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Autore: Mellark_    10/11/2013    1 recensioni
Stesura alternativa della mia precedente One Shot (-Perché tu non c'eri-), stile di narrazione diverso e finale modificato leggermente, varie aggiunte.
Dal testo: "-Finnick!- esclamo, quasi senza fiato.
-Pare di si- ride lui, e mi invita a camminare, mettendomi una mano dietro la schiena.
-Sei venuto per portarmi con te?- chiedo, tra l’eccitato e il terrorizzato. Lui scuote la testa.
-Ma in un certo senso è il motivo per cui sono qui- dice, fermandosi."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Peeta è tornato da un po’, nel Distretto, ed io sto meglio, davvero. Mi lavo, mi alzo, ogni tanto esco.
 A volte rispondo perfino alle telefonate del dottor Aurelius, ma non troppo spesso.
Non siamo tornati ad essere quelli di prima, qualsiasi cosa fossimo, comunque. Me non è facile riavvicinarsi dopo tutto quello che ha passato, dopo la guerra. E poi di cosa dovremmo parlare? “Ehi Peeta! Come sono stati gli ultimi mesi di confusione mentale? Qualche volta ti va ancora di uccidermi?” Non saprei che cosa dire. Era sempre lui ha parlare.
I dottori dicono che non è più pericoloso, sa come controllare le sue ‘visioni’, ma a volte lo vedo stringere la tovaglia con le mani, a cena. Vedo le sue pupille dilatarsi, e il suo rispiro affannoso si sente perfettamente nel silenzio della tavola.
Qualche volta mi guarda, ma non dice né fa nulla.
Mi osserva di sottecchi da tutti i posti che ha interposto tra noi, e spesso mi ritrovo a urlare disperatamente dentro di me, senza che un suono lasci la mia bocca. Vorrei che si alzasse e facesse qualcosa, nei miei confronti, che mi baci, mi abbracci o mi metta le mani al collo. Per capire che cosa gli passa per la testa.
Ma credo che mi tenga comunque in vita, in qualche modo, sentire il profumo del pane appena sfornato, posato sulla tavola e la risata di ciò che è rimasto di Peeta Mellark aleggiare per la casa, dove di solito sento solo le urla dei miei morti, nonostante questa non sia rivolta a me.
Ho la conferma di questo quando lui smette di venire a cena.
 Lui non si fa più vivo ed io non vivo più, di nuovo. 
Con le sue cessano anche le visite di Haymitch, che Peeta trascinava qui per la cena, e anche lui finisce col mancarmi. Mi manca Haymitch!? Si che sto male, ora.
Ricomincio a non lavarmi, a non uscire, a non muovermi, a non cambiarmi. Mi limito a respirare, e a volte mi chiedo perché ancora lo faccio.
La poca voglia di vivere riacquistata mi scivola via di dosso come acqua sulla plastica, e comincio a rifiutare il cibo.
Un giorno dopo l’altro tiro fuori una nuova scusa, ieri era il mal di testa, oggi è la nausea. Sae mi dà delle medicine che io getto dalla finestra non appena esce dalla mia stanza.
Guardo la porta di casa di Peeta.  Ci sono dei contenitori sulla soglia, poggiati a terra. Li ha messi Sae, gli porta da mangiare ogni mattina, ma lui non esce mai. Quindi, prima di andare via, lei si rassegna, e li porta ad Haymitch.
Il terzo giorno le mie guance iniziano ad essere scavate, ed ho il colorito di un fantasma, Sae tenta di farmi mangiare ed io le assicuro che lo farò. Gettando il cibo appena se ne va.
Ci tiene a me, in qualche modo, e vuole aiutarmi, ma deve andare via per qualche giorno, la sua nipotina, quella un po’ strana, deve fare delle visite a Capitol City e lei deve seguirla.
Quando me lo dice leggo la preoccupazione nei suoi occhi, così le assicuro che mangerò un po’ e che chiamerò il dottore. Giusto per non farla stare male.
-Mangia!- mi raccomanda ancora una volta, prima di uscire dalla stanza sbuffando.  Io sorrido, da sola.
La fame è accecante, al quinto giorno, vedo più sfocato e si iniziano a scorgere le ossa sotto la mia pelle.  Sinceramente, avevo calcolato di sopravvivere di meno, ma ho preso qualche chilo, nel periodo in cui Peeta era qua, e ancora non li ho bruciati tutti. 
Qualche volta devo essere svenuta, perché ho dei vuoti di memoria di alcuni momenti, ma ormai è tutto piuttosto confuso. Credo sia mattina, a giudicare dalla luce che filtra dalla finestra, quando sento dei passai al piano di sotto. Mi trascino giù dal letto, allarmata, e striscio fino ad una sedia. La trascino sino alla porta e la inclino bloccando la maniglia.
Piuttosto sicura e soddisfatta del mio sistema difensivo rotolo lentamente, perché ogni movimento mi procura dolori alle mie ossa indebolite, ma quando cerco di risalire sul letto le braccia mi abbandonano e rimango sdraiata sul tappeto. Ad aspettare che tutto finisca. 
Intanto Sae è salita e colpisce rumorosamente la porta, urlandomi di aprire. Dopo un po’ sento i suoi passi confusi allontanarsi, e sorrido.
Non riesco più a tenere gli occhi aperti, e non ci provo. Li lascio chiudersi, mi lascio scivolare nell’incoscienza e vengo catapultata in un mondo irreale. C’è Boggs, Mags, Finnick, Prim e Maysilee, strano che si sia anche lei… e papà, oh papà.  C’è molta pace ora che tutto sta per finire, c’è serenità.
Finnick è al centro, i capelli bronzei, gli occhi color oceano, il sorriso brillante risplende come il sole, tutt’intorno a lui ci sono gli altri che mi sorridono, lui mi tende la mano e io mi sporgo verso di lui. Sto per afferrarla quando sento una voce. –Katniss! Kat! Apri, ti prego!- la voce di Peeta straziata e spezzata dal dolore urla da dietro la porta. –Ti supplico- la sua voce cala, ma continua a colpire la porta con le spalle, sempre più forte.
Come in trans mi trascino fino alla porta e scosto la sedia. Una sua spallata basta a buttarla giù.
Ci sono Haymitch e Sae dietro di lui che si bloccano non appena mi vedono, ma non Peeta. Si butta a terra e mi stringe tra le sue braccia, scoppiando a piangere, ma cercando di rassicurarmi.
Chiamano un medico, credo, perché un uomo in camice bianco si presenta poco dopo per visitarmi.
-L’abbiamo presa appena in tempo- dice, e poi sprofondo in un sogno artificiale, profondo e senza incubi.
Mi ritrovo nel limbo spettrale del sedativo purtroppo a me così famigliare.  Ma non è il solito buio assoluto, c’è come un alone di luce che contorna i bordi di questo quadro completamente nero. Una cornice.
Aggrotto perplessa le sopracciglia, mentre una figura mi si staglia davanti, sorridente.
-Finnick!- esclamo, quasi senza fiato.
-Pare di si- ride lui, e mi invita a camminare, mettendomi una mano dietro la schiena.
-Sei venuto per portarmi con te?- chiedo, tra l’eccitato e il terrorizzato. Lui scuote la testa. 
-Ma in un certo senso è il motivo per cui sono qui- dice, fermandosi. Io lo guardo interrogativa, e lui mi invita a sedermi su una specie di panchina, ovviamente nera, apparsa dal nulla. –Non farlo, ok? Non ci provare più ora che lui è tornato. Prima stavo per accoglierti perché  sentivo che era quello che volevi davvero, dal profondo. Ora no: ora hai un motivo per cui vivere. Non fartelo scappare. Fai sì che le nostre morti non siano state vane. Vivi- mi sorride e se ne va. Senza lasciarmi alcuna possibilità di replica. Allora anche il nero svanisce, si sgretola, e cade come pioggia su di me.
Due occhi azzurri sono la prima cosa che vedo quando apro gli occhi, e ciò che Finnick mi ha detto prende finalmente significato.  Ora ho qualcosa per cui vivere.
-Peeta…- lo chiamo, roca. Lui mi prende prontamente le mani.
-Sono qui- sussurra.
-Resterai? Sempre?- gli chiedo, sforzandomi di tenere gli occhi aperti, mentre lotto contro i sedativi.
-Sempre- sussurra lui, e si china, posandomi un leggero bacio sulle labbra.
Ora non sono più sola. 




Spazio autrice.
Ok, so bene di avervi già presentato questa storia, e non ho pubblicato questa stesura perché non so cosa cavolo pubblicare, ma solo perché era una alternativa che avevo scartato ed ora, rileggendola ho deciso di pubblicarla. 
Spero la gradiate, a presto! :) 

 
  
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