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Autore: Son Of a Bitch    09/11/2013    2 recensioni
Era arrivata alla conclusione del caso, sapeva dove cercare il djinn con cui aveva avuto a che fare in quei giorni e sapeva anche come ucciderlo. Aveva addirittura avuto il piacere di scontrarcisi una volta. Scappare in quel caso era stata solo la mossa più giusta da fare. Senza contare però il fatto che avesse perso l'unica arma efficace contro quei cosi durante la fuga.
Sconfitta quindi dagli eventi, si vide costretta a chiamare i rinforzi, suo malgrado. E su chi poteva mai ricadere quest'ardua scelta?
«Ehi Dean, sono io, Gwen, la tua adorata spina nel fianco. Senti un po', non è che ti trovi, per puro caso, dalle parti di Owensboro, vero? Sarebbe una bella coincidenza perchè mi servirebbe una mano. Anzi, in realtà mi servirebbe solo un pugnale d'argento inzuppato nel sangue d'agnello ma, visto che ti conosco, so che con te o prendo tutto il pacchetto o non se ne fa niente. Credo di avere un mostro blu alle calcagna e mi servirebbe davvero quel dannato pugnale quindi fammi sapere, ok? Alloggio al motel nella Triplett St. Stanza 24. Datti una mossa e vieni a darmi una mano (...)
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessuna stagione
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Una ragazza che fissava l'interno di un armadio: detta così poteva sembrare l'inizio di un qualche filmetto sulla mania dello shopping o un documentario sulla vita di Paris Hilton ma no, nel caso di Gwen era ben altro. Articoli di giornale collegati tra loro e foto di persone scomparse riempivano il fondo quel mobile, adattandolo ad un nuovo utilizzo. Era arrivata alla conclusione del caso, sapeva dove cercare il djinn con cui aveva avuto a che fare in quei giorni e sapeva anche come ucciderlo. Aveva addirittura avuto il piacere di scontrarcisi una volta. Scappare in quel caso era stata solo la mossa più giusta da fare. Senza contare però il fatto che avesse perso l'unica arma efficace contro quei cosi durante la fuga.
Sconfitta quindi dagli eventi, si vide costretta a chiamare i rinforzi, suo malgrado. E su chi poteva mai ricadere quest'ardua scelta?

«Ehi Dean, sono io, Gwen, la tua adorata spina nel fianco. Senti un po', non è che ti trovi, per puro caso, dalle parti di Owensboro, vero? Sarebbe una bella coincidenza perchè mi servirebbe una mano. Anzi, in realtà mi servirebbe solo un pugnale d'argento inzuppato nel sangue d'agnello ma, visto che ti conosco, so che con te o prendo tutto il pacchetto o non se ne fa niente. Credo di avere un mostro blu alle calcagna e mi servirebbe davvero quel dannato pugnale quindi fammi sapere, ok? Alloggio al motel nella Triplett St. Stanza 24. Datti una mossa e vieni a darmi una mano. E ti prego, cambia il messaggio della segreteria, sembri un morto vivente.»
Semi-risolta la questione dell'arma però non poteva starsene con le mani in mano ma non poteva nemmeno tornare al covo, non quando non aveva nulla con cui coprirsi le spalle. Che dannata situazione di merda.
Sbuffò sonoramente, ripose il cellulare in tasca e richiuse l'anta dell'armadio, incapace di poter stare ferma a fissare un mucchio di fogli che, ora come ora, non le servivano a un bel niente.
«Sarà meglio ispezionare la zona senza avvicinarmi troppo.» 
Pessima idea. Certo, questo lei non poteva saperlo ma la sua strada era lastricata di buone intenzioni.
Armata fino ai denti quindi arrivò lungo il confine segnato sulla sua mappa. Ispezionava il perimetro minimo che circondava il covo di quel bastardo dai tatuaggi fosforescenti e teneva aguzzato l'udito, sempre e comunque. Ma si sapeva che i djinn fossero dei grandissimi bastardi dalle capacità illusorie inimmaginabili.
Gwen si accorse troppo tardi che quel silenzio, per essere di un bosco così grande come quello in cui si trovava lei, era fin troppo innaturale. Prima di fare retro-front e tornarsene indietro a grandi passi, qualcosa le afferrò la spalla. Un grande calore le risalì tutto il collo, fino ad arrivare ai suoi occhi ormai rovesciati a mostrare l'iride bianca.

