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Autore: _Pulse_    13/11/2013    2 recensioni
Molly finalmente riuscì ad abbassare gli occhi, ora più che mai colmi di lacrime.
Non aveva dimenticato Jim, affatto. Da quando aveva saputo la verità sul suo conto, quando lo stesso John le aveva raccontato tutto ciò che sapeva su di lui, sui suoi crimini, quel ragazzo apparentemente normale, che l’aveva corteggiata, riempita di attenzioni e che alla fine era diventato il suo fidanzato - nonostante di fronte a Sherlock avesse detto che erano solamente usciti un paio di volte, - aveva tormentato i suoi sogni in ogni modo possibile, anche più volte per notte.
«L’ex-ragazza di un criminale», mormorò, per poi ridere ancora una volta. «Come potresti salvare qualcuno, se non sai nemmeno difendere te stessa, eh, Molly?».
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Brain and Heart'
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Ciao a tutti! :)
Una piccola premessa perché sento di doverla fare... Questa è la mia prima fanfiction sulla serie tv della BBC "Sherlock" e ciò comporta che sono tremendamente in ansia per come è venuta - perché Sherlock è un personaggio più che complesso a cui approcciarsi - e spero che questo mio primo tentativo non sia risultato OOC. Spero davvero di aver reso tutto abbastanza credibile... Ma se non fosse così, chiedo venia e magari qualche consiglio, perché mi piacerebbe scrivere altre FF del genere.
Ovviamente quello che ho scritto è tutto frutto della mia testolina bacata e non a scopo di lucro.
Ringrazio chi si fermerà anche solo a leggere e... alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

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A criminal's ex-girlfriend

 

Era la prima volta che andava a trovare John dopo il funerale di Sherlock – o meglio, dell’uomo che lei aveva fatto passare per Sherlock – e per quanto gli stesse a cuore e volesse sapere come se la cavasse in quell’appartamento ora così vuoto, non si sentiva affatto a suo agio. Come poteva esserlo? Ma doveva continuare a tenere duro, a recitare la parte che Sherlock le aveva assegnato; non poteva deluderlo, non dopo ciò che le aveva detto senza giri di parole: si fidava di lei e aveva bisogno di lei, proprio di lei.
Non conosceva le sue ragioni, né cosa comprendesse il resto del suo piano – troppo pericoloso perché lei ne conoscesse tutti i dettagli, secondo lui – ma era certa che fossero ottime. Dovevano esserlo per forza! Non si inscena la propria morte e si sparisce, lasciando tutto e tutti, per futili ragioni.

Suonò al campanello dell’appartamento 221B, in Baker Street, e quasi subito la signora Hudson aprì la porta, mostrandosi incredula e terribilmente dispiaciuta per qualcosa che era appena accaduto. O che era ancora in corso di svolgimento, dal rumore infernale proveniente dal piano superiore e che si poteva udire benissimo anche da lì.

«Signora Hudson, cosa –?», provò a domandare, ma la donna la interruppe e con voce rotta e colma d’apprensione disse:

«Oh, Molly cara… Si tratta di John, non so più che cosa fare…».

Molly la seguì all’interno della palazzina, insieme salirono su per le scale e poi la signora Hudson le cedette il passo, indicandole la porta dell’appartamento che una volta Sherlock e John condividevano. Ciò che vide la lasciò di stucco e la spaventò anche. Non aveva mai visto John in quello stato e, veramente, non avrebbe mai immaginato che potesse ridurcisi. 
In quel momento non era nemmeno il John che conosceva: il John gentile e paziente, quello che le diceva “Grazie” o si scusava al posto di Sherlock. Era un John arrabbiato e stanco, un John ferito, sul punto di crollare in mille pezzi.

Sherlock doveva avere davvero delle ottime ragioni, ma una volta di nuovo a casa – quando e se sarebbe tornato a casa – nessuno si sarebbe accontentato di quelle.
Una volta di nuovo a casa nessuno, tantomeno John, avrebbe detto “Mi dispiace” al suo posto.

