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Autore: KeyLimner    12/11/2013    0 recensioni
Può un dipinto catturare l'anima di una persona? E dopo averla portata alla luce, strapparla via e imprimerla sulla sua superficie immacolata, imprigionandovela per sempre? E può uno sguardo disarmare anche il cuore più duro con la sua forza implacabile?
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Berenice entrò nella stanza.
Si guardò rapidamente attorno. Le pareti erano spoglie; sull’intonaco divorato dalla muffa spiccavano soltanto un armadio ingombro di inchiostri, pennelli, carboncini e altri strumenti di cui non conosceva la funzione, e un cavalletto ad un angolo, proprio sotto il fascio di luce che penetrava dalla finestra.
Udì il passo felpato di Fabrizio alle sue spalle, seguito dal cigolio della porta che si chiudeva. Non si voltò a guardarlo.
«Allora, dove devo mettermi?», chiese con voce ruvida.
Il giovane le indicò un cantuccio, dalla parte opposta rispetto al cavalletto, proprio sotto il getto luminoso.
La ragazza si piazzò dove ordinato. Senza troppi preamboli, slacciò la fibbia che le teneva la veste e il tessuto liscio le scivolò addosso con un fruscio. Porzioni di lucida pelle ambrata affiorarono pian piano da sotto la stoffa, scoprendo le generose forme man mano che cadeva lentamente ai suoi piedi.
Quando quella superficie scultorea fu emersa del tutto, la sua proprietaria si voltò spavalda verso Fabrizio. I suoi intensi occhi color cobalto, accesi di una luce ferina, s’incatenarono a quelli del giovane con aria di sfida. Una sfida a capitolare innanzi alla fierezza della sua nudità.
Egli la contemplò assorto, per nulla intimidito. Le diede qualche ordine, poi, non appena fu soddisfatto, cominciò a preparare il suo lavoro. Berenice lo osservò incuriosita mentre sistemava la tela sul cavalletto e disponeva i colori in ordine cromatico su una tavolozza di legno. Ai piedi del giovane giaceva un complesso di taniche, barattoli e boccette colmi di strani liquidi di cui non avrebbe saputo indovinare la natura, qualche straccio sporco e vari altri strumenti che non le erano meno sconosciuti di quelli sul mobile appoggiato alla parete contigua.
Finito di armeggiare con l’attrezzatura, il maestro stette finalmente immobile di fronte al cavalletto. Studiò per qualche istante ora il corpo della fanciulla, ora la tela bianca innanzi a lui. Poi, alzando il braccio con cura quasi religiosa, avvicinò il carboncino al cotone teso e lo macchiò con un primo rapido tratto.
Berenice osservò affascinata il movimento preciso di quel braccio, il lavoro armonioso dei muscoli sotto il sottile strato di epidermide… il modo in cui l’esattezza di quel gesto - la cui artificiosità svaniva nella perfezione del meccanismo che lo guidava, tanto da apparire perfettamente naturale - spezzò in un istante il mistero della tela come un’iniziazione. La mano parve cadere sul punto giusto del foglio come se non potesse fare altrimenti, come se oscure forze l’avessero pilotata in modo fatale verso di esso.
A partire da quel primo fluido gesto, Berenice vide il volto di Fabrizio trasformarsi. Sotto la maschera dell’uomo, vide affiorare di colpo l’artista. Il giovane assunse tutt'a un tratto un cipiglio severo, così distante dall’espressione benevola che gli aveva visto sfoggiare poco prima alla locanda da risultare irriconoscibile. E sotto il suo sguardo attento e concentrato, sentì il suo stesso corpo mutare all’improvviso: non più un volgare ammasso di carne e sangue, un mero recipiente traboccante voluttà… ma il profilo regale di una Venere. Una statua vivente, che nulla aveva da invidiare alla Nike di Samotracia o alle raffinate sculture che affollano le domus romane. Ogni centimetro della sua pelle, ogni tratto, ogni piega, ognuno dei setosi capelli che le accarezzavano le spalle vellutate, sembravano aver perso i loro comuni connotati; non erano più né pelle, né carne, né capelli… nient’altro che la proiezione terrestre delle fattezze di una Musa.
Dello sguardo di Fabrizio, ciò che più la stupiva era la totale assenza di qualunque forma di lascivia. Quell’apparente indifferenza la lasciava completamente disorientata. Egli esaminava il suo corpo con l’attenzione scrupolosa di uno scienziato. Non come un uomo che guardi una donna, ma come un amanuense di fronte al manoscritto di cui si accinge a copiare il testo, parola per parola, con minuta ed elegante grafia. I suoi occhi si soffermavano a lungo sui seni, sulla languida piega dell’inguine, sul contorno dei fianchi, ma lo facevano in modo freddo, distaccato, come se quelle forme fossero fatte di marmo, anziché di carne.
