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Autore: kid_napped    14/11/2013    5 recensioni
One shot di pura e completa fantasia, scritta ieri sera nella malinconia più totale per non essere potuta andare a Milano.
Sogno... o realtà?
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Un rumore basso, cupo e ringhioso, si insinuò nel suo cervello. Cresceva lentamente di intensità, acquisiva forma e un certo ritmo, mentre la sua mente assopita metteva a fuoco i suoni che percepiva intorno a lei: un lieve chiacchiericcio, rumore di pagine voltate, il brusio di una musica indistinta. Intanto il rumore di fondo aveva acquisito un'identità, sobbalzava, strideva come di metallo su metallo. Un treno.
Lentamente si svegliarono anche gli altri sensi e allora le arrivò alle narici l'odore di caffè, sporco e corpi pigiati; sentì sulla pelle l'umidità condensata dei respiri delle persone intorno a lei; il sedile di plastica su cui era seduta prese consistenza. Lasciò chiusi solo gli occhi, nonostante fosse ormai sveglia, perché c'era qualcosa che non andava. Insomma, era proprio sicura di non essersi addormentata in treno, l'ultima volta.
Spalancò gli occhi di scatto e percepì tutto il peso della testa, che aveva appoggiata al petto, dolerle lungo il collo. Si stropicciò la faccia con le mani e si stiracchiò voluttuosamente. Poi, solo alla fine dei suoi riti mattutini, si decise ad affrontare la realtà.
Si trovava in un vagone affollato, caracollando a velocità sostenuta attraverso una campagna buia che degradava velocemente in una squallida periferia. Una sottile striscia grigio luminescente colorava l'orizzonte. Era pressappoco l'alba e stavano arrivando in una stazione.
I volti attorno a lei erano lievemente sbiaditi, tutti palesemente sconosciuti.
“Are you ok?” le chiese gentilmente una signora di fronte a lei. Il cervello impiegò qualche secondo a registrare la domanda. Poi rispose automaticamente: “Yeah... Thanks”. La signora le sorrise, comprensiva.“Excuse me, Madam, what day is it today?” le chiese, con voce impastata. La signora allargò il suo sorriso: “It's Wednesday, darling. The 13th November”. La ragazza voltò il collo indolenzito e sbirciò il giornale dell'uomo accanto a lei: decisamente un'impaginazione non conosciuta. Il treno rallentò, sputacchiò e si fermò in una stazione mai vista. Un grosso cartello recava a lettere cubitali il nome della città: Sheffield.
Accorpandosi alla fiumana di gente che scendeva dal treno, la ragazza atterrò sulla banchina, guardandosi intorno: un grosso orologio segnava le sei e trenta. Ancora mezza intontita dal sonno, si avviò verso una delle uscite.

 

Camminava distrattamente, addentrandosi nella città che si stava risvegliando: un'università, un parco, blocchi di case, un parco, palazzi alti, un parco, una chiesa, un parco. Alberi ovunque. Era indubbio che si trovasse nell'unica Sheffield che conoscesse, South Yorkshire. Il come le era ancora ignoto. Un crampo allo stomaco la fece sobbalzare, ricordandole che non mangiava chissà da quanto tempo. Frugò le tasche della felpa e trovò solo gli auricolari attorcigliati. Pescò dal fondo dello zaino il borsellino e, stranamente, lo trovò quasi pieno di monete.
Comprò un cappuccino e una brioche calda ad una piccola caffetteria che trovò in una piazza e si sedette su una panchina per mangiare e riattivare il cervello. Cercò il cellulare nello zaino e lo trovò con la data bloccata al giorno prima; attivò la ricerca di reti wi-fi, ma non trovò nessun segnale: si accigliò un po', dopotutto era una grande città.
Osservò le persone camminare intorno a lei, i loro vestiti, i loro cellulari, il loro modo di parlare. Vagando spaesato il suo sguardo si posò su un manifesto steso di fresco: i Def Leppard si sarebbero esibiti al Fez Club di Sheffield il 20 Febbraio 2003. L'informazione viaggiò lentamente tra le sue sinapsi pigre. C'era davvero qualcosa che non andava.