Molly provò a fare un passo verso la poltrona su cui si era accovacciato – la poltrona di Sherlock – ma fu una pessima idea non annunciarsi: in un lampo, coi riflessi pronti che solo un soldato poteva avere, le puntò contro la pistola ancora fumante. Molly fece istintivamente un passo indietro e sollevò le mani, mormorando: «John… John, sono io, Molly».

Il dottore la riconobbe e con noncuranza riprese a sparare contro il muro, cercando di cerchiare, come se in mano avesse una penna rossa invece di una pistola, le parole che aveva scritto con una bomboletta di vernice spray gialla, ora abbandonata a terra insieme a tutti i cocci e i vetri infranti che una volta erano state provette, ampolle e qualsiasi altro strumento scientifico usato da Sherlock per le sue analisi casalinghe.
“Egoista bastardo”, aveva scritto. Non poteva essere rivolto che ad una sola persona, ma Molly, innervosita da quel silenzio rotto solo dai colpi di pistola, chiese: 

«Chi è un egoista bastardo?».

John si interruppe solo per cambiare il caricatore della pistola – ne aveva giù usato uno, a terra ai piedi della poltrona, circondato da tutti i bossoli vuoti. Le rivolse uno sguardo infastidito e con calma, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, rispose: 

«Sherlock Holmes».

La signora Hudson si coprì la bocca con una mano e socchiuse gli occhi, prima di voltarsi e scendere giù dalle scale. 
Molly sospirò e raccogliendo il coraggio provò a fare di nuovo quel passo all’interno del salotto, ma si fermò ancora non appena John aggiunse: 

«Lui e tutti i suicidi. Prima non la pensavo così: credevo che ognuno potesse avere il diritto di scegliere di lasciare questo mondo, nel caso non ci fossero altre vie d’uscita. Mi sbagliavo. C’è sempre un’altra via d’uscita e Sherlock… Sherlock è un egoista bastardo, perché mi ha costretto a convivere con questo peso, il peso di non essere riuscito a mostrargliela, quella dannata via d’uscita!».

Le lacrime le inumidirono gli occhi, mentre una tenaglia d’acciaio le intrappolava il cuore, ma si fece forza e senza più paura raggiunse John, quell’irriconoscibile John: alticcio, coi vestiti sporchi, la barba di qualche giorno.

«Vattene, Molly», esclamò rabbiosamente, tornando a fissare il muro per mandare via le lacrime ardenti che gli appannavano la vista.

«No. No, se prima non mi dai quella pistola».

John la guardò con un sorriso sornione disegnato sul volto. «Credi forse che voglia farla finita? Non temere, io non sono come lui».

«Allora dammela».

Il dottore scoppiò in un risolino un po’ isterico, ma allungò ugualmente la mano con cui impugnava la pistola verso Molly, tesa e con le gambe ad un passo dal cedimento.
Il metallo ancora caldo aveva appena sfiorato le sue dita, quando all’improvviso John ritrasse la mano ed agitò l’arma per aria, esclamando: 

«Pensa se avessi davvero voluto spararmi e tu mi avessi fatto cambiare idea! Cosa avrebbero detto i giornali, questa volta? Di sicuro non: “Il compagno d’avventure del finto genio salvato dalla ex-ragazza di Moriarty”!».

Molly trasalì, immobilizzata sul posto dagli occhi di nuovo colmi di rabbia di John. Avrebbe tanto voluto evitarli, ma non le fu fisicamente possibile.

«Lo sai, vero?», riprese, digrignando i denti. «Lo sai che è sua la colpa, che è a causa sua se Sherlock si è buttato giù dal tetto del Bart’s?».

Molly finalmente riuscì ad abbassare gli occhi, ora più che mai colmi di lacrime. 
Non aveva dimenticato Jim, affatto. Da quando aveva saputo la verità sul suo conto, quando lo stesso John le aveva raccontato tutto ciò che sapeva su di lui, sui suoi crimini, quel ragazzo apparentemente normale, che l’aveva corteggiata, riempita di attenzioni e che alla fine era diventato il suo fidanzato - nonostante di fronte a Sherlock avesse detto che erano solamente usciti un paio di volte, - aveva tormentato i suoi sogni in ogni modo possibile, anche più volte per notte.

«L’ex-ragazza di un criminale», mormorò, per poi ridere ancora una volta. «Come potresti salvare qualcuno, se non sai nemmeno difendere te stessa, eh, Molly?».

