nessuno dei due abbia sviluppato qualche sentimento particolare per l’altro, no?-
Lei si irrigidì, e mi guardò in modo strano.
–Che cosa intendi?- mi chiese, secca. Che la avessi colpita nel segno? Forse era giunto il momento giusto. Ma ero una frana con le parole.
–Vedi, Bianca, io...- ma non riuscii a parlare. Lei mi guardava, con quegli occhi che incantavano, e io fissai i miei, castano scuro, nei suoi. E non riuscii a resistere: mi mossi velocemente, e la baciai sulle labbra. Un attimo dopo, lei si staccò con violenza e mi diede uno schiaffo così forte che mi fece cadere all’indietro. Gridò. Disse che per lei io ero solo un amico, che pensava che la nostra amicizia era speciale, che non si sarebbe mai trasformata in amore, perché l’amore rovinava tutto. Disse che pensava che io fossi diverso, non come tutti gli altri che le andavano dietro, ma che in realtà tutti i maschi erano uguali. Gridò molte altre cose, che io però non udii, seduto a terra, cercando di tapparmi le orecchie per non sentire tutti quei coltelli che aprivano ferite sempre più profonde dentro di me. Poi scappò, con le lacrime agli occhi. Io restai lì, stordito e ferito, a cercare di rimettere in ordine tutto quanto. Avevo rovinato tutto. La mia amicizia con Bianca, distrutta da quel mio gesto. Ripensai a lei, a tutti i momenti che avevamo passato insieme, il primo giorno di scuola, tutti i giochi insieme, quella volta che era morto suo padre, e molto altro. Guardai nel mio cuore ed ebbi una folgorazione. Non era vero, lei non mi piaceva: semplicemente, vedendo tutti che pensavano fossimo una coppia, avevo cominciato a considerarmi davvero il suo ragazzo, e quindi avevo sviluppato quel falso sentimento. Mi alzai e mi asciugai le lacrime, determinato. Forse potevo ancora salvare tutto. Corsi tra gli alberi, diretto verso una piccola radura che stava al centro. Era il nostro posto segreto, e sapevo che era lì. Me lo sentivo. E, infatti, la trovai, seduta accanto ad un acero, a piangere con la testa affondata tra le ginocchia. Senza parlare, mi inginocchiai di fronte a lei, con testa bassa, e aspettai. Dopo un po’ mi giunse la sua flebile voce, che diceva –C-Cosa vuoi?-.
E allora, parlai. Le dissi che avevo capito che per me lei era solo un’amica, che mi ero fatto trasportare dalle dicerie, che quello che aveva fatto non era quello che volevo davvero. Erano argomenti stupidi, ma non sapevo cosa dire. Finii di parlare, e tenni la testa china, dicendo solo –Perdonami-.
La sentii muoversi, e pregai che parlasse. Ma poi, sentii qualcosa di caldo e morbido che mi sfiorava, e capii che lei mi stava abbracciando. Felice, con le lacrime agli occhi, risposi all’abbraccio.
–Scemo.- disse –Sei uno scemo, Franz. Se lo fai ancora, giuro che ti uccido.- Le ultime parole le aveva dette con un tono scherzoso. Mi separai e la guardai: aveva le lacrime agli occhi, ma era tornata a sorridere.
–Grazie.- dissi soltanto, asciugandole le lacrime dagli occhi smeraldini. Il sorriso di Bianca si fece più largo e tirò fuori il coltello che, per obbligo, dovevamo tutti portare per difenderci in caso di bisogno. Poi si girò verso l’acero e cominciò a incidere qualcosa. Curioso, le chiesi –Che fai?-.
 Mi rispose scherzosa – Se guardi giuro che ti faccio il solletico dove sai tu fino alla morte.- Deglutii, e mi allontanai subito. Poi, però, parlai con voce determinata.
–Be’, non riusciresti nemmeno, sono troppo forte per te!- Lei rise e rispose.
–Peccato che basta che ti sfiori lì e tu sei KO, bello mio!- Arrossii, sconfitto. Borbottai qualcosa sotto voce, e la sentii ridacchiare.