 

Non saprebbe ben dire quanto rimase folgorata sulla panchina, le gambe incrociate e la brioche che si raffreddava nel sacchetto di carta, mangiata a metà, a realizzare di trovarsi undici anni prima di quanto dovesse. La cosa non la spaventò più di tanto, anzi, sarebbe stato molto peggio trovarsi nel suo paese, certa che la se stessa di quell'anno fosse da qualche parte a scarabocchiare le prime parole su un foglio a righe. Ma essendo lì... perché non togliersi qualche sfizio? 
Fece velocemente un calcolo mentale e si alzò di scatto, ficcandosi la restante brioche in bocca: guardò l'orologio pubblico e calcolò che aveva ancora qualche ora di tempo prima che lui uscisse da scuola. Si sistemò lo zaino in spalla e caracollò verso un tabellone esplicativo della rete tranviaria, cercando intanto di ricordare il distretto in cui doveva dirigersi.
“Excuse me, Sir...” si rivolse titubante ad un passante che le sembrava avesse il viso gentile “... domando scusa, sir, saprebbe dirmi dove vanno alle superiori i ragazzi di High Green?” L'uomo la guardò come se non avesse mai visto un'altra ragazzina in vita sua, ma si ricompose in fretta. “Well... O alla Ecclesfield o alla Notre Dame o alla Stocksbridge, miss. Almeno così mi dicono.”
“Stocksbridge è quella che mi serve. Sarebbe così gentile da indicarmi come arrivarci via tram?” E quello partì in una complicata spiegazione delle linee da prendere e delle corrispondenze da acchiappare al volo. La ragazza annuiva compita, certa che entro cinque minuti sarebbe stato tutto cancellato dal suo cervello evanescente. Ringraziato e congedato il gentile passante, cominciò la sua avventura tranviaria, pagata a spese di chi le aveva messo tutte quelle sterline in tasca e l'aveva fatta tornare indietro nel tempo.

 

Impiegò quasi due ore ad arrivare nel distretto di Stocksbridge e una, almeno, per trovare la scuola. Camminando lungo la rete protettiva che delimitava la proprietà mangiando un panino, la ragazza sperava con tutto il cuore di non aver sbagliato i suoi calcoli. L'edificio anonimo di mattoni rossi apriva il cancello principale su di uno slargo della strada e lei andò a piazzarsi proprio dal lato opposto alla scuola, così da poter guardare bene in faccia chiunque ne fosse uscito. Passò un'ora o forse più, in cui lei non fece altro che guardare nel vuoto e rimuginare, mentre, brulicante, si spargeva nella scuola la notizia che una tipa davvero stramba era ferma immobile fuori dall'edificio da almeno un secolo.
Finalmente suonò la campanella e tutta la massa di studenti si riversò come un fiume in piena nella strada, sgomitando e tendendo il collo per osservare quella strana ragazza mai vista prima. Lei, intanto, aveva di poco alzato la testa e scrutava attenta ogni volto tra la folla, finché, tra gli ultimi, non vide comparire quello che cercava.

 