«Non lo so. Proprio non lo so», sussurrò con un nodo alla gola. Quindi si voltò e corse giù dalle scale, rischiando anche di inciampare in una pila di vecchi giornali.

Incontrò la signora Hudson, la quale le chiese che cosa fosse successo, ma Molly non la degnò nemmeno di uno sguardo: non voleva mostrare le sue lacrime, la sua debolezza.

Scappare, correre via. Forse era l’unica cosa che le riusciva davvero bene, nonostante la tristezza e il dolore la seguissero come ombre e riuscissero sempre a mettere radici dentro di lei, appesantendole il cuore.

 

***

 

Si diede un’ultima occhiata intorno, poi spense le luci e si chiuse le porte del laboratorio alle spalle.

Era molto tardi e non c’era alcuna traccia della luna in cielo, una cosa che la rendeva sempre inquieta e che le fece pentire di aver fatto gli straordinari per l’ennesima volta. 
Il lavoro però era l’unica cosa che le permetteva di distrarsi, di non pensare a Sherlock, a John e a Moriarty. Si fermava più che volentieri al Bart’s soprattutto quando faceva il turno di notte, nella speranza che una volta a casa, col sole appena sorto che filtrava dalle imposte, non facesse incubi il cui protagonista era proprio il suo ex-fidanzato criminale.

Il vento freddo le mordeva la pelle del viso, così Molly camminava a testa bassa e con le mani infossate nelle tasche del cappotto, le gambe rigide che ce la mettevano tutta per aumentare il passo.

Mancava un solo isolato alla fermata della metro che doveva prendere per tornare a casa, quando un trillo improvviso la fece trasalire. Si fermò e guardò insospettita la cabina telefonica proprio dall’altro lato della strada. Non c’era nessun altro in giro – un evento più unico che raro a Londra, anche a quell’ora di notte – ma non voleva credere che quella chiamata fosse proprio per lei. Aspettò quindi che il telefono terminasse di squillare, poi sospirò sollevata e tornò ad incamminarsi verso la metropolitana.
Aveva percorso solo pochi metri quando partì una nuova chiamata. Affranta, attraversò la strada e si infilò nella cabina telefonica. Sollevò la cornetta con le mani intorpidite dal freddo e se la portò all’orecchio per poter ascoltare in silenzio.

«Molly Hooper».

Molly chiuse gli occhi e trattenne il respiro, udendo quella voce che tutti conservavano gelosamente nei loro ricordi. Si pizzicò il braccio per verificare che non fosse tutto un sogno: Sherlock era davvero ancora vivo e proprio lei – aiutata dall’impressionante influenza di Mycroft Holmes – aveva contribuito alla sua scomparsa.
Ogni mattina, mentre faceva colazione, si chiedeva se fosse successo tutto per davvero e più passavano i giorni senza sue notizie più si convinceva del contrario. Ora poteva vivere, almeno un po’, nella certezza che prima o poi avrebbe visto di nuovo i suoi occhi di ghiaccio.

«Sher–», provò a dire, con la voce tremante, ma lui la zittì subito.

«Non è il caso. Perché mi hai chiamato?».

Molly si irrigidì sul posto, incredula. Sherlock aveva visto la sua chiamata, o meglio quei due squilli che aveva inoltrato al numero delle emergenze che lui stesso le aveva dato.
Era molto scossa, una volta tornata di corsa nel suo appartamento dopo quel fiasco di visita che aveva fatto a John, ma si era subito resa conto che l’avrebbe rimproverata o che addirittura avrebbe potuto metterlo nei guai, quindi aveva spento il cellulare e si era accoccolata sul divano, dandosi della stupida mentre il suo gatto cercava senza successo di attirare la sua attenzione.

«Io non… insomma…», iniziò a balbettare, spazientendo Sherlock a tal punto che dovette richiamarla all’ordine:

«Rispondi alla mia domanda. È successo qualcosa?».

Molly respirò profondamente per farsi coraggio e ripensò a tutte le cose che avrebbe voluto dirgli quel pomeriggio, tutto quello che l’aveva fatta star male in modo indicibile e che ancora le stringeva il cuore. Quello che però riuscì a dirgli fu solo: 

«L’altro giorno ho visto John. Sparava contro il muro, era davvero… a pezzi. Ha bisogno di te».