–Finito!- annunciò poco dopo, e si allontanò leggermente dall’albero, guardandomi. Curioso, mi avvicinai: c’era inciso qualcosa, ma prima che potessi leggere Bianca mi saltò addosso e cominciò a farmi il solletico sul lato della pancia, vicino all’ultima costola. In un attimo, ero a terra con le lacrime agli occhi, a contorcermi e a ridere, completamente alla sua mercé. Poi però la sentii allontanarsi e mi rimisi seduto, sfinito. –Ehi!- gridai –perché lo hai fatto?- La sua risata risuonò nell’aria, e mi guardò ghignando.
 –Non ti avevo mica detto che potevi guardare, quindi ti ho punito! Comunque, adesso puoi vedere!- Mi chiesi se non fosse il caso di saltarle addosso e farle un po’ di solletico, ma poi la curiosità prevalse. Mi girai, e spalancai gli occhi a vedere cosa c’era scritto: “Franz e Bianca, migliori amici per sempre”. Sorrisi e, senza volerlo, mi spuntarono un paio di lacrime ai lati degli occhi. Mi girai verso la mia amica, e la vidi avvicinarsi. Mi asciugò le lacrime con la mano, con un sorriso così dolce che mi fece quasi sciogliere, ma non di amore. Di pura e semplice gioia. Lei ritirò la mano, ma io la fermai, e la spinsi in un forte abbraccio. Lei rispose prontamente, stringendomi a sè con fermezza.
–Fortuna che ci sei- sussurrammo entrambi all’orecchio dell’altro, contemporaneamente. Ci allontanammo, continuando a guardarci negli occhi, felici come non mai. E il sole sembrava più caldo, il canto degli uccelli più melodioso, e l’oscurità più lontana.
 
Il vento soffia, fresco, e le fronde dell’acero vengono scosse, producendo un gradevole venticello. Riguardo ancora una volta quella scritta, chiudo gli occhi, stringo con la mano stanca il ciondolo che ho al collo e, infine...Ricordo.
 
Avevamo ormai diciannove anni, e la scuola era finita. Fummo chiamati in presidenza, dove ci aspettava il Ministro, un uomo piccolo e arcigno, con la puzza sotto il naso. Parlò a lungo: della situazione in cui si trovava il nostro paese, del nostro dovere di cittadini, del “fare la cosa giusta per l’umanità” e cose simili. Vidi che Bianca si stava trattenendo a fatica dal saltargli addosso, così le presi la mano, cercando di infonderle sicurezza. Infine, ci furono assegnate le missioni: io ero in coppia con Bianca, e dovevamo attraversare le Cime Selvagge, per unirci alle spie. Nel sentire il luogo, mi preoccupai: le Cime Selvagge erano famose per ospitare bestie di ogni genere, anche molto pericolose. Così chiesi spiegazioni al preside, che ci rispose che non era affar nostro quanto fosse pericoloso, dovevamo solo eseguire gli ordini. Stringemmo i denti, ed uscimmo dalla scuola. Il cielo era azzurro, e gli uccelli cantavano: lo spettro sembrava non esistere, quasi. Alla natura non importava di quello che facevano gli uomini, e continuava il suo corso, tranquilla e indisturbata.
Avevamo il pomeriggio per prepararci, e l’indomani saremmo dovuti partire. Andammo a rifornirci e a prendere ulteriori ordini, tenendoci per tutto il tempo la mano, cercando di confortarci a vicenda.
Per il resto del pomeriggio, vagammo per la città, godendoci quegli ultimi momenti di pace e serenità, prima dell’arrivo della tempesta. La sera ci salutammo, malinconici, e ci demmo appuntamento per il giorno dopo. Quando dissi cosa stavo per fare ai miei genitori, mia madre scoppiò a piangere e mio padre la rassicurò, dicendo che sarebbe andato tutto bene. Io, stordito, cercai di dire qualcos’altro, ma le parole non mi uscivano di bocca. Mio padre mi guardò con gli occhi lucidi e mi disse di andare a letto, che domani sarebbe stato un giorno difficile. Annuii, sussurrai un –Buonanotte Mamma, Papà-, poi mi diressi in camera mia. Senza neanche svestirmi, mi buttai sul letto, cercando di trattenere le lacrime, che però uscivano spontaneamente. Il giorno dopo, tutto sarebbe iniziato...e forse, tutto sarebbe finito. Restai così per un sacco di tempo, senza riuscire a dormire. Dopo circa un’ora, sentii la porta aprirsi, e i miei genitori sedersi sul letto e stringermi le mani. Feci finta di dormire, ma ricambiai leggermente la stretta. Chissà se li avrei rivisti. Dopo un po’, ad ogni modo, mi addormentai, sempre con i miei genitori al fianco, proprio come quando, da bambino, la notte prima del primo giorno di scuola, non riuscivo a dormire, e loro si erano messi ai lati del mio letto, a cantarmi una ninna nanna, ed io, cullato, mi ero addormentato docilmente.
