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Autore: Violet 95    07/11/2013    0 recensioni
"I'll play along
Writing our song
We are perfect
I (don't) love you"
Storia molto semplice, eppure molto personale.
Una separazione improvvisa e inspiegabile.
Un cielo carico di pioggia.
Una ragazza solitaria sul ciglio della strada della vita.
E le lacrime concesse da un cielo testimone di ogni dolore.
Genere: Malinconico, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LE LACRIME DEL CIELO

 

 

 

“… E quindi, è questo. Voglio restare da sola, sto bene così. Non so se capisci…”

 

Le parole le arrivarono con un suono ovattato, come se provenissero da un altro luogo da cui lei era distante miglia e miglia. Le arrivarono come se non fosse realmente lei ad ascoltare. Si sentiva un semplice spettatore, una persona esterna e indifferente alla scena che si stava svolgendo in quel momento sotto il portico di marmo scrostato della casa di una delle due ragazze sedute sugli scalini. Perfino la sensazione di freddo opprimente che penetrava le sue ossa e si insinuava beffarda fra i suoi vestiti le scivolava via, come un abito troppo grande per le sue forme sottili.

Era una spettatrice.

O almeno così voleva continuare a convincersi. Fino a quando non sarebbe rimasta sola con se stessa.

Per questo motivo continuò a fissare imperterrita un punto indefinibile davanti a sé, nonostante i numerosi richiami e scossoni dell’altra ragazza. Della ragazza che, fino a qualche minuto fa, aveva considerato il suo frammento di sé disperso, la parte mancante che formava un intero, un umano completo. Di colei a cui – sebbene un gemito di dolore risalisse dai meandri più profondi del suo animo al solo ricordo – aveva comunque donato il suo cuore.

 

“Scusa, Fabrizia, ora devo andare a casa” disse la ragazza-spettatrice in un sussurro appena udibile, schiarendosi la voce che uscì dalla sua gola inaridita con un suono metallico.

 

“Di già? Non è un po’ presto?”

 

“Non ho più nulla da fare qui”.

 

Con questa risposta secca, si alzò di scatto in piedi, sentendo un lieve giramento di testa dovuto alla troppa fretta, e ritornò dentro la casa di Fabrizia. Storse il naso quando la investì il prepotente e ormai conosciuto profumo della sua amata, come se la forte influenza che aveva esercitato su di lei non volesse abbandonarla del tutto, ma seguirla lungo il tragitto fino a casa sua, depositandosi poi con crudele caparbietà sui suoi vestiti, sulla sua pelle.

Scosse la testa, come a scacciare qualcosa di fastidioso, e prese velocemente il suo zaino di scuola di uno scialbo e spento blu, che aveva conosciuto sicuramente tempi migliori in una sua qualche vita passata, e l’ombrello: era infatti appena uscita da scuola, quando la figura scura e seria di Fabrizia le apparve davanti, provocandole nuovamente gli ormai conosciuti brividi di eccitazione alla sua visione, che considerava quasi idilliaca e illuminante in una giornata grigia come quella che aveva appena passato.

E che purtroppo per lei non era ancora finita.

“Vieni, dobbiamo parlare”, le aveva detto abbassando velocemente i due pozzi neri dietro la montatura degli occhiali del medesimo colore.

E infatti avevano parlato. Perlopiù, era stata lei a parlare per entrambe.

Il concetto, tuttavia, era chiaro: non provo più i tuoi stessi sentimenti, mi dispiace.

 

Mi dispiace, ha detto…

Strano, eppure non sento niente nel mio cuore. Mi sento solo… Spenta. E vuota.

 

Si morse l’interno delle guance per assicurarsi di possedere la sensibilità del dolore, e l’unica cosa che sentì fu il sapore metallico del sangue che le inondò la bocca.

Sentì poi nell’altra stanza Fabrizia che parlava e rideva con sua madre, come in un giorno qualunque, come se nulla di quello che era appena avvenuto fuori da quella casa fosse accaduto.

 

Ma non è un giorno qualunque.

 

Sentì gli attori pagati di “Forum” discutere acremente alla televisione.

Sentì il guaito del cane al piano di sotto.

Sentì perfino il rombo lontano di un tuono.