«Signorina Breakbones, qualcosa nel processo non la convince?» Le risuonò come un lontano eco una voce che non aveva mai ascoltato prima. «Signorina Breakbones, si sente bene?» Insisteva la voce con un tono preoccupato quanto referenziale. 
Le pupille dei suoi occhi chiari si restrinsero in un nano secondo, come se fosse appena uscita da chissà quale tunnel mentale. Aveva dei fogli tra le mani ma non sapeva come ci fossero finiti lì. Aveva addosso un completo elegante ma sapeva di non averlo mai comprato (o rubato,meglio ancora). Si trovava in un ufficio e qualche pinguino in giacca e cravatta conosceva il suo vero cognome.
«N-non... ne sono sicura» balbettò incerta allontanando la sedia dal tavolo e mollando sulla gigantesca scrivania in vetro tutte le scartoffie che le avevano tinto di nero i polpastrelli. «Vado un attimo...» e scomparve dietro la porta, senza nemmeno finire la frase. Si perquisì tutte le tasche fino a trovare il cellulare e, come al solito, aprì il registro delle chiamate dove il nome di Dean padroneggiava ripetitivamente. Quando premette il tasto verde, una segreteria decisamente più allegra rispetto all'ultima che aveva avuto occasione di ascoltare le risuonò nell'orecchio.
«Ahm... Dean? Vedo che hai seguito il mio consiglio riguardo la segreteria, il che è un bene, ma... lo so, ok? So che ti sto rompendo un po' troppo le scatole ultimamente ma credimi, ho DAVVERO bisogno che tu venga a prendermi ADESSO. Credo di essere... a lavoro.»

 Dean era seduto davanti al bancone di un bar. Indossava il classico elegante completo nero, e giocherellava con un bicchiere di vetro colmo fino all'orlo di un liquido color oro intenso. Accanto a lui, una ragazza che aveva conosciuto relativamente dapochissimo tempo, lo osservava con un sorriso ebete stampato sulla faccia, ammaliata dal suo fascino. 
« E così lavori per l'FBI... » disse dopo aver vuotato il proprio bicchiere. « Deve essere frustrante ». 
« Lo è » confermò Dean, annuendo. « Ma è quello che faccio e... be', mi piace il mio lavoro ». 
« Si vede. Hai un'aria così autoritaria! » osservò la donna, lasciandosi versare dal barman un altro po' di whisky nel bicchiere. « Devi essere molto bravo ». 
« Sono bravo in molte altre cose » le confessò, voltandosi a guardarla con uno sguardo penetrante. Si fissarono per molto tempo, interminabili secondi. Poi Valery, così aveva detto di chiamarsi, si mordicchiò il labbro e fece un altro sorso dal suo drink. Si schiarì la gola e, lentamente, avvicinò le labbra all'orecchio di Dean. 
« Che ne dici di mostrarmi in cos'altro sei bravo in un altro posto? Per esempio... la mia camera da letto » sussurrò con voce calda e maliziosa. 
« Mi piacerebbe molto » mormorò, arretrando la testa di qualche centimetro, la distanza giusta per poterla guardare negli occhi neri. Era davvero una bellissima donna, l'aveva notata da subito, non appena varcò la soglia di quel locale: Se ne stava seduta ad un tavolo infondo in compagnia di amiche, colleghe di lavoro. Valery Williams era una pediatra e stava festeggiando l'apertura della sua clinica. Dean la osservò per molto tempo, affascinato da quei lineamenti raffinati: quel corpo perfetto sul quale aveva fantasticato senza un minimo di pudore; quel vestito attillato che lasciava benissimo intravedere la schiena fino appena sopra l'osso sacro; quegli occhi neri da cerbiatta, lo sguardo furbo e provocante; quella bocca perfetta che l'aveva portato a pensare alle più perverse fantasie... 
« Casa dolce casa » annunciò Valery, spalancando la porta di un modesto appartamento dove l'ordine sembrava regnare sovrano. Dean si guardò distrattamente attorno e annuì, gli angoli delle labbra piegati verso il basso. 
« È carina, molto accogliente » commentò. 
Valery ridacchiò, gli si avvicinò, ondeggiando sui tacchi alti, e gli si fermò a pochi centimetri di distanza. Gli circondò il collo con le braccia e lo baciò. Dean ovviamente ricambiò senza pensarci due volte. Sfilò le mani dalle tasche e le accarezzò la schiena, intensificando quel contatto fisico ancora di più. D'un tratto il suo cellulare cominciò a squillare e i due si separarono quasi immediatamente. Dean sospirò e tirò fuori l'aggeggio dalla tasca interna della giacca: sul display il nome ''Sam'' lampeggiava velocemente. 