Mi svegliai la mattina, dopo un sonno agitato e pieno di incubi. La mia camera era sempre la stessa: piccola, disordinata e polverosa. Sorrisi e, alzandomi, diedi un’ultima occhiata alla cameretta, cercando di imprimere nella mia mente quanti più dettagli possibile. Andai in sala da pranzo, dove i miei genitori mi aspettavano per fare colazione. Di solito si alzavano dopo di me, ma oggi era un giorno speciale, in fondo. Li salutai il più allegramente possibile, e mangiai la mia colazione il più lentamente che potevo, per prolungare quel breve momento di pace. Dopo, preparammo lo zaino con le provviste e tutto il resto. Ero finalmente pronto a partire.
Quando uscii, i miei genitori, spontaneamente, mi accompagnarono. Ero felice, perché non lo facevano da quando andavo alle scuole medie. Ci dirigemmo in silenzio, tutti e tre, verso la porta della città. Lo spiazzo antistante l’uscita era pieno di ragazzi e genitori che si salutavano fra le lacrime. Strinsi i pugni, e sentii la mano di mio padre sulla spalla. Mi girai, e lui mi guardò determinato.
–Tornerai, lo so.- disse, come se non avesse alcun dubbio. Mia madre scoppiò a piangere, e la abbracciai forte. –Tornerò. Lo giuro.- Mio padre annuì, poi mi tese la mano. Mi separai da mia madre, e strinsi quella mano, quel segno del mio essere un uomo, ormai, con forza. Non avrei ceduto, mai. Subito dopo, sentii qualcuno chiamarmi.
–Franz! Eccomi qui!- Mi girai: era Bianca. Era sorridente, ma gli occhi gonfi testimoniavano che aveva pianto molto. Sua madre era dietro di lei, con le labbra serrate e le mani congiunte.
–Ciao Bianca! Pronta?- La guardai, e lei annuì: come me, non voleva rendere quell’addio più straziante, rendendolo più lungo. Poi ci sorridemmo, ci girammo verso i nostri genitori, e all’unisono gridammo –Torneremo! I migliori amici non perdono mai!- Tutti e tre sorrisero: sembravano più rincuorati, se non dalla nostra frase, almeno dal nostro atteggiamento allegro e solare. Poi la madre di Bianca si avvicinò.
–Per favore, proteggila. Sei l’unico che può farlo, l’unico di cui mi posso fidare. Per favore.- disse stringendo i pugni, e stava per aggiungere altro, quando Bianca la interruppe.
–Ehi, cosa è questa storia? Semmai sarò io a proteggere lui, sono molto più forte io!- Poi sorrise –Dai mamma, tranquilla. Non ci succederà niente.- Lei annuì, ma si vedeva che soffriva.
–Dai Franz, andiamo! Prima cominciamo, prima finiamo!- disse Bianca, cominciando a correre verso l’uscita.
–Aspettami!- gridai, e poi le corsi dietro. Ci fermammo entrambi sulla soglia, attorniati dagli altri ragazzi e salutammo i nostri genitori ancora una volta con la mano. Poi, ci girammo verso il mondo esterno. La nostra missione ci chiamava.