«Non posso tornare, non ancora», fu la sua risposta, fredda ed irremovibile. Sembrò quasi un «Non me ne importa», o un «Prima o poi gli passerà» e per Molly fu inaccettabile.

«Ciò che stai facendo sarà sicuramente importante, ma non sarà mai importante come le persone che ti vogliono bene e che stanno soffrendo, credendoti morto! Ma a te non importa, non è vero? Non ti è mai importato! E io, io sono la più stupida di tutti…».
Molly si passò una mano gelata sulle guance rigate di lacrime, pregando perché dal suo nascondiglio Sherlock non potesse vederla.
«Quello che mi hai detto quella sera, al Bart’s… Hai usato i miei sentimenti solo perché ti aiutassi. Il bello è che ti avrei aiutato comunque, senza che tu ti sentissi costretto a mentirmi. Perché io non conto niente per te, lo so benissimo. E la prova è che non mi hai mai chiesto nulla di Jim, senza contare quella terribile frecciatina. Lui ha fatto finta di essere interessato a me per arrivare a te, era solo un gioco anche quello, e tu, tu che per primo hai capito che era un criminale, non mi hai mai chiesto se mi avesse fatto del male.».

Sherlock rimase in silenzio, un pessimo segnale da parte sua, e Molly dimenticò per un attimo tutte le sue conoscenze di patologa per credere che sarebbe morta lì, in quella cabina telefonica, con il cuore spezzato.

«Ho sbagliato a chiamarti, l’altro giorno. È stato un errore», mormorò dopo un po’, raccogliendo quella poca voce che i singhiozzi non avevano ancora soffocato.
Si appoggiò al vetro sporco della cabina telefonica per paura di crollare a terra e gli chiese: «Ti serve altro?».

«No», rispose Sherlock.

«Okay, a presto allora».

Posò la cornetta ed uscì, trovandosi immersa in una vera e propria tormenta: il vento era diventato ancora più forte, ancora più freddo, e le ciglia umide si appiccicarono in modo fastidioso le une alle altre mentre camminava spedita verso la metropolitana, sotto l’unica luce dei lampioni.

 

Entrò nel suo appartamento e gettò subito la grossa borsa sul divano, facendo spaventare il gatto che miagolò infastidito e corse verso la camera da letto.
Con le mani screpolate per il freddo si tolse il cappotto e lanciò anch’esso sul divano, dopodiché si diresse verso la cucina per prepararsi un tè caldo. Non avrebbe conciliato il sonno, lo sapeva, ma era quasi certa che non sarebbe riuscita a chiudere occhio comunque.

Seduta al tavolo, in attesa che l’acqua raggiungesse la giusta temperatura nel bollitore, lo sguardo le cadde sulla lucetta lampeggiante sul display del telefono fisso. Si alzò e non senza un po’ di timore premette il pulsante della segreteria: qualcuno le aveva lasciato un messaggio.

«Ciao Molly, sono John. Ehm, volevo solo scusarmi per come mi sono comportato l’altro giorno e per le cose orribili che ti ho detto. Non le pensavo davvero e mi dispiace davvero tanto. Appena puoi vieni a trovarmi, prometto che questa volta sarò un padrone di casa migliore. Buonanotte».

Molly sorrise appena e cancellò il messaggio. Sarebbe passata da John quello stesso pomeriggio, visto che aveva il giorno libero.

Il bollitore iniziò a fischiare e Molly si affrettò a spegnere il gas, lasciandolo però così com’era: non aveva più bisogno del tè, voleva soltanto andare a dormire.

 

***

 

Era quasi l’alba e una luce tenue si stendeva gradualmente sul pavimento, disegnando sempre più nettamente l’ombra di Sherlock, appollaiato sul divano in modo da dare le spalle alla finestra.
Dalla sua posizione poteva scorgere Molly rannicchiata sotto il piumone, col gatto ai suoi piedi e il volto dall’espressione serena. Probabilmente stava sognando qualcosa di bello.