« Devi rispondere? » domandò Valery speranzosa. 
Dean le lanciò uno sguardo, poi spense il cellulare e lasciò partire la segreteria, « no » rispose con un sorriso sghembo, al quale Valery non riuscì a resistere nemmeno un secondo in più. 

« Winchester! » esordì una voce alle sue spalle, una voce che conosceva benissimo e da molto tempo. Dean aggrottò la fronte, abbandonò i suoi attrezzi sul pavimento e si spinse col carrello fino a sbucare fuori da sotto l'auto che stava aggiustando. 
« Bobby! » esclamò euforico, ed entrambi sorrisero felici di rivedersi. Il vecchio lo aiuto ad alzarsi, lo strinse in un abbraccio affettuoso e gli diede una pacca sulla spalla ricca di fierezza. 
« Sono contento di vederti, ragazzo » confessò l'uomo, sistemandosi il berretto sulla testa. « Guardati! Sei identico a tua madre, la copia esatta di Mary ». 
Dean sorrise, annuendo alle parole di Bobby, « grazie » disse. « Allora, come te la passi? Ho saputo che hai restaurato la tua vecchia officina » aggiunse, pulendosi le mani sporche sulla tuta da meccanico che indossava, anch'essa sporca di grasso e polvere. 
« Be', sì. Devo dire che quel lavoro ha dato i suoi frutti. Sam come sta? » 
« Oh, lui... lui sta bene. Si sposerà con Jessica tra qualche mese» rispose Dean, facendo un sorriso. 
« Ho saputo. Vorrà dire John avrà un nipotino da viziare tra qualche anno » ridacchiò Bobby. « A proposito, come sta? » 
« Sta bene. Perché non... sì, insomma, perché non vai da lui e cerchi di chiarire la situazione? Sì, è vero, papà ha i suoi momenti d'ira, però-» 
« Dean » lo interruppe il vecchio. « Sono qui per questo, ragazzo. Sono stanco di dover stare lontano dalle persone che amo ». 
Si guardarono per un lungo istante, poi entrambi sorrisero. Il telefono di Dean prese a squillare improvvisamente: il nome ''Gwen'' lampeggiava minaccioso sullo schermo. Per un momento il ragazzo immaginò la faccia di quest'ultima urlargli di rispondere urgentemente alla telefonata. A stento trattenne una risata, ma lasciò comunque partire la segreteria. 
« È lei? » chiese Bobby allegro. 
Dean annuì, « mi farà diventare matto », disse, ridacchiando poi insieme a Bobby. 
« Be', sarà meglio che vada. Ti lascio lavorare, figliolo ». 
Quando Dean finì di aggiustare l'auto, qualche minuto più tardi, ascoltò il messaggio di Gwen nella segreteria. Dal suo tono di voce capì che c'era qualcosa che non andava, così non ci pensò due volte: si mise a bordo della sua vecchia e scassata Impala e raggiunse lo studio legale dove lavorava la ragazza. L'avrebbe ammazzato per aver varcato la soglia dell'edificio vestito in quel modo, ma, come lei sapeva benissimo, Dean era solito agire secondo la propria testa. Prese l'ascensore insieme ad un gruppo di signori in giacca e cravatta con tanto di ventiquattrore in una mano; cercò di evitare il loro sguardo ostinato e disgustato, anche se si sentiva comunque a disagio. Quando raggiunse il tredicesimo piano -finalmente- si ritrovò nel lungo corridoio affiancato da enormi e lucide finestre trasparenti. 
« Gwen! » esclamò dopo averla adocchiata. Le si avvicinò a passo svelto, accigliato e preoccupato. « Ho appena ascoltato il tuo messaggio. Che succede? Non ti senti bene? »

Tutto le sembrava troppo... troppo. Il cielo troppo azzurro, il corridoio troppo lungo e con troppe vetrate, il pavimento troppo lucido, i dipendenti troppo allegri, il vestito troppo stirato, le scarpe troppo eleganti, le unghie e i capelli troppo curati, addirittura anche l'aria le sembrava troppo pulita. E quel "troppo" le stava facendo venire un'ansia non indifferente. 