Camminammo per un po’, senza parlare. Molti intorno a noi vociavano eccitati: pensavano di star per diventare degli eroi, non immaginavano cosa li attendeva. Il cielo, plumbeo, lanciava i suoi ruggiti di quando in quando, minacciando tempesta. Dopo un tratto, ci separammo dagli altri: noi dovevamo fare un giro più lungo, ed infiltrarci senza farci vedere, mentre loro distraevano gli avversari. Giunti al momento della separazione, io mi girai verso i miei compagni, chiedendomi quanti di loro avrei rivisto, e quanti invece non sarebbero mai più tornati alle loro case. Dopodiché, corsi verso Bianca, che aveva accelerato il passo, senza guardarsi indietro. Sapevo che stava molto male, per i suoi genitori e per se stessa. E, per la prima volta, sentivo che aveva paura, una paura folle. E lo sapevo perchè anche per me era lo stesso. Ci allontanammo dalla colonna pian piano, infilandoci in un bosco, la cui via principale portava alle montagne. Dopo un poco, cominciò a scendere una pioggerellina leggera, di quelle che quasi non si sentono, ma che ti ghiacciano le ossa.
–Bianca- dissi –cerchiamo un riparo, e fermiamoci lì, per oggi.- Lei annuì e, tirando fuori la mappa dei dintorni, scoprimmo che vicino c’era una grotta. Ci dirigemmo lì e, dopo aver verificato che non ci fossero tracce di orsi o altre bestie, ci accampammo. Accendemmo un fuoco in fondo alla grotta e preparammo qualcosa da mangiare, tutto nel silenzio interrotto soltanto dallo scoppiettare delle fiamme e dal rumore della pioggia. Mangiammo, per poi infilarci nelle coperte consunte che ci erano state affibbiate. Guardai per un po’ Bianca, mentre lei, con gli occhi chiusi, riposava. Avrei voluto dirle qualcosa, confortarla, ma non sapevo che cosa fare. Ero il suo migliore amico, ma non sapevo che cosa dirle. Sospirai, e chiusi gli occhi, preparandomi a dormire. Poco dopo sentii un rumore e qualcosa di caldo si appoggiò a me. Aprii gli occhi: era Bianca, che mi guardava.
–Ho freddo.- Disse soltanto. Io annuii e la strinsi più vicina a me, e lei si appoggiò al mio petto. Chiusi di nuovo gli occhi, mentre la mia maglia diventava umida e la mia mano passava tra i capelli di lei, così disperata e sola in quel mondo crudele. Canticchiai dolcemente una ninna nanna che mi cantava mia mamma quando ero piccolo, sentendomi affondare il cuore per la nostalgia di casa. Pian piano Bianca si addormentò, riposando tranquillamente vicino a me. Tenni gli occhi aperti e vegliai su di lei, la mia migliore amica, la ragazza più importante nella mia vita, colei senza la quale sarei ancora quel bambino piangente per la caduta, finché gli occhi non mi si chiusero da soli, facendomi addormentare, appoggiato a lei.
Inspirai, e un odore di carne sul fuoco mi solleticò il palato: aprii gli occhi. Ero ancora in quella caverna, con Bianca che si affaccendava sul fuoco. Sbadigliai sonoramente. –Buongiorno, dormiglione!- disse, con voce allegra. Mi stupii: pensavo che ci avrebbe messo molto di più a tornare quella di sempre, ma sembrava già tornata alla normalità.
–Buongiorno- risposi. –Cosa c’è da mangiare?- Lei rise e mi passò un paio di salsicce scaldate.
–Ecco cosa c’è, bello addormentato! E ringraziami che mi sono svegliata presto per preparare tutto questo!- Sorrisi e la ringraziai, per poi cominciare a mangiare. Era davvero delizioso, non sapevo che ci sapesse fare così tanto in cucina.
–Meno male che ci sono io- disse –altrimenti morivamo di fame, qua!- Io feci finta di offendermi.
–Ehi!- replicai –non faccio così pena!- Lei mi guardò come per dire “si, come no!”, e rispose –Uhm...chi era quella persona che è riuscita a bruciare le patate bollite?- Arrossii violentemente. –M-mi ero distratto!- borbottai, e tornai a mangiare. Passammo così la colazione, ridendo e scherzando.
Poi, tornammo seri. –Ok, dobbiamo fare il piano. Come è il tempo oggi?- chiesi a Bianca. –Ottimo, direi, il sole splende!- Annuii: meglio così, anche se un po’ di copertura nuvolosa non sarebbe stata male. Presi la mappa e la srotolai sul pavimento di pietra.
