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Autore: Sottopelle    07/11/2013    2 recensioni
"Adesso ed in questo momento che, indovinate un po’: non è lo stesso momento di prima."
Adesso. Ed in questo momento.
Il tempo è relativo. La comprensione è relativa. L'impossibile è relativo. Io sono relativa.
Comprendermi è relativamente impossibile.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Inanzitutto voglio darvi il benvenuto. Questa è il mio racconto in questo sito e sono un po' emozionata. Questo testo lo avevo pubblicato precedentemente sulla mia pagina di facebook (per chi volesse, si chiama Controcorrente) e che poi ho deciso di condividere qui. Mi farebbe molto piacere ricevere qualche vostro parere. Che sia una critica, un consiglio, quello che vi pare. Ci tengo a precisare che lo stile del racconto è in parte (molto) ispirato a "La casa del buio" di Stephen King e Peter Straub.
E, dunque... penso di aver finito. Buona lettura.

Anzi, no, non ho finito. Mi scuso per gli eventuali errori di battitura che son sicura di aver commesso.

Buona lettura a tutti!












Adesso ed in questo momento.

Adesso: è mattina, fa freddo, ho sonno, ho fame, ho sete, devo andare al bagno. In questo momento: Wanda Ørberg gira scalza per casa, gli occhi fissi sul giornale, la prima pagina, per l'esattezza. Una bambina, di forse sette, otto anni ritrovata in una fabbrica abbandonata nelle periferia di Jonesboro. È la quarta, forse la quinta che muore. Wanda si morde il labbro, un gesto che ripete spesso ultimamene, e fissa pensierosa il giornale. Dov'é Mary? È ancora a letto. Uscirà anche oggi? È probabile. È il caso lasciarla uscire in questi giorni con un serial killer a due passi da qui? Assolutamente no. Wanda sa che deve fare un discorsetto con lei. Magari più complicato del discorsetto di quei momenti in cui le ragazze cominciano ad avere i loro "periodi rossi". Alla faccia di Picasso e il periodo rosa. Basta con le uscite solitarie, avrebbe detto Wanda alla propria figlia, esci solo se sei in compagnia. E Mary farà sì con la testa. E lei si sentirà più tranquilla. Fino a quando non dovrà piangere sulla sua bara.

Ma lasciamo la nostra cara signora Ørberg sola soletta ai suoi dubbi esistenziali. E procediamo. È mattina, ma questo l'abbiamo visto tutti. È aprile, forse; le altalene cigola ancora (nessuno ha ancora mosso le sue belle chiappe per andare ad ingrassarne la catena), gli uccelli cantano ancora (nessuno si è alzato da quel fottuto divano a dirgli che non è il caso di cantare proprio oggi). Oggi l'intero paese se ne sta in lutto: persiane serrate, bocche serrate, nessuno chiave sotto lo zerbino, nessun pallone che rimbalza fastidiosamente per la via. E campane che suonano. E uccelli che cantano. A quanto pare, il nostro assassino aveva voglia di una domenica... tranquilla.

Torno indietro e dalla finestra vedo Wanda Ørberg intenta ad allacciarsi le scarpe da ginnastica. Tra un quarto d'ora sarà per le strade di Jonesboro a fare jogging; l'unica persona ancora viva in queste vie morte e sepolte. Risalirà la Greenberg Street di cosa e tornerà tra un'ora e quarantatré minuti esatti. Si farà una doccia veloce prima che suo marito si svegli e poi tornerà a fissare con aria assorta la prima pagina del giornale di oggi.

In qualche modo, Jonesboro si sta avviando verso sfascio completo. Tipo la palpebra cascante del vecchio Ronald. Nessuno sa chi era, prima. Si sa solo che vive un po' di qua e un po' di là ed è perennemente ubriaco marcio. E ha una palpebra cascante, ma questo l'avevate capito.

Adesso ed in questo momento che non è più il momento in cui ho scritto “in questo momento”. È sera. Anzi: notte. Forse l’una, forse le due. Mi trovo alla “strada dei tubi” e mi rigiro tra le dita la mia bottiglia di vino mezza vuota. Questa strada l’hanno chiamata così gli abitanti di Jonesboro perché tempo fa qui ci abitavano solo gli idraulici. Personalmente io di queste di idraulici non ci capisco un tubo. Adam Heinlein, con la sua vestaglia inguardabile color porpora, si sporge dal davanzale per una fumatina notturna. Sua moglie dorme. I suoi figli dormono. Si potrebbe dire che la faccenda del serial killer abbia scosso anche Adam, basta vedere le sue occhiaie che farebbero invidia pure ai vampiri. Se esistessero. E tutto ciò è un altro segno di decadenza che non sia la palpebra del vecchio Ronald.