Misurava il corridoio a grandi passi, grandi relativamente parlando visto che ai piedi aveva un tacco 12 che avrebbe fatto venire le vertigini ad un equilibrista. Grazie a Dio aver avuto a che fare con quel locale burlesque le aveva donato delle caviglie di ferro. Il suo sguardo era perso nel suo stesso riflesso nella vetrata, impeccabile come non lo era mai stato, neanche quando aveva finto di essere l'agente di chissà quale importante cooperativa nazionale.
Quando il suo nome riecheggiò -fin troppo violentemente, anche in questo caso- lungo le pareti bianche di quello che sembrava uno studio legale o giù di lì, distolse lo sguardo.
«Oh Dio, grazie!» Mormorò alzando gli occhi al cielo con un'espressione di immensa gratitudine mentre gli andava incontro, seguita dagli sguardi fuggenti dei suoi colleghi al di là della porta in vetro appena varcata dalla Gwen di classe.
Nonostante la situazione totalmente confusionaria però la prima cosa che le venne da chiedergli fu piuttosto tipico di lei. 
«Come ti sei vestito?» E l'espressione di Dean sembrò celare un "sapevo che l'avresti detto" o un "sei sempre la solita". «Comunque, non importa. Io sto... sto bene, credo. Ma -sul serio- una tuta da meccanico? Che diavolo...? D'accordo, sto divagando.» E lo stava facendo sul serio. Poco importava se quella tuta fosse sporca o se Dean sembrasse ancora più attraente se unto di olio per motori. «Dean, che cosa ci faccio io qui? Tu sei l'unico che potrebbe saperlo!» Gesticolò animatamente senza nemmeno accorgersene, regalando all'intero studio un biglietto per la sua opera teatrale intitolata "la Breakbones dà di matto". «Ho anche provato ad andarmene da sola ma la mia macchina non c'è. LA MIA DODGE CHARGER IN QUEI FOTTUTI PARCHEGGI NON C'È!» E quando si parlava della sua auto tutto perdeva un senso. Ed un volume della voce. «Dean non ho... non ho nemmeno un'arma addosso.» Questa volta fece attenzione al tono che usava. Stranamente. «Una pistola, un pugnale, un filo interdentale per strangolare qualcuno! Non ho niente! Mi sento nuda! Guarda!» Estrasse una stilografica dal taschino della giacca e la aprì frettolosamente, in preda ormai ad un attacco psicotico. «Che cosa dovrei farci con questa? Giocarci all'impiccato? Disegnare i baffi al mio nemico? COSA? Cosa diavolo si uccide con una penna??»
La smorfia di Dean non sembrò poterle trasmetterle la sicurezza di avere presto delle risposte anzi, sembrava quasi che l'uomo volesse rinchiuderla in manicomio.
«E poi -ah, questo è il colmo- guarda lì» lo afferrò per le spalle e lo voltò verso la porta dietro la quale ormai tutti i dipendenti non facevano che fissare i due ragazzi. «Lì sopra c'è il mio nome. Quello vero. Cosa mi sono fumata per poter dare il mio vero nome in pasto a dei piranha vestiti da pinguini, eh? Perchè c'è il mio dannato nome su quella stramaledettissima porta??»
«Perchè è il tuo ufficio?» 
«Oh certo, è il mio uffi- IL MIO COSA? E chi sono, Ally McBeal??»
«Beh, non proprio. Lei era un avvocato.»
«Che vorrebbe dire "non proprio"?»
«Tu sei un giudice, Gwen.»
Boom, un pugno dritto nello stomaco. 
Lei? Un giudice? Lei?? La stessa Gwen che infrangeva le leggi ogni passo che faceva, adesso era un giudice? E poi come poteva essere un giudice, un magistrato, con l'età che aveva?
A questa domanda fu felice di rispondere la sua targhetta appesa alla porta dove, proprio sotto al suo nome, troneggiava l'anno di laurea all'università di Yale. Yale. La migliore università con corsi di giurisprudenza d'America. E, da quanto sembrava, si era anche laureata prima del previsto. 
«Quindi sono un genio. L'ho sempre saputo!» Il primo grande sorriso in quell'incubo. «Io decido chi ha torto e chi ha ragione? Sul serio?»
«Così sembrerebbe.»
«Ok, questo potrebbe andarmi bene» coccolò quasi quell'idea, nel profondo della sua mente.