–Noi siamo qui- indicai la nostra posizione –mentre le montagne sono un po’ più a nordest. Per fortuna, le Cime Selvagge sono i monti più vicini, e basta attraversare la Valle del Cavaliere per superarle. Direi che possiamo fare così: dobbiamo essere al campo base tra una settimana, quindi in due giorni di buona camminata possiamo raggiungere l’ingresso delle Cime. Per passare attraverso la Valle, impiegheremo circa tre giorni, il che fanno cinque. Poi, essendo che il campo dista un solo giorno dall’uscita delle Cime, potremo prendercela comoda. Qualche obiezione?- Bianca mi guardò, ammirata, poi scosse la testa.
–Wow- disse –sei bravo a fare piani!- Io risi, e risposi –Certo, io sono il migliore, piccola!- Lei alzò gli occhi al cielo, e cominciò a preparare le sue provviste. Dopo circa una mezzora, eravamo pronti a partire.
–Ah- disse Bianca ad un certo punto –aspetta un attimo.- La guardai in modo interrogativo e lei lasciò il suo zaino per frugarci dentro.
–Chiudi gli occhi!- disse. La guardai stupito –Perché?- chiesi. Lei mi rimbeccò
–Se non lo fai, ti solletico fino alla morte.- Trasalii e chiusi gli occhi. Subito dopo, la sentii avvicinarsi e mettermi qualcosa intorno al collo.
–Ok, puoi aprirli- disse. Aprii gli occhi, e guardai cosa mi aveva messo: era un ciondolo a forma di goccia, fatto in un cristallo azzurro cielo. -Quello è un ciondolo speciale- continuò –si chiama “Lacrima d’amico”- si avvicinò, per poi sussurrarmi all’orecchio –si dice che, se donato alla persona più importante per sé, la protegga dalle sventure.- Poi mi diede un veloce bacio sulla guancia e si girò, correndo fuori con lo zaino. Arrossii, felice come poche volte lo ero stato, e la seguii fuori dalla grotta.
Camminammo tutto il giorno, ridendo e scherzando tra di noi, come se fossimo in una semplice scampagnata tra amici. Ogni tanto guardavo il ciondolo e sorridevo, volgendo il mio sguardo sulla mia migliore amica, che mi precedeva lungo la strada. La sera ci accampammo in mezzo ad una radura, e decidemmo di fare dei turni per evitare un attacco di qualche bestia, ravvivando ogni tanto il fuoco. Cominciai io a fare il primo turno, e vegliai fino alle due del mattino, quando svegliai Bianca per dormire un po’. Al mio risveglio non trovai di nuovo quel piacevole odore di carne cotta, ma una semplice scatoletta di pesce.
–Non possiamo cuocere qua- mi spiegò al mio disappunto –potrebbe attirare delle bestie-. Riconobbi che aveva ragione e mangiai senza lamentarmi. Dopodiché, preparammo di nuovo tutti gli oggetti e ci rimettemmo in cammino. Questa volta restammo un po’ più zitti: ci stavamo avvicinando alle Cime, ed era meglio non attirare troppa attenzione. Man mano che camminavamo, le montagne si facevano sempre più grandi: alte almeno un paio di chilometri, con le cime spruzzate di neve battute da venti gelidi. Uccelli predatori si aggiravano tra le nuvole, mentre orsi e altre creature terrestri battevano la terra. Senza dubbio, un posto pericoloso, ma anche meraviglioso e affascinante.
Ci fermammo ad un lato del sentiero che conduceva nella Valle del Cavaliere, per riposarci e dare tutti noi stessi il giorno dopo. Mentre mangiavamo chiusi intorno ad un piccolo fuoco, chiesi a Bianca –Ehi, hai idea di perché si chiama Valle del Cavaliere?- Lei ci pensò su, poi mi rispose.
–Credo che sia perché si dice che il grande eroe del passato, colui che si faceva chiamare “il Cavaliere”, sia nato e cresciuto all’interno delle Cime, sviluppando forza e abilità senza eguali.- Io annuii, facendo segno di aver capito, e la ringraziai. Dopo aver mangiato, ci sdraiammo uno accanto all’altra, dopo aver deciso di nuovo di fare dei turni. Questa volta cominciò lei e, quando mi svegliò, le chiesi se fosse successo qualcosa. –Niente- rispose -niente-.
