LE LACRIME DEL CIELO
“… E quindi, è questo. Voglio restare da sola, sto bene così. Non
so se capisci…”
Le parole le arrivarono con un suono ovattato, come se
provenissero da un altro luogo da cui lei era distante miglia e miglia. Le
arrivarono come se non fosse realmente lei ad ascoltare. Si sentiva un semplice
spettatore, una persona esterna e indifferente alla scena che si stava
svolgendo in quel momento sotto il portico di marmo scrostato della casa di una
delle due ragazze sedute sugli scalini. Perfino la sensazione di freddo
opprimente che penetrava le sue ossa e si insinuava beffarda fra i suoi vestiti
le scivolava via, come un abito troppo grande per le sue forme sottili.
Era una spettatrice.
O almeno così voleva continuare a convincersi. Fino a quando non
sarebbe rimasta sola con se stessa.
Per questo motivo continuò a fissare imperterrita un punto
indefinibile davanti a sé, nonostante i numerosi richiami e scossoni dell’altra
ragazza. Della ragazza che, fino a qualche minuto fa, aveva considerato il suo
frammento di sé disperso, la parte mancante che formava un intero, un umano
completo. Di colei a cui – sebbene un gemito di dolore risalisse dai meandri
più profondi del suo animo al solo ricordo – aveva comunque donato il suo
cuore.
“Scusa, Fabrizia, ora devo andare a casa” disse la
ragazza-spettatrice in un sussurro appena udibile, schiarendosi la voce che
uscì dalla sua gola inaridita con un suono metallico.
“Di già? Non è un po’ presto?”
“Non ho più nulla da fare qui”.
Con questa risposta secca, si alzò di scatto in piedi, sentendo un
lieve giramento di testa dovuto alla troppa fretta, e ritornò dentro la casa di
Fabrizia. Storse il naso quando la investì il prepotente e ormai conosciuto
profumo della sua amata, come se la forte influenza che aveva esercitato su di
lei non volesse abbandonarla del tutto, ma seguirla lungo il tragitto fino a
casa sua, depositandosi poi con crudele caparbietà sui suoi vestiti, sulla sua
pelle.
Scosse la testa, come a scacciare qualcosa di fastidioso, e prese
velocemente il suo zaino di scuola di uno scialbo e spento blu, che aveva
conosciuto sicuramente tempi migliori in una sua qualche vita passata, e l’ombrello:
era infatti appena uscita da scuola, quando la figura scura e seria di Fabrizia
le apparve davanti, provocandole nuovamente gli ormai conosciuti brividi di
eccitazione alla sua visione, che considerava quasi idilliaca e illuminante in
una giornata grigia come quella che aveva appena passato.
E che purtroppo per lei non era ancora finita.
“Vieni, dobbiamo parlare”, le aveva detto abbassando
velocemente i due pozzi neri dietro la montatura degli occhiali del medesimo
colore.
E infatti avevano parlato. Perlopiù, era stata lei a parlare per
entrambe.
Il concetto, tuttavia, era chiaro: non provo più i tuoi stessi
sentimenti, mi dispiace.
Mi dispiace, ha detto…
Strano, eppure non sento niente
nel mio cuore. Mi sento solo… Spenta. E vuota.
Si morse l’interno delle guance per assicurarsi di possedere la
sensibilità del dolore, e l’unica cosa che sentì fu il sapore metallico del
sangue che le inondò la bocca.
Sentì poi nell’altra stanza Fabrizia che parlava e rideva con sua
madre, come in un giorno qualunque, come se nulla di quello che era appena
avvenuto fuori da quella casa fosse accaduto.
Ma non è un giorno qualunque.
Sentì gli attori pagati di “Forum” discutere acremente alla
televisione.
Sentì il guaito del cane al piano di sotto.
Sentì perfino il rombo lontano di un tuono.
Sentì tutto, perfino le lancette dell’orologio che ticchettavano,
ad eccezione però dei battiti del suo cuore e del profondo senso di abbandono
che avrebbe dovuto investirla.