Sentì tutto, perfino le lancette dell’orologio che ticchettavano, ad eccezione però dei battiti del suo cuore e del profondo senso di abbandono che avrebbe dovuto investirla.

Dopo essersi infilata il giacchetto, cercò nei meandri dei suoi ricordi un sorriso forzato e salutò meccanicamente la madre di Fabrizia, tranquillizzandola che sarebbe tornata a casa prima che iniziasse a piovere.

Fabrizia invece arrivò poco dopo e le si parò davanti alla porta, forse nel tentativo di estrarre una qualche emozione dal suo volto.

 

“Allora ciao, Sofia” le disse con un mezzo sorriso.

 

Perché mi sorridi?

 

Rivolgendole una rapida occhiata, Sofia, la ragazza-spettatrice, mormorò un brusco “ciao” di rimando, uscì dalla casa e scese velocemente le scale del portico, ritrovandosi di nuovo alla fredda aria aperta. Lanciò un ultimo sguardo alla porta da cui era uscita, spinta da una qualche arcana speranza.

La voce gioiosa di Fabrizia le arrivò alle orecchie come il suono incrinato di un violino, ma nessuno si affacciò alla porta. Essa venne subito chiusa seccamente, e per Sofia fu come se le avessero privato di fronte ai suoi occhi sofferenti qualsiasi possibilità di rifugio e salvezza.

Il rombo del tuono si fece più vicino e, nel momento in cui mise piede in strada, piccole gocce di pioggia iniziarono a cadere con un lento ritmo. Sofia fece per aprire l’ombrello, ma, per un motivo oscuro perfino a lei, interruppe l’azione e cominciò a camminare verso casa sua, incurante della pioggia che aumentava a ogni passo di intensità.

Ben presto, il rumore scrosciante della pioggia superò quello degli pneumatici delle macchine che scivolavano sull’asfalto e fu lì, immobile sul ciglio della strada, che Sofia alzò la testa.

Una canzone risuonava come un giradischi rotto nella sua testa.

 

“Why can’t it, be perfect?

This love is not, even real

Why don’t I, cry for you?”

 

Il cielo sembrava piangere. I rombi dei tuoni, invece, le parvero simili a singhiozzi strozzati.

 

Se perfino il cielo piange, perché io non vi riesco?

 

Oramai era bagnata fradicia, ma non le importava.

Perfino il suono del clacson di una macchina che richiamava la sua attenzione per farle attraversare la strada le parve lontano, così come lo era stata la voce di Fabrizia.

Tutto, in quel momento, aveva smesso di esistere.

C’erano solo lei, la pioggia e la voce di una donna che cantava tristemente nella sua mente, semplice eco destinato a spegnersi come la lieve e debole fiammella del suo amore.

Sentì la vista annebbiarsi e un velo umido le coprì gli occhi ancora alzati al cielo.

 

Il cielo piange per chi non ha più lacrime da versare.

Chissà se poi smetterà di piovere…

 

Così Sofia iniziò a piangere, e le sue lacrime si mischiarono alle lacrime del cielo, in uno strano connubio.

Pianse perché aveva freddo.

Pianse perché aveva donato il suo cuore, e ne aveva ricevuto solo un simulacro di esso.

Pianse perché era di nuovo sola sulla strada della vita.

In quel momento, Sofia smise di essere la spettatrice di se stessa.

E come a un segnale pattuito, smise anche di piovere, e gli unici singhiozzi che si udirono nel silenzio della via furono quelli di Sofia.

 

“Love was dead, from the start”

 

“Sei la cosa migliore che mi sia capitata finora”

 

“I don’t want you

 

“Anche se saremo lontane, qualora tu abbia bisogno di me, io ti sarò vicina”

 

“I don’t need you

 

“Ti amo, e non c’è niente di più vero”

 

“I’ll play along

Writing our song

We are perfect

I (don’t) love you”

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

L’ho scritta di getto in un giornata di pioggia scrosciante, come avrete capito.

Forse in questa storia c’è molta più verità di quanto voglia far credere…

La canzone che ho scelto è Lie di Luka Megurine.

Spero che vi sia piaciuta, è un piccolo esperimento dopo tanto tempo.

A presto!

Violet

 

  
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