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Autore: claudineclaudette_    21/04/2008    2 recensioni
Una ragazza come poche, una ragazza come tante. Nella monotonia della vita continuare ad andare avanti giorno dopo giorno senza aspettarsi nulla dal domani e finendo per perdere di vista se stessi, fino al punto di vendere il proprio corpo. Ho scritto questa storia in una giornata triste e grigia, ma non so come si sia creato il personaggio, è quasi come se non fossi stata io a scrivere. Per favore, esprimete il vostro parere, è molto importante per me, soprattutto per questa storia!
Genere: Introspettivo, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminavo lentamente, la strada che conduceva a scuola era deserta, il grigio cielo autunnale. Da un momento all’altro avrebbe cominciato a piovere, ma la cosa non mi importava. Faceva freddo, il vento vorticava intorno a me, a tratti mi faceva quasi perdere l’equilibrio. Mi fermai all’improvviso, sotto un pergolo, ad attendere l’autobus. Afferrai la borsa e la spostai dalla spalla destra alla sinistra. Una folata di vento mi scompigliò i capelli. Merda pensai.
L’autobus arrivò. Mi strinsi nella giacca griffata e ci salii. Appena mi videro, i ragazzi cominciarono a fischiare e alcuni di loro sussurrarono vari commenti al mio passaggio. Non cambiai espressione, ma dentro di me sorrisi, erano tutti uguali. Animali, nient’altro. Da molto tempo avevo smesso di considerare i ragazzi come tali. Mi sedetti nell’unico posto ancora libero e poi mi isolai, ipnotizzata dal lento scivolare delle gocce sul vetro. In quel momento pioveva, e pioveva forte. Una fermata, due fermate, tre fermate… la mia scuola. Lì scesi, ormai da sola perché le lezioni erano cominciate molto tempo prima. Ormai infuriava un tempesta. Il vento forte e freddo mi schiaffeggiava in faccia l’acqua, i miei capelli gocciolavano fradici, come poi i vestiti. Sospirai, senza essere perfettamente conscia di quel che facevo varcai la soglia della scuola. I corridoi erano deserti, non incontrai nessuno nemmeno vicino al bar o nei bagni. Poi raggiunsi la mia classe. La porta era chiusa e da dentro non udivo che la voce profonda della professoressa. Aprii la porta. Come un sol uomo tutti, studenti e insegnante, si voltarono a guardarmi. Cosa avete da fissarmi?
- Salom - disse la professoressa - dal preside.
Lasciai cadere la borsa a terra, seguita dalla giacca, e uscii. Non andai subito dalla preside, prima andai nel bagno delle ragazze e mi accesi una sigaretta. Tirai una volta e mi sentii meglio. Non che fossi in astinenza da nicotina o qualunque delle cazzate che dicono i medici, non fumavo neppure per calmarmi perché certo non temevo il preside. Fumavo perché avevo iniziato. Fumavo perché ero stupida, fumavo perché ero orgogliosa e testarda. Fumavo perché mi divertivo. Fumavo perché era proibito.
Sentii l’eco di passi in corridoio ma non le diedi peso. Portai la sigaretta alle labbra, aspirai a fondo e poi soffiai il fumo fuori dalla bocca, in faccia al professore di controllo.
- Salom - sospirò. Grazie prof, senza di lei non avrei saputo il mio nome.
Mi sentivo ben disposta in quel momento, così spensi la sigaretta contro il muro del bagno e la gettai nel cesso più vicino.
- C’è una sanzione per chi viene trovato a fumare in bagno - osservò.
- Davvero? - dissi ostentando una faccia stupida. - Ma scusa, qui non c’è scritto “multa”? - domandai puntando il dito contro la circolare appesa a un chiodo, là accanto.
- Ti arriverà la lettera a casa - sospirò lui uscendo dal bagno.
- Non ce n’è bisogno - risposi. Infilai le mani nelle tasche e tirai fuori quattro banconote da cento euro e glieli accartocciai nelle mani. - Bastano questi? - e me ne andai. Di soldi ne avevo fin troppi.
Mi ritrovai davanti alla porta del preside. Entrai senza bussare.
- Ti aspettavo venti minuti fa - mi disse lui.
Gli sedetti di fronte senza dire nulla.
- Sai che la scuola inizia alle otto, non alle nove meno un quarto? - mi domandò, ripetendo quelle frasi già dette mille volte.
- Così dice il regolamento - gli risposi.
- E perché non eri in classe a quell’ora?
- Ero da un’altra parte.
- Dove?
- Non c’è più il diritto alla privacy?
- Non per te, Salom.
- Ero a letto.
Il preside sospirò, irrequieto si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.