Ma quella dolce sensazione non durò a lungo: ecco che il ricordo della sua amata macchina tornò a tormentarle il cervello.
«Devi portarmi fuori di qui, Dean. Sento che sto per impazzire!»

« D'accordo, d'accordo. Cerca di stare calma, adesso, okay? » fece Dean, posandole una mano sulla spalla e guardandola dritto negli occhi. « Respira. Brava così... », annuì e quando si assicurò che Gwen era abbastanza calma da poter affrontare una conversazione con un tono di voce adeguatamente basso, fece un piccolo sorriso. 
Lanciò un'occhiata alla gente curiosa che si era affacciata sul corridoio per vedere che diavolo stesse succedendo, e tutti subito si ritirarono nelle proprie aule. Sembrava quasi che avessero paura di quel ragazzaccio tutto sporco che aveva a che fare con il giudice in persona. Molti si chiedevano come mai una donna bella, talentuosa e intelligente come Gwen stesse con un meccanico come lui. Dean pensava che fosse perché, infondo, erano molto simili e si compativano a vicenda. 
« Hai di nuovo esagerato con la caffeina, non è vero? » disse accigliato, le labbra arricciate in una smorfia. 
« Cosa? » chiese Gwen visibilmente confusa. 
« Te l'ho detto cento volte, piccola. Quella roba ti fa male! Ti rende iperattiva » le ricordò i tono grave. 
« Ma di che diavolo stai pa- Un momento... mi hai chiamata Piccola? » domandò stranita e scioccata insieme. Dean aggrottò la fronte, scrollò le spalle e annuì. 
« Certo. Lo faccio sempre » rispose tranquillo. Gwen lo fissò, le sopracciglia inarcate e le labbra schiuse, pronte a dire qualcosa che però non pronunciò mai. Dean ridacchiò dopo aver visto quella buffa espressione. Le circondò le spalle con un braccio e le diede un bacio sulla testa. « Credo che tu sia un po' troppo stanca. Troppo lavoro. Adesso torniamo a casa, ordiniamo una pizza e ci scoliamo due o tre birre ». 
« Che cosa? Io non voglio tornare a casa, io non ho una casa! » sbottò Gwen all'improvviso, divincolandosi dall'abbraccio di Dean. « Rivoglio la mia Dodge Charger! Adesso! » 
« Gwen, tu non hai una Dodge Charger! » esclamò Dean impaziente. « Ma ti sei fatta una canna, per caso?! » 
« Allora?! Qui si lavora, questo è uno studio legale! » urlò una voce infondo al corridoio: un uomo grasso e tozzo era appena apparso a qualche metro di distanza da loro, sbraitando e gesticolando animatamente. 
« So che cosa sta insinuando Mr. Jenkins! La lasciò sfogliare i suoi giornaletti porno in santa pace! » ribatté Dean con un sorrisetto di sfida stampato in faccia, sollevando un pollice in aria verso il grassone. 
Si voltò a guardare Gwen e notò con sorpresa uno strano sorriso stampato sulla faccia: sembrava quasi divertita per la scena alla quale aveva appena assistito. Dean in realtà si aspettava uno schiaffo o una ramanzina a denti stretti come faceva ogni volta che Dean prendeva in giro i suoi dipendenti vestiti da pinguino. 
« Che c'è? » domandò, guardandola stranito, ma lei non rispose. La vide portarsi le mani sul viso e scuote appena la testa. « Ehi, ehi, ehi... tesoro? Vuoi tornare a casa? » le intimò comprensivo, accarezzandole una guancia con dolcezza. « Forza, andiamo! Ti farò dei massaggi alla schiena, i tuoi preferiti, mh? » 

Dean scivolò giù dal letto e si rivestì, cercando di fare meno rumore possibile. Prese le chiavi della sua adorata Impala e si avvicinò a Valery che dormiva tranquillamente avvolta tra delle lenzuola di seta. Le diede un bacio a fior di labbra e la donna aprì lentamente gli occhi, sorridendo non appena si ritrovò il viso di Dean a pochi centimetri di distanza. 
« Ciao... » mormorò con voce roca e assonnata. 
« Ciao » salutò Dean, sorridendo appena. 
« Già te ne vai? » 
« Temo di sì, ho molto lavoro da sbrigare » spiegò, drizzandosi sulla schiena e facendo spallucce. « Mi sono divertito molto stanotte, tu sei... sei stata fantastica, Valery ». 