Annuii e mi misi io a guardia. Anche per il resto della notte non successe niente e decisi, mentre spuntava l’alba, di cuocere qualcosa: avevamo bisogno di energie, dopotutto, e tanto avremmo lasciato presto il campo. Il risultato non fu dei migliori, ma quando si svegliò Bianca sembrava contenta e mi ringraziò. Dopo aver mangiato, raccogliemmo tutto e ci dirigemmo verso l’entrata della Valle. Da quel punto si poteva vedere lo stretto sentiero che saliva tortuosamente verso le Cime e che ad un certo punto si biforcava, e il canyon sottostante, che precipitava giù per centinaia di metri. Un volo da lì significava morte certa. Ci girammo l’uno verso l’altra.
–Pronta?-dissi, nervosamente.
–Pronta- rispose lei, con lo stesso tono. Quindi, ci incamminammo all’interno delle montagne.
 
Il vento sembra parlarmi con parole dolci, mentre l’ultimo episodio della nostra vita scorre come un fiume davanti ai miei occhi. Calde lacrime mi scendono giù dagli occhi che hanno visto fin troppo, mentre ricordo.
 
Camminammo per circa una ventina di minuti, tranquilli. Ormai ci stavamo rilassando: non c’erano segni di bestie in giro e il sentiero non era nemmeno poi così stretto come sembrava. Una vera passeggiata, almeno a prima vista. Poi, però, udimmo uno stridio provenire dall’alto, ma non ci facemmo caso: ne sentivamo molti, ed erano probabilmente le aquile che volavano tra le cime delle montagne. Risentii lo stridio, molto più vicino, e un secondo dopo un dolore lancinante al braccio mi fece gridare e piegare in due. Bianca si girò immediatamente verso di me e io le gridai di stare attenta. Subito dopo, un altro stridio, e come un fulmine l’animale scese su di noi: sentii la mia amica sguainare la spada, lottare, ansimare. Poi, con un tonfo, il corpo dell’avversario cadde a terra. Subito Bianca mi fu accanto, con il kit di pronto soccorso. Avevo una ferita al braccio, per gli artigli di quella bestia. Tra le lacrime notai che la ferita, anche se superficiale, era piuttosto estesa: quelle unghie dovevano essere belle grandi. La mia compagna mi medicò, dicendo che per fortuna non era grave, poi mi indicò l’animale che ci aveva attaccato. Era un’aquila, una di quelle che volavano alte nel cielo, alta quasi fino alle mie spalle, con artigli lunghi quanto le mie mani, ali con apertura di almeno tre metri. Deglutii a fatica: avrebbe potuto aprirmi in due senza particolari problemi. Meno male che c’era Bianca.
–Dobbiamo stare attenti- disse lei, subito dopo, guardando il cielo –non abbassiamo la guardia.- Annuii e sguainai la spada: l’arco non sarebbe servito, erano troppo veloci per essere colpite. Stavamo per rimetterci in cammino, quando un altro stridio ci giunse dall’alto. Gridai –Giù!- e mi buttai a terra, mentre, rapida e letale, l’aquila passava sopra le nostre teste. Stetti un paio di secondi a terra, poi mi rialzai. Bianca mi gridò qualcosa, e subito dopo il pennuto fu su di me. Tutto divenne confuso: l’animale graffiava, beccava, strideva, io paravo, attaccavo, gridavo, mentre la voce di Bianca si sentiva a malapena in tutto quel rumore. Resistetti all’assalto solo per pochi secondi, poi fui scagliato contro il muro al lato del sentiero. L’aquila vittoriosa lanciò uno strido e alzò il becco un’ultima volta, per poi muoversi velocemente. Chiusi gli occhi, ma il dolore che mi aspettavo non venne. Si sentì un debole verso e l’uccello, morto, cadde giù, nel canyon. Riaprii gli occhi: Bianca era davanti a me, girata di schiena, ansimante, con la spada intrisa di sangue.
–Stai bene?- mi disse, con voce atona.
–C-certo, grazie a te.- Lei annuì e sussurrò impercettibilmente un “bene”. Poi cadde a terra, lasciando la spada e tenendo le mani sulla pancia. Gridai il suo nome, e mi precipitai a soccorrerla. Non appena la girai, però, vidi una ferita orribile, all’altezza dello stomaco, da cui il sangue usciva a fiotti. Capii subito cosa stava per succedere, ma allontanai il pensiero. Dovevo salvarla.