- Perché sei qui? - mi domandò. Ero stufa di rispondere sempre alle stesse domande, stufa di sedermi su quella stessa squallida poltrona. Ero quasi stufa di dare risposte strafottenti e sarcastiche.
- Perché mi ci ha mandato Laura - risposi, nonostante tutto.
- Si chiama professoressa Farardi - mi corresse lui.
In quel momento la campanella della ricreazione suonò. Senza aspettare nessun permesso di congedo mi alzai e uscii dalla presidenza. Lui mi lasciò andare, in fondo era sempre la stessa scena. Le domande precedevano sempre le stesse risposte ed entrambi eravamo stufi di vedere e rivivere sempre la stessa scena. Solo una domanda però valeva la pena di essere colta: “perché sei qui”?
Non lo so. Non mi interessa, probabilmente perché non ho nient’altro da fare. Tornai nella mia classe. La “mia” classe, una classe di cui non conoscevo nemmeno i componenti. Forse una o due ragazze mi erano familiari, forse c’avevo scambiato qualche parola all’inizio dell’anno scorso. Sinceramente non me ne frega un cazzo di nessuna di loro. Afferai la borsa con una mano e la giacca con l’altra, poi mi voltai per andarmene.
- Te ne vai? - mi domandò Laura.
- Non lo vedi? - le risposi atona, allontanandomi.
Avevo sedici anni ma nonostante ciò mi lasciarono uscire. Non mi fermarono, effettivamente non mi guardarono nemmeno. I bidelli, i professori e gli studenti. Non mi fermarono e non mi guardarono, meglio così. Avevano paura di me? Mi temevano? Per i bidelli ero una seccatura, per i professori una battaglia persa e per gli altri studenti una pericolosa sirena. Salomé mi chiamavano, storpiando crudelmente il mio cognome.
Fuori pioveva ancora, se possibile ancora più forte di prima. Camminai sotto la pioggia battente fino a raggiungere un pub. Presentai una carta d’identità fasulla, sebbene di ottima fattura, e mi feci servire un superalcolico, anche se non erano ancora le dieci di mattina. Stavo per pagare quando mi resi conto che stavo ricevendo una chiamata sul cellulare. Dal principio cercai di ignorare quella fastidiosa vibrazione nella tasca dei jeans, dopo aver pagato risposi con calma.
- Pronto, Mattia? - dissi avendo riconosciuto il numero sullo schermo.
- Ciao Giorgia - mi disse lui dall’altra parte. - Sei a scuola?
- No, nel bar di fronte. Vuoi che faccio un salto da te?
- Sempre se non hai altri impegni - mi sembrò sorridere dall’altra parte dell’apparecchio.
- Dipende dall’offerta.
- Cinquanta?
- Facciamo ottanta, oggi non sono ben disposta.
Lo sentii esitare, ottanta erano tanti in effetti ma, come avevo detto, quella giornata non ero dell’umore adatto.
- Vada per ottanta. Ti aspetto qui tra un’ora - poi interruppe la comunicazione.
Bene pensai. Non mi aspettavo nulla oggi, e invece! Fuori dal bar presi l’autobus di linea numero 12, dopo un po’ scesi e presi la numero 53 che mi portò davanti a casa di Mattia. Mattia era uno dei miei preferiti, andava bene quando mi chiamava.
Non aveva smesso di piovere e quando suonai il campanello di casa sua nemmeno l’intimo era ancora asciutto.
- Avevo pensato di offrirti una doccia, ma vedo che non ne hai bisogno! - mi disse scherzando.
- Lasciami solo mettere i vestiti ad asciugare.
Cominciai a spogliarmi mentre lui si sedette sul letto. Era abbastanza alto, non brutto ma nemmeno particolarmente bello. I capelli neri gli cadevano sugli occhi in ciocche disordinate, la suo bocca sorrideva. Nel complesso era abbastanza trasandato. Viveva da solo in un appartamento vicino al centro, non so che lavoro facesse e non mi interessava. Per un certo periodo aveva frequentato l’università, studiava giurisprudenza, ma poi l’aveva abbandonata per un misterioso lavoro che gli era stato offerto. Probabilmente spacciava, ma infondo chi se ne frega. Se uno non  è libero di farsi i cazzi suoi a trent’anni quando lo è?
Mi avvicinai al letto e lui ci si sdraiò tendendomi una mano.
- Ottanta, vero? - mi domandò.
- Metà all’inizio, metà alla fine. Come sempre - risposi, prendendogli i quaranta euro dalle mani. Andai alla mia borsa e li infilai in una tasca interna, poi tornai da lui.
- Come sempre.
   
 
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