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Autore: Alina Alboran    07/11/2013    0 recensioni
Una donna, un figlio, un innamorato.
Una notte, un incubo, un’illusione.
∞∞∞
Lui, quella sera stessa, le aveva chiesto di sposarla.
Lei aveva portato la figlia al parco giochi, per festeggiare il primo giorno di scuola della bambina.
Lei aveva deciso di uscire con le amiche, divertirsi e non pensare a lui che, tradendola, l’aveva ferita.
Lui voleva confidare alla madre che, tra poco meno di nove mesi, sarebbe diventato padre.
Lei, che ormai non poteva contare più sull’appoggio di lui, si chiedeva come avrebbe fatto senza i loro battibecchi quotidiani.
∞∞∞
Lui e lei.
Lei e lui.
∞∞∞
Avevano dei sogni, sogni che, per l’errore di una notte si sono dispersi con un unico sussurro.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Come un uragano

Morte.
Dolore.

Quante volte aveva sentito quelle parole al telegiornale? Quante volte le aveva ignorate? Mai, mai avrebbe pensato che questo destino sarebbe toccato anche a lei. Vedere morire le persone che ami, vederle massacrate, piene di sangue, distese sul nero dell’asfalto era troppo. Non poteva sopportarlo: era suo figlio quello.
La polizia, arrivata da poco, stava cacciando tutti dalla scena del crimine.
Lei però non se ne preoccupò. Che la cacciassero pure, non avrebbe abbandonato suo figlio per nessuna ragione al mondo.
Inginocchiata per terra, con il suo corpo in grembo, Celeste pregava Dio affinché desse un’altra possibilità al suo bambino.
Era così giovane, così pieno di vita…
Il volto della donna, deformato per il dolore, si contorse ancora di più quando vide le proprie mani impregnate del sangue del figlio.

Pianti.
Urla.
Lamentele.

Intorno a lei la distruzione.
Dentro di lei la devastazione.

«Amore mio».
Gli occhi scuri del ragazzo sembravano fissarla e accusarla per non averlo saputo proteggere.
«Scusa».
Ma le scuse non bastavano più.
«Signora,» disse un vigile, «dobbiamo prelevare il corpo».
Annuì, mentre si passava le mani sporche di sangue sul volto.
In quel momento, quando vide suo figlio ormai privo di sensi su una barella, sentì che la vita non valeva più la pena di essere vissuta.
«Venga,» disse lo stesso vigile di prima, «la accompagneremo all’ospedale».
Celeste non voleva andarsene.
Sentiva che se sarebbe rimasta lì, a pregare, a supplicare che suo figlio tornasse in vita, Dio le avrebbe concesso questo miracolo.
Quindi, seppur con timore, scosse la testa in segno di diniego.
«No, io resto qui».

Un ragazzo, poco distante da lei, stava vivendo la sua stessa situazione.
«No…».
Stava rannicchiato per terra, le gambe raccolte al petto e la testa poggiata su di esse.
Piangeva.
A meno di un metro da lui, una ragazza giaceva morente sull’asfalto freddo.
«Ti amo», riuscì a dirgli prima che anche lei venisse caricata nell’ambulanza.
Poche ferite, la maggior parte superficiali, ricoprivano il corpo del ragazzo.
«Vieni, ti porto a farti medicare». Già da diversi minuti un paramedico provava a convincerlo ad alzarsi, ma ogni suo sforzo era vano.

«Mamma».
Una bambina, graziosa ma imbruttita dall’orrore di quella notte, girovagava tra i corpi feriti alla ricerca della madre.

Lacrime.
Ferite.
Paura.
Sangue.

Celeste osservava tutto impassibile, troppo crucciata per pensare al dolore e alla sventura altrui.
Un gruppo di persone, non più di dieci, si era fermato ad assistere a quella sofferenza.
Tra di loro c’era una ragazza di sedici, forse diciassette anni che invano cercava di farsi spazio e raggiungere quello che aveva riconosciuto essere suo fratello
«La prego,» disse ad un agente, «mio fratello è là».
Lacrime di terrore sgorgarono dai suoi grandi e innocenti occhi, troppo giovani per affrontare una tale sofferenza.
«Se pensi di aver visto tuo fratello, chiama i tuoi genitori per l’identificazione», suggerì una donna venuta in aiuto dell’agente che ormai non sapeva più calmare la ragazzina.
Assentì con il capo e si allontanò per chiamare il padre.

«Mamma!». La bambina urlò non appena intravide la madre, seduta sul marciapiede e con solo una coperta a proteggerla dal freddo.
Sentì la voce della figlia, ma non la vide.
Il suo cuore aumentò i battiti e quando si alzò in piedi, un piccolo uragano le abbracciò con forza le gambe.
«Mamma».
Si abbassò lentamente – una ferita le impediva anche i movimenti più basilari – e prese la piccola in braccio, abbracciandola stretta e baciandole ripetutamente la fronte, le guance, le labbra, gli occhi, il nasino.

Amore.
Sollievo.
Conforto.
Gioia.
Disperazione.

Lontano da tutti, isolato il più possibile, c’era il responsabile, il colpevole, il criminale.
Una ragazza.
Minuta.
Ubriaca.
Drogata.
Illesa.
La madre piangeva e le sussurrava parole di conforto: era sua figlia quella.
«I paramedici ritengono che le tue ferite non sono gravi», disse un uomo sulla mezza età, probabilmente il maresciallo.
La ragazza non lo guardò nemmeno un secondo.
Rideva, inconsapevole delle vite che aveva distrutto.
«Dovrai accompagnarmi al commissariato».

Celeste la vide, accompagnata da un uomo in divisa, che entrava nella macchina della polizia.
Desiderò che quella ragazzina morisse, che prendesse il posto di suo figlio.
Quasi si spaventò dei suoi stessi pensieri, ma ciò non le vietò di sputare sangue laddove quella ragazza aveva toccato l’asfalto.
Celeste era sporca di sangue misto a lacrime, di disgusto misto a compassione.

Fabio era ancora lì, accovacciato sull’asfalto che piangeva lacrime di disperazione.
Nessuno ebbe il coraggio di dirgli qualcosa, nessuno ebbe la forza di parlargli.
In mano stava stringendo un anello. Era d’oro bianco, semplice, così come piaceva a lei.
Dentro, un’iscrizione che rammentava una storia: “Save me”.
Avevano già sconfitto la morte una volta, farlo anche una seconda volta sarebbe stato impossibile.
Nonostante ciò decise di alzarsi e di lottare.
Decise di amare e di sperare.
Decise che valeva la pena credere fino alla fine.

Speranza.
Morte.
Inizio.
Fine.

   
 
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