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Autore: LUcy__    15/11/2013    2 recensioni
Louis era bloccato in una città in cui non voleva vivere.
Harry viveva nella città in cui voleva vivere, ma da solo.
Tutto per colpa di quello che accadde due anni prima.
{Harry/Louis, USA!AU. Enjoy^^}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Home is wherever i’m with you.

 
 
Attention please: Home is wherever I’m with you è una storia slash, ovvero a contenuti omosessuali. Vietata a omofobi, elounor shippers e simili.
Gli One Direction sono