« Anche tu, agente Marshall... Mi ha fatto piacere conoscerti » confessò la donna, annuendo con un sorriso un po' malinconico stavolta. 
« Dove sei stato? » gli domandò Sam qualche minuto più tardi, quando Dean lo raggiunse al motel. 
« Ho passato una notte da urlo, fratello. Uh! Cavolo... non mi divertivo così da- » 
« Sì, sì, certo. Risparmiami i dettagli » lo interruppe Sam, l'espressione disgustata stampata sulla faccia. « Ti ho lasciato una miriade di messaggi ». 
Dean scrollò le spalle e cominciò a liberarsi di quel maledetto completo elegante, sfilandosi prima la giacca, poi i pantaloni ed infine la camicia. Prese il telefono e ascoltò i messaggi che Sam gli aveva lasciato in segreteria la sera prima: ben sette ramanzine noiose che raccontavano quanto il fratellino fosse preoccupato della sua assenza. 
« Ah, ce n'è un altro... » disse tra sé e sé. « È di Gwen ». 
"Ehi Dean, sono io, Gwen, la tua adorata spina nel fianco. Senti un po', non è che ti trovi, per puro caso, dalle parti di Owensboro, vero? Sarebbe una bella coincidenza perchè mi servirebbe una mano. Anzi, in realtà mi servirebbe solo un pugnale d'argento inzuppato nel sangue d'agnello ma, visto che ti conosco, so che con te o prendo tutto il pacchetto o non se ne fa niente. Credo di avere un mostro blu alle calcagna e mi servirebbe davvero quel dannato pugnale quindi fammi sapere, ok? Alloggio al motel nella Triplett St. Stanza 24. Datti una mossa e vieni a darmi una mano. E ti prego, cambia il messaggio della segreteria, sembri un morto vivente." 
« Cos'ha che non va il messaggio della mia segreteria? » borbottò con una smorfia, mentre componeva il numero di Gwen sulla tastiera del telefono. Sam ridacchiò. 
« Quello di Castiel è decisamente più allegro » lo canzonò, ricevendo un'occhiataccia in risposta. 
Dean tirò su col naso, si allontanò di qualche passo mentre aspettava che Gwen rispondesse alla telefonata, ma dall'altro capo si udì soltanto la voce registrata della ragazza che lo invitava a lasciare un messaggio.

Tu non hai una Dodge Charger: secondo pugno nello stomaco. Sentì le budella contorcersi per sì e no un quarto d'ora.
L'aveva chiamata tesoro: questo fu piuttosto imbarazzante. Più che altro era stato il tono che Dean aveva usato a lasciarla senza parole né insulti adeguati. E poi c'era quell'assurda questione della casa. Gwen non aveva una casa, non ne aveva mai avuta una. Lasciò Rocksprings e la casa dei suoi genitori subito dopo la loro morte e il locale di sua zia Jaqueline era andato perso già da un paio di anni. Non poteva considerare casa sua nemmeno il suo bar preferito o il garage di Bobby. C'era la sua auto. Quella era la sua casa e adesso non c'era più. Poteva andarle peggio di così?
«Vai a farti fottere Jerkis o come diavolo ti chiami!» Ribollì la sua rabbia fulminando con gli occhi quella specie di nano da giardino in sovrappeso. «E adesso andiamocene di qui!» E girò i tacchi, chiamando l'ascensore con una certa aggressività, cosa che manifestò premendo il pulsante una ventina di volte nel giro di cinque secondi. 
Quella volta l'ascensore era vuoto, al contrario di come poteva essere la testa della bionda in quel momento.
Era davvero possibile che si fosse fumata una canna? O meglio una lunga serie di canne? O che avesse provato un miscuglio di bevande alcoliche e Dio solo sapeva cos'altro? Magari uno di quei mix letali che ti facevano risvegliare accanto ad un bidone della spazzatura e con una sciarpa a fungere da intero abito.
Non sapeva in cosa sperare, sinceramente.
«Oh, almeno lei c'è ancora!» Le se illuminarono gli occhi al vedere l'Impala parcheggiata di fronte alla porta d'ingresso di quell'edificio altissimo e a specchio. Certo, non era ben tenuta come Gwen era abituata a ricordarla ma era pur sempre lei e le bastava. Senza contare il fatto che le ricordasse così tanto la sua macchina.