–T-tranquilla- dissi, con voce nervosa –adesso ci penso io-. Presi il kit di pronto soccorso, cercando delle bende. Quando non le trovai, cominciai a lanciare le cose in giro, disperato, finché non riuscii a prenderne un rotolo. Lacrime cominciavano ad uscire dai miei occhi.
–B-bene, un momento, e vedrai che finisce.- presi le bende e le avvolsi intorno alla ferita, ma immediatamente quelle si intrisero di sangue, non fermando affatto l’emorragia. Le tolsi e ne presi altre.
–Ops- dissi –adesso le cambio, tranquilla.- Mi giunse la sua flebile voce. –Franz...- Non la guardai: non la volevo vedere sofferente. Ormai piangevo apertamente, ma continuai ad avvolgere la ferita con le bende, a disinfettarla, riempiendo le mie mani del sangue della mia migliore amica.
–Non parlare- dissi tra i singhiozzi –risparmia il fiato.- Lei però ripeté
–Franz...guardami.- Il suo tono era così disperato, che non potei fare a meno di girarmi. Il suo viso era una maschera di dolore e gli occhi cominciavano a perdere lo splendore che li contraddistingueva.
–N-no- sussurrai. –Ti prego, Bianca, no.- Lei rivolse le orbite verso di me, cercando di scorgermi come se fossi molto lontano, invece che a pochi centimetri dal suo viso.
–Franz...- ripeté ancora una volta –n-non piangere...sarai...per sempre...il mio migliore...amico...- Le strinsi la mano con forza e cominciai a gridare.
–No, non puoi dire questo! Dobbiamo ancora fare un sacco di cose insieme, dobbiamo finire tutto quello che abbiamo iniziato! Avevamo promesso di vivere per sempre vicini, di essere amici per sempre. Tu non stai per morire! Tu...non stai...- tacqui, e cercai di trattenere le lacrime, abbassando la testa.
Sentii qualcosa di freddo toccarmi il viso, e scoprii che era la sua mano.
–Tu...mi vuoi bene?- mi chiese. Risposi subito –Certo! Ti voglio bene più che a qualsiasi altra persona!- Stavo per continuare, ma la sua voce, un sussurro ormai, mi interruppe.
–Bene...anche io...ti voglio...bene.- Poi sorrise, l’ultimo suo sorriso, chiuse gli occhi e non si mosse più.
 
Ho pianto, sai? Anche se tu mi hai detto di non farlo, ogni tanto mi capita, ancora oggi. Ogni tanto ripenso a te, alla tua allegria, alla tua dolcezza, alla tua testardaggine, e sorrido. Ricordo tutti i momenti che abbiamo passato insieme, e capisco che, senza di te, la mia vita sarebbe stata vuota. E mi chiedo perchè questa pace che il mondo ha conquistato, non la puoi godere anche tu, tu che la meriti più di qualsiasi altro essere su questo pianeta. E adesso, che sono vecchio e stanco, dopo una vita vissuta tra gioie e dolori, sotto questo acero, e con al collo questo ciondolo, che sono i simboli della nostra amicizia immortale, il mio cuore trabocca di nostalgia e di rimpianto.
 
Improvvisamente, il vento mi parla. Una voce, leggera come l’aria, dice che è giunto il momento, che è tempo di rivedersi, che ho fatto tutto quello che potevo fare per questo mondo. Mi alzo, spaventato, e cerco di correre via. Inciampo, cado e mi faccio male al ginocchio. Alzo la testa, e una piccola mano perlacea entra nel mio campo visivo. Alzo gli occhi, stupito: è una ragazza, trasparente come l’acqua, con l’aria preoccupata, che mi chiede –Tutto bene?-. Io annuisco leggermente, con le lacrime agli occhi, e prendo quella mano
 
 
Fine.


Un po' troppo "epico", forse, in alcuni punti, e magari troppo scontata...però mi è piaciuto scriverla, e spero che a voi sia piaciuto leggerla. Se avete consigli/critiche/elogi da darmi fate pure, sono contento di qualsiasi cosa mi mandiate. Grazie per avermi sopportato e...a presto!
Lord Weavile.
  
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