Sherlock unì la punta delle dita all’altezza della bocca e socchiuse gli occhi, ripercorrendo mentalmente le parole che Molly gli aveva detto quella notte.

Gli aveva rinfacciato di averle detto cose che fondamentalmente non pensava, di averle mentito, e come prova aveva fornito il suo poco interessamento su come Jim Moriarty l’avesse avvicinata per poter arrivare fino a lui.
Aveva detto che non le aveva chiesto se lui l’avesse fatta soffrire e questo, secondo la sua logica, portava all’unica conclusione che sì, Jim Moriarty l’aveva fatta soffrire. Ma in che modo? Dubitava che le avesse fatto del male fisico, non era nel suo stile sporcarsi le mani – e con una ragazza, poi. Forse la sofferenza a cui si riferiva Molly era a livello sentimentale: Moriarty aveva finto di amarla e, scoprendo che era tutta una menzogna, doveva averla delusa, oltre che ferita.

Quando ancora non conosceva la vera identità di Jim Moriarty e Molly gliel’aveva presentato, al Bart’s, lui stesso l’aveva fatta star male – secondo John – dicendole che era gay e che avrebbe fatto meglio a troncare subito con lui. Ma grazie al suo intervento la loro relazione era finita e una volta smascherato aveva pensato di nuovo di averle fatto davvero un grosso favore. Per questo non le aveva chiesto nulla in merito.

Forse non era la risposta alla domanda che contava per Molly, ma la domanda stessa. Se le avesse anche solo chiesto se Moriarty le avesse fatto del male sarebbe stato sufficiente, nonostante lui non ne capisse il senso.
Insomma, gliel’avrebbe chiesto se avesse notato qualche sintomo di malessere, qualche significativo cambiamento nella sua routine…

Ma ora che ci faceva caso, erano state molte le occasioni in cui lui, senza nemmeno accorgersene, aveva fatto stare male Molly. A volte era stato palese, come alla Vigilia di Natale. A volte era stata semplice noncuranza, il suo modo di fare. Ma mai niente era cambiato in lei: aveva sempre eseguito il suo lavoro con efficienza e competenza, l’aveva sempre assistito in laboratorio senza mai provare rancore nei suoi confronti… Mai nulla l’aveva portato a pensare che forse aveva fatto qualcosa di sbagliato. Perché Molly era fatta così: perdonava, perdonava sempre e comunque e passava oltre.

Si alzò dal divano con un movimento fluido e senza fare il minimo rumore si diresse verso la camera da letto. Non entrò, si fermò semplicemente sulla soglia per appoggiarsi allo stipite della porta con una spalla.

Jim Moriarty poteva aver conquistato un pezzetto del cuore di Molly, ottenere la sua fiducia e il suo affetto, ma non era nulla in confronto a quello che lei di sua spontanea volontà aveva donato a Sherlock ogni giorno da quando l’aveva conosciuto.
Quella notte in particolare, prima che fingesse di saltare giù dal tetto del Bart’s, aveva accettato di aiutarlo nonostante l’alto livello di rischio. Molly sapeva che se qualcosa fosse trapelato avrebbe perso il lavoro, ma non sapeva che, essendo a conoscenza di una parte del piano di Sherlock, sarebbe potuta diventare un facile bersaglio per gli scagnozzi di Moriarty.

Perciò chi era il peggiore, lui o il consulente criminale? Chi l’aveva fatta soffrire di più e chi tuttora la stava facendo soffrire, incapace di ricambiare ciò che lei gli donava?

Sherlock fece un passo all’interno della stanza, senza perdere di vista il gatto che lo fissava coi suoi occhi rifrangenti. Si chinò su Molly e con estrema cautela le rimboccò le coperte fin sotto al mento.

«Non ti ho mentito, Molly Hooper», sussurrò quasi in labiale, ma giurò di aver visto del rossore sulle sue guance.

Sherlock accennò un sorriso e si allontanò silenzioso com’era venuto. Aprì di nuovo la finestra del salotto e poco prima di saltare sulla scala d’emergenza gettò un ultimo sguardo verso la camera da letto: sorprendendo anche se stesso, sperò che l’avesse davvero sentito e che non smettesse mai di essere se stessa.

 

   
 
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