Alexander Turner, sedici anni, non era certamente una bellezza, ma il suo viso, la sua espressione timida e buona, l'aria da bravo ragazzo inglese appassionato di letteratura, erano inconfondibili. La ragazza si mosse agile e veloce nonostante gli anfibi pensati, da minatore. Fendette la folla di cardigan grigi che si ritraevano al suo passaggio, quasi come un branco compatto che veda un membro vistosamente dissimile insinuarsi tra le sue compagini. Lui non l'aveva notata, anzi, chiacchierava velocissimo e incomprensibile con un altrettanto giovane Matt Helders, senza degnare nessun altro della sua preziosissima attenzione. La ragazza si fermò a pochi passi da lui e cominciò a fissarlo intensamente. Matt per primo si accorse di quella creatura bizzarra piovuta lì dal nulla e, interrompendo Alex, gli fece cenno col mento che quella li stava guardando. L'altro si voltò di scatto, abbracciando l'esile figura in un unico sguardo liquido. Lei si avvicinò.
“Alex Turner?”
“Sì... sono io.”
“Lo so. Vuoi uscire come me oggi pomeriggio?”
Non aveva pensato ad un piano, una tattica particolare per avvicinarlo. In realtà non voleva nemmeno avvicinarlo: si sarebbe accontentata di uno sguardo veloce, magari di incrociare i suoi occhi scuri. Ma vederlo lì, goffo, impacciato, devastato dall'acne, puro e innocente come non sarebbe stato mai più nella sua vita... La ragazza non credeva nel destino, ma qualcosa dentro di lei le aveva imposto di agire, di manifestarsi come uno spiritello premonitore, di salvare, almeno in parte, un po' della bellezza estrema che il ragazzo racchiudeva in se.
Ad una domanda così diretta Alex era rimasto decisamente colpito. Quasi spaventato.
“Come fai a conoscere il mio nome?” chiese sospettoso.
“Sei famoso, tutto qui. Allora, usciamo insieme oggi pomeriggio?” rispose lei, faccia tosta.
“Ma non ti conosco, non so nemmeno come ti chiami!”
Lei tese la mano, spazientita: “Io sono Cassandra, puoi chiamarmi Cass. È appunto per conoscerci che usciamo insieme oggi pomeriggio, no?” ammiccò.
L'altro soffermò il suo sguardo su di lei: le calze nere stracciate nonostante il freddo, il vestito che scendeva largo e morbido sui fianchi, la felpa enorme che indossava con sciatta nonchalance, lo zaino sfondato e crivellato di toppe di band famose, i grossi anfibi. Non una punk, né una dark, nulla che avesse mai potuto classificare nella sua vita. E i suoi occhi verdi, contornati di matita nera spessa e pastosa, erano come il vetro opaco di un acquario.
“Alex, la ragazza sta aspettando!” lo prese in giro Matt.
“Uhm... va bene. Sì usciamo insieme. Ma posso per poco tempo, poi ho le prove con la band” e accennò a Matt.
“Fantastico, ho proprio voglia di un po' di musica!” si auto invitò lei. “Ti aspetto qui tra un paio d'ore, dato che non conosco molto bene la zona, ti spiace?”
“Va bene. A dopo... Cass.”

 

Tutto sommato non si sentiva poi così nervosa. Insomma, era pur sempre Alex Turner, ma era un ragazzino. Lei era persino più grande.
Lo vide arrivare dopo essersi ravviata velocemente i capelli e il trucco guardandosi in uno specchietto rotto che aveva trovato in una tasca dello zaino: si era cambiato e aveva una grossa custodia da chitarra sulle spalle. La raggiunse, incerto.
“Ciao”
“Ciao”
“Andiamo?”
“Va bene. Guidami tu, non so quasi nulla di queste parti”
“Ti va un gelato?”
“Un gelato andrà benissimo” sorrise lei.
Camminarono in silenzio. Poi entrarono in un bar gelateria e ordinarono due enormi coppe di gelato. Si sedettero ad un tavolo e per un po' lui la fissò senza parlare.
“Non ti ho mai vista in giro. Intendo, nemmeno a Sheffield”
“Sono nuova di qui”
“E come facevi a conoscermi?”
“Per sentito dire...”
L'arrivo del gelato risparmiò alla ragazza ulteriori spiegazioni. Mangiarono silenziosi, guardandosi di sfuggita e distogliendo gli occhi ogni volta che si incontravano; avevano preso gli stessi gusti. 
Finito di mangiare Cass allungò una mano verso il posacenere di vetro che campeggiava nel mezzo del tavolo e lo tirò a se. Estrasse dallo zaino un pacchetto di Gitanes e se ne accese una, inspirando con voluttà. Alex spiava ogni suo movimento.
“Vuoi una sigaretta?”
Alex arrossì. “No, non fumo.”
“Hai l'aria di chi vorrebbe disperatamente fare un tiro. Avanti, prova!”
Gli porse la sigaretta accesa. Lui la prese e inspirò, ma poi tossì violentemente e gli lacrimarono gli occhi.
“Sono buone... un po' pesanti” cercò di dire. Si rigirò tra le mani la piccola sigaretta bianca. “Non le ho mai viste in giro.”
Cass sorrise. “Le compro in Italia, ma sono francesi.”
Lui la guardò stralunato. “Sei piena di sorprese...”
Andarono avanti per un po', parlando del più e del meno e Cass riuscì a costruire la storia convincente di un studentessa italiana venuta per una vacanza studio in Inghilterra. Gli parlò dei suoi amici, della scuola in Italia, delle band che portava cucite sullo zaino. Parlò per più di un'ora e lui la ascoltò silenzioso e attento, stranamente affascinato da quella cascata di notizie futili sulla vita di quella sconosciuta, acceso nel dibattito tra le band migliori (i Nirvana, per lei, gli Strokes, per lui).
Intanto si era fatto tardi e si avviarono velocemente verso casa di Matt, nel cui garage avvenivano le prove del complesso. Conoscendosi meglio avevano scoperto tante affinità, di gusto, di pensiero, di visione, e mano a mano che andavano avanti nuovi fili sottili ed invisibili li tenevano legati, stretti abbastanza da consentire loro solo di sfiorarsi.