Adesso ed in questo momento che non è il momento del momento di prima. Percorriamo la Rosen Avenue e ci dirigiamo verso est, attraverso i campi giallo piscio e le colline verde vomito; tutto ha un sapore sgradevole, come i postumi della sbornia dopo una nottata di fuoco. Notizie del giorno: Rebecca Sperling ha lasciato suo marito. Non siamo ancora morti. Nessuno è ancora morto. Ci stiamo dirigendo verso un paesetto chiamato… sì, insomma, vicino a Jonesboro. Da qualche parte là. Dopo i campi si intravedono i primi accenni di una società urbanizzata in cui la vita non si ridce a spalare merda e mungere vacche tutto il giorno. Secondo la radio, che gracchia inutilmente ma non se la fila minimamente nessuno, questa sarà una giornata “meravigliosamente ed irresistibilmente splendida”. Perfetta per farsi un giro in un buco di culo vicino ad un altrettanto buco di bulo a non fare assolutamente nulla. Personalmente avrei preferito alzarmi alle due del pomeriggio, farmi un caffè talmente forte da poterci risvegliare i morti (incluso Adam Heinlein), leggere il giornale e constatare che il nostro assassino ha ucciso qualcuno che non sono io. La mia voglia di fare colazione (insieme a quella di fermarci e non fare assolutamente nulla che non sia fare nulla) ci spinge a fermarci in un piccolo pub sul ciglio della strada. Aprendo la porta, la prima cosa che si sente è l’odore di marcio. L’odore di decadenza. Ben Mawson, il proprietario, russa sonoramente sul bancone. Sembrerebbe quasi un angelo che dorme, se non fosse per il fatto che assomiglia di più ad un elefante sedato. Che russa. Rimaniamo lì per un po’ fissando la carta da parati scollata e la quantità di mosche che ronza nel locale. Ai primi segni di risveglio da parte del signor Mawson (se i suoi grugniti da maiale si possono considerare tale) ci giriamo a guardarlo e ordiniamo un caffè. Anzi, due. Tre. Insomma, parecchi. Ce ne voglio tanti, per svegliarsi. Altrimenti è come fare la doccia nel lavandino. Mentre Ben si accascia su una sedia con la grazia di un tricheco, posso constatare che l’unico cliente fisso qui è il proprietario stesso, che fa uso spropositato degli alcolici del locale. E mi sorprenderei, se trovassi qualche anima qui dentro, visto che all’apparenza qua tutto ciò che esce dalla cucina sembra scaduto, bruciacchiato o ha la lebbra.

Davanti ad una tazza di caffè (per quanto annacquato possa essere) tutto sembra già più discutibile: i calzini orrendi di Ben Mawson, le sigarette scadenti di Adam Heinlein, le cannucce fluorescenti del pub mezze mangiucchiate dai topi, il vino pessimo che vendono a Jonesboro, la colossale sbornia della sottoscritta. Proprio tutto. Mawson però non sembra in grado di fornisci molte informazioni riguardo l’assassino di Jonesboro. Anzi: non sembra in grado nemmeno di farci capire se respira ancora. Per evitare di ritrovarci un uomo morto senza l’aiuto del nostro simpatico serial killer che amiamo tanto, usciamo dal pub. Giusto per non dover avere un morto sulla coscienza. Sulla strada di ritorno, tra i campi che ora non sembrano di un colore così osceno, vediamo un qualcosa di insolitamente informe e grigio. Se non altro non è quell’elefante di Bene Mawson. Ci avviciniamo e possiamo così constatare che non è certamente un elefante né una balenottera spiaggiata, ma bensì una fabbrica ormai distrutta. Un altro esempio di decadenza. Tra i tanti che ci sono. Nell’aria c’è un odore strano. Tipo carne andata a male, ma non come il pub di Ben. Ancora peggio. C’è una sedia. Qualcuno è seduto sulla sedia. Qualcuno è seduto sulla sedia in mezzo alla fabbrica per metà distrutta. Qualcuno è seduto sulla sedia in mezzo alla fabbrica per metà distrutta e non dà segno di averci sentito o visto. Quel qualcuno è Mary Ørberg. Mary ha tra i capelli un cerchietto rosso con un fiore appicciato nel mezzo che le si affloscia sulla fronte. Mary indossa un vestito rosa caramella, le mani in grembo e i capelli pettinati per bene. Gli occhi spalancati, le labbra bluastre, il colorito grigiastro. Il trucco che le è stato applicato non mostra nulla di tutto ciò che una persona si aspetterebbe da un morto. Mary Ørberg è diventata una graziosa bambola.
Sebbene non sia l’occasione più adatta per dirlo, il mio cuore ha perso un battito da tanta bellezza.  Mi ricorda tanto le bambole con cui giocavo tutti i pomeriggi quando ero piccola. Questa è la reincarnazione della perfezione. Non oso chiudere gli occhi per non perdermi nemmeno un secondo di questa inspiegabile meraviglia. E se gli dei sono solamente esseri umani dotati del dono dell'immortalità... allora Mary è una dea. Mortalmente immortale. Il che è un controsenso, ma non importa.

Adesso ed in questo momento che, indovinate un po’: non è lo stesso momento di prima. Ho visto Wanda Ørberg mettersi le mani tra i capelli e strapparseli mente dai suoi occhi colava acqua. E tirare su col naso come se si fosse beccata un raffreddore coi controcazzi. Ho sentito gli uccelli cantare. Nessuno gli ha ancora detto che Mary Ørberg è morta? Che non è il momento per cantare? Ho visto la gente sospirare di sollievo: non è loro figlio, quello morto. Non è la loro figlia, quella morta. Jonesboro è l’esempio della decadenza. Del: "Meglio a loro che a me". Del: "Bruciate tutti all'inferno. Ma tenetemi il posto vicino alla finestra".

Adesso: Gli uccelli cantano. Le persone piangono. In questo momento: sto cercando di lavare i miei vestiti. Il sangue non si toglie mica così facilmente.
  
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