Dopo essersi infilata il giacchetto, cercò nei meandri dei suoi
ricordi un sorriso forzato e salutò meccanicamente la madre di Fabrizia, tranquillizzandola
che sarebbe tornata a casa prima che iniziasse a piovere.
Fabrizia invece arrivò poco dopo e le si parò davanti alla porta,
forse nel tentativo di estrarre una qualche emozione dal suo volto.
“Allora ciao, Sofia” le disse con un mezzo sorriso.
Perché mi sorridi?
Rivolgendole una rapida occhiata, Sofia, la ragazza-spettatrice,
mormorò un brusco “ciao” di rimando, uscì dalla casa e scese velocemente le
scale del portico, ritrovandosi di nuovo alla fredda aria aperta. Lanciò un
ultimo sguardo alla porta da cui era uscita, spinta da una qualche arcana
speranza.
La voce gioiosa di Fabrizia le arrivò alle orecchie come il suono
incrinato di un violino, ma nessuno si affacciò alla porta. Essa venne subito
chiusa seccamente, e per Sofia fu come se le avessero privato di fronte ai suoi
occhi sofferenti qualsiasi possibilità di rifugio e salvezza.
Il rombo del tuono si fece più vicino e, nel momento in cui mise
piede in strada, piccole gocce di pioggia iniziarono a cadere con un lento
ritmo. Sofia fece per aprire l’ombrello, ma, per un motivo oscuro perfino a lei,
interruppe l’azione e cominciò a camminare verso casa sua, incurante della
pioggia che aumentava a ogni passo di intensità.
Ben presto, il rumore scrosciante della pioggia superò quello
degli pneumatici delle macchine che scivolavano sull’asfalto e fu lì, immobile
sul ciglio della strada, che Sofia alzò la testa.
Una canzone risuonava come un giradischi rotto nella sua testa.
“Why can’t it, be perfect?
This love is not, even real
Why don’t I, cry for you?”
Il cielo sembrava piangere. I rombi dei tuoni, invece, le parvero
simili a singhiozzi strozzati.
Se perfino il cielo piange,
perché io non vi riesco?
Oramai era bagnata fradicia, ma non le importava.
Perfino il suono del clacson di una macchina che richiamava la sua
attenzione per farle attraversare la strada le parve lontano, così come lo era
stata la voce di Fabrizia.
Tutto, in quel momento, aveva smesso di esistere.
C’erano solo lei, la pioggia e la voce di una donna che cantava tristemente
nella sua mente, semplice eco destinato a spegnersi come la lieve e debole
fiammella del suo amore.
Sentì la vista annebbiarsi e un velo umido le coprì gli occhi
ancora alzati al cielo.
Il cielo piange per chi non ha
più lacrime da versare.
Chissà se poi smetterà di piovere…
Così Sofia iniziò a piangere, e le sue lacrime si mischiarono alle
lacrime del cielo, in uno strano connubio.
Pianse perché aveva freddo.
Pianse perché aveva donato il suo cuore, e ne aveva ricevuto solo
un simulacro di esso.
Pianse perché era di nuovo sola sulla strada della vita.
In quel momento, Sofia smise di essere la spettatrice di se
stessa.
E come a un segnale pattuito, smise anche di piovere, e gli unici
singhiozzi che si udirono nel silenzio della via furono quelli di Sofia.
“Love was dead, from the start”
“Sei la cosa migliore che mi sia
capitata finora”
“I don’t
want you”
“Anche se saremo lontane, qualora
tu abbia bisogno di me, io ti sarò vicina”
“I don’t
need you”
“Ti amo, e non c’è niente di più
vero”
“I’ll play along
Writing our song
We are perfect
I (don’t) love you”
SPAZIO DELL’AUTRICE:
L’ho scritta di getto in un giornata di pioggia scrosciante, come
avrete capito.
Forse in questa storia c’è molta più verità di quanto voglia far
credere…
La canzone che ho scelto è Lie di Luka Megurine.
Spero che vi sia piaciuta, è un piccolo esperimento dopo tanto
tempo.
A presto!
Violet