 

Matt e Andy si finsero infastiditi dalla presenza di Cass. “Turner, la prossima che ci porti non la facciamo entrare!” urlarono appena li videro comparire. La ragazza arcuò elegantemente un sopracciglio, lanciando ad Alex uno sguardo eloquente. “Almeno lei capisce qualcosa di musica, mica come le tue, Helders!” 
A Jamie, invece, fu subito simpatica e la invitò ad essere spietata nel giudicare la loro performance. Cassandra si accomodò per terra e li ascoltò mentre suonavano qualche cover degli Strokes e un paio dei loro pezzi. Riconobbe quelle che sarebbero diventate le canzoni dei futuri Arctic Monkeys e si trattenne a stento dal canticchiarne, insieme ad Alex, le parole.
Alla fine, tutti si disposero intorno a lei, aspettando un responso. A Cass la situazione sembrò irreale... circondata da una delle sue band preferite, alle prime armi, che chiedeva consiglio a lei. Si accese un'altra sigaretta, inspirò e li guardò ad uno ad uno negli occhi.
“Cazzo se spaccate” sussurrò.

 

Passò le ore più felici della sua vita. Dopo gli schiamazzi per il giudizio più che positivo, si fece passare il basso da Andy e strimpellò qualcosa (“Andy, amico, potremmo pensare di sostituirti: la ragazza ha talento e una faccia molto migliore della tua” azzardò Matt, seppellito dai pugni del bassista) poi Jamie propose di far arrivare delle pizze a domicilio e lei, naturalmente, accettò di buon grado l'invito a rimanere. Sentiva, però, sul fondo dello stomaco un'urgenza, come se il tempo le stesse scivolando tra le dita. Sulle prime non ci badò, mangiando formaggio filante sulla “... peggior pizza che abbia mai assaggiato, lo giuro su quel che volete!”, ma poi, mano a mano che la serata volgeva verso il termine, un peso sempre più grave le si andava congelando in petto, opprimendole il respiro. Lei e Alex non rimasero mai soli, non certo perché la band glielo impedisse, ma perché non ne sentivano il bisogno. Bastava trovarsi, lo sguardo a mezz'aria, e sorridersi leggermente, felici di incontrarsi, di quella sottile armonia che li aveva avvicinati.
Verso le undici e mezza erano tutti e cinque stesi sul pavimento del garage, tra i cartoni di pizza vuoti a raccontarsi storie dell'orrore (“C'era una volta un cerchio di streghe ambiziosamente viziose...”) quando, all'improvviso, caddero tutti in un sonno profondo. Tutti, meno Cass.
Si alzò a sedere e si mise a gambe incrociate, guardando i ragazzi addormentati. Un senso di tenera urgenza la invase e, silenziosamente, scattò loro una foto con la polaroid che portava sempre con se. Alex aprì gli occhi al fruscio della foto che usciva dal bordo della macchina e guardò Cass con occhi assonnati.
“Che ore sono?”
“È molto tardi. Devo andare via” soffiò lei.
“Ti accompagno...” si alzò velocemente e si mise il giaccone. Poi, scavalcando i corpi addormentati degli amici, uscì per la porta che dava sull'esterno, seguito da Cass. L'aria era gelida e il loro fiato formava delle nuvolette. Attraversarono il giardino della casa e lui la accompagnò, sempre silenzioso, alla fermata dell'autobus, l'ultimo, che l'avrebbe portata nel centro di Sheffield; poi chissà dove. Cassandra lo guardò: era impacciato e non sapeva come riempire l'attesa.
“È stato bello, oggi” sussurrò lei.
“Già...”
“Non mi hai ancora detto come vi chiamerete”
“Arctic Monkeys”
“Bell'immagine...” commentò lei con un sorriso.
“Sei la prima che non ci prende per pazzi” osservò lui.
“Non è da pazzi, anzi. È molto originale”
“Grazie...”
Silenzio.