Per tutto il viaggio non fece che accarezzare i sedili e respirare a pieni polmoni mentre guardava il paesaggio scorrerle accanto con poca nitidezza. Aveva sul serio bisogno di riposarsi.
Non aveva idea di dove si trovasse, dopotutto aveva viaggiato per tutta l'America e ricordare ogni singola cittadina era pressoché impossibile.
Quando Dean fermò la vettura, Gwen si voltò a guardarlo, spaesata come un coniglio lontano dalla propria tana e al quale avevano appena tagliato la zampa fortunata. 
«E questa sarebbe...»
«Sì, si chiama casa e solitamente la gente ci vive dentro.» Brutto momento per fare ironia, Winchester, avrebbe dovuto saperlo. Ma con quel visetto d'angelo gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Davvero strano.
Dall'esterno l'abitazione si presentava in modo molto modesto: niente di pacchiano o sproporzionato, infondeva solo tanta tranquillità. Non appena spalancò la porta d'ingresso, un atroce dolore le si radicò sulle tempie battenti costringendola a strofinarsi la fronte con una mano. Le ci vollero una manciata di minuti per riprendersi e continuare -o meglio iniziare- il tour della casa. Fosse stato per lei si sarebbe fermata anche solo all'ingresso: uno spazioso ambiente padroneggiato da due meravigliosi divani ad angolo e un tavolino basso in legno, tende dai colori neutri a coprire delle ampie finestre e un sacco di cornici riempite da ricordi che non riusciva a riportare alla memoria. Si fece largo lungo la stanza e si precipitò sulla prima serie di foto che ornavano un mobiletto in legno accanto alla tv al plasma. Figo.
«Campeggio? Sul serio?» Aggrottò la fronte davanti a tale immagine. Questa raffigurava lei e Dean nel centro circondati poi da altra gente che passò a focalizzare subito dopo: Sam abbracciava una ragazza bionda dai lineamenti dolci mentre sua sorella Millicent veniva presa di peso da un ragazzone che era abbastanza sicura di non aver mai visto in vita sua. Proprio mentre stava per chiedere chi fossero quei due personaggi mancanti all'appello della sua memoria, un'altra foto attirò la sua attenzione. Prese la cornice con la punta delle dita quasi come se avesse timore di poterla sciupare. Eleonor Legrand e Logan Breakbones ritratti in una foto felici come non l'aveva mai visti. E non vedeva i loro volti ormai da anni, dal giorno della loro morte insomma. Questo però non rientrò minimamente nella sfera paranormale. Suo padre Logan lavorava in banca dove -come si ben sa- le rapine mano armate erano molto frequenti. Fu questo ad ucciderlo, un colpo di fucile allo stomaco. Anche Eleonor morì nella stessa tragica circostanza, accanto a suo marito: era una crocerossina allora e, intenta a salvare o quanto meno ad arginare la ferita da arma da fuoco di Logan, fu colpita anche lei. Una scena drammatica che Gwen vide al telegiornale in diretta nazionale. 
Ma non in quella vita, evidentemente. 
«Quando... dove?» Chiese incerta con un filo di voce a Dean, giunto alle sue spalle sempre più preoccupato.
«Settimana scorsa, al lago. C'eravamo anche noi insieme ai miei genitori. Non ti ricordi?»
Avrebbe pagato chissà quanto per poterlo ricordare o vivere davvero.
Due più due quindi, in tutti i sensi. Ogni angolo di quella casa cercava di dirle che Dean fosse il suo fidanzato: ogni singola foto, ogni lattina abbandonata sul bancone della cucina e ogni scricchiolante scalino che portava al piano di sopra.
«Ehi Dean» lo chiamò riposando la foto sul mobiletto per poi appoggiarcisi sopra «sono ancora in tempo per quel massaggio?»
Non era quella la domanda che avrebbe voluto e dovuto fargli ma si arrese, si arrese a quella confusionaria quanto pacifica sensazione di casa, di affetto.

SPAZIO DELL'AUTRICE: Okay... per chiunque abbia seguito la prima FF Ahuizotl, ecco un'altra travolgente avventura di Dean e Gwen che vede la seconda in lotta con un Djinn. Spero vivamente che questo primo capitolo possa piacervi, ovviamente se avete intenzione di leggerlo :'D (Ricordo che il personaggio di Gwen viene ''mosso'' da Nicolessa, perciò il merito è anche suo). Be', che dire? Non dimenticate di lasciare una piccola recensione, buona lettura!
  
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