Per Berenice, che era abituata a vedere gli uomini mutare completamente davanti al suo corpo, che aveva imparato a servirsi di quel corpo con l’abilità di una professionista come strumento per ottenere da loro quello che voleva… che era in grado di farli impazzire - se lo desiderava - con la sola forza dello sguardo… quella contemplazione quasi (si poteva dire) asettica era inspiegabile e sorprendente. Da una parte, si sentiva disarmata… privata com’era di quel potere che l’aveva resa tanto forte… e anche in una certa misura offesa nella propria femminilità da tanta indifferenza. Dall’altra, però… quell’attenzione così diversa dai soliti sguardi vogliosi, ma non per questo meno lusinghiera… quello studio tanto accurato delle sue sembianze, che non si limitava ai luoghi onde lo sguardo era attirato da richiami primordiali ma si soffermava su ogni frammento della sua persona, scavando in esso e al di là di esso per carpirne finanche i segreti più profondi… la riempiva di un calore inatteso.
Mai Berenice si era sentita così nuda.
Mai mani di uomo l’avevano spogliata come quello sguardo. Mai mani di uomo avevano esplorato il suo corpo con la vorace avidità di quegli occhi, accesi da una fame tanto insolita per la ragazza che non sapeva dare ad essa una forma concreta nella propria mente. Mai rapporto carnale aveva avuto per lei l’intensità di quell’unione. Poteva avvertire distintamente la proiezione di quello sguardo scorrere sulla sua pelle, e ne traeva piacevoli brividi, che la riempivano della stessa inspiegabile fame. Una fame aliena, che la lasciava spaesata perché non sapeva come placarla.
Non seppe dire per quanto tempo stette lì immobile, tremando come una foglia.
Che fine avevano fatto tutti gli anni di onorata carriera? Che ne era della donna che aveva visto sfilare nella sua camera da letto uomini di tutte le età e di tutte le razze, sfoderando contro di loro tutte le possibili armi di seduzione per farli uscire dalla sua casa con le tasche notevolmente alleggerite? Anni e anni di esperienza sembravano essere svaniti di colpo come fumo al vento, ed eccola che arrossiva come una fanciulletta alle prime armi.
Arrossiva.
Non poteva crederci. Aveva dimenticato quella sensazione. Ne fu così stupita che si posò una mano sulle guance con aria attonita, beccandosi l’aspro rimprovero dell’artista che spezzò per un attimo l'incantesimo.
«Ho finito».
Quando Fabrizio pronunciò quelle parole, a Berenice parve che il suo cuore, rimasto a lungo fermo, ricominciasse a battere. Mentre osservava l’uomo riporre con cura i suoi strumenti e ripulire spatole e pennelli nel cestello dell’acquaragia, sentì il sangue riprendere pian piano a fluire nelle vene, portando ossigeno verso le membra irrigidite. Si accorse allora di essere rimasta praticamente paralizzata per tutta la durata dell'esecuzione.
«La ringrazio per avermi dedicato il suo tempo», le disse Fabrizio, la voce leggermente affaticata. Si deterse il sudore dalla fronte e si voltò verso di lei, ma senza guardarla davvero. La sua mente, probabilmente, era ancora rivolta al dipinto appena terminato, dove adesso risiedeva l’immagine che aveva contemplato per tutto quel tempo sul suo corpo per poi catturarla, strappargliela e imprimerla sulla tela… lasciandola infine priva.
Di colpo, Berenice sentì piombare su di sé una cupa disperazione, tanto grande quanto sconosciuta. Avvertì una voragine spaventosa aprirsi nel suo petto, laddove fino a poco fa c’era stata quell’immagine afrodisiaca di cui non aveva mai neanche sospettato l’esistenza… ma di cui - adesso che Fabrizio gliel’aveva mostrata una volta per tutte - percepiva in modo terribilmente acuto la mancanza. Si sentì di colpo ingannata, tradita, derubata.
Fabrizio frugò per un po’ nella borsa ai suoi piedi e ne estrasse una manciata di monete.
«Ecco. Per il tuo disturbo».
Berenice non contò nemmeno i soldi per controllare che ci fossero tutti. Li prese senza dire una parola, quasi con disgusto, provando l’irrazionale impulso di scagliarli lontano dove non avrebbe mai più dovuto vederli, e raccolse i suoi abiti da terra, infilandoseli in tutta fretta. Non gettò neanche uno sguardo fugace alla tela. Non voleva vederla. Non voleva vedere la sua anima imprigionata per sempre su quella superficie stregata.
Uscì come una furia dalla stanza, non desiderando altro che perdersi tra le tortuose stradine della città. Nelle tenebre. Lontano dal fascino inebriante e illusorio della luce in cui era stata immersa fino ad allora. Ora che aveva potuto contemplarne la bellezza, le pareva di non poter più trovare in nessun altro luogo una dimora per il suo spirito ferito e offeso. Non le restava dunque che vagare come un'anima in pena tra i meandri di quell'eterno Purgatorio...
  
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