“Alex io...”
“Cass vorrei rivederti” buttò fuori lui.
Lei lo fissò con occhi vitrei.
“Non possiamo, Alex” disse con voce leggermente strozzata.
“Perché?” chiese lui, imbronciato.
“Alex, io non so dove sarò domani...”
“Tornerai in Italia?”
“Forse...”
Silenzio.

“E allora perché..?”
“Perché ti ho chiesto di uscire con me?”
“Sì...”
Cass inghiottì il peso del cuore.
“Alex... Io in realtà volevo metterti in guardia.” Inspirò. “Tu e i ragazzi siete bravi, davvero, credo che riuscirete a spaccare. Avete talento: soprattutto tu. Sei una persona fantastica, un ragazzo incredibile. Credimi: i primi tempi andrà bene, ma ti prego, non lasciare mai che gli altri ti influenzino o decidano per te. Anche se più avanti ti sembrerà di sentirti inadeguato, solo, triste, patetico, ti prego, ricorda una cosa: c'è qualcuno a cui piaci per come sei. A me, per esempio.” Fece un pallido sorriso. “Sii sempre cosciente di te stesso. Perché sei meraviglioso così come sei.”
L'autobus stava arrivando. Cass abbracciò Alex, che non aveva detto una parola.
“Tra dieci, undici anni, non ti ricorderai nemmeno di me. Ma io ti sarò più vicina di quanto pensi. O almeno, l'avrei voluto.” Gli diede un bacio sulla guancia e poi la sfiorò leggermente con le dita sottili.
“Aspetta, Cass... Cassandra, dammi almeno il tuo numero di cellulare!”
“Nha...” disse lei, un piede già sull'autobus. “Lo perderesti! Ah, una cosa!” lo guardò dritto negli occhi. “Stai lontano dall'America, intesi?”
Salì sull'autobus e gli mandò un bacio col soffio. Poi l'autista partì, portandosela via.

Alex rimase lì, impalato, almeno una mezz'ora. Poi si riscosse e tornò a casa con le parole di Cassandra che gli vorticavano nel cervello. Inutile dire che, alla lunga, non seguì ciò che la ragazza gli aveva detto.
Cass invece si accoccolò su un sedile dell'autobus e sorrise, soddisfatta, prima di addormentarsi.

 

 

Epilogo.

 

“Cass?”
“Cass svegliati!”
“Ma siete sicure che stia dormendo? A me pare che non respiri!”
“Ma sì, dorme sempre così.”
“Cassandra svegliati, da brava, siamo arrivate.”
Come sempre, una volta sveglia, percepiva prima i suoni attorno a se. Poi gli odori. Poi le persone, stavolta decisamente familiari. Spalancò gli occhi, quasi spaventata. Era circondata dalle sue amiche, sull'autobus che prendeva ogni mattina per andare a scuola. Si era appisolata.
“Cazz... Mi sono addormentata.”
Le altre risero. “Ce ne siamo accorte! Appena hai poggiato il sedere sul sedile hai cominciato a russare!”
Sbatté lentamente le palpebre. Le altre la spintonarono giù dall'autobus e lei le seguì a testa bassa, non molto convinta. Cacciò le mani indolenzite dal freddo nelle tasche della felpa e vi trovò qualcosa che non avrebbe, a rigore di logica, dovuto esserci. Una fotografia, piccola, quadrata, istantanea. Quattro adolescenti addormentati in un seminterrato poco illuminato. Un piccolo sorriso di incredulità le illuminò il volto.
“Che giorno è?”
“Mercoledì, tonta.”
“13 Novembre?”
“Già, Cass. Il tempo vola.”

 

 

 

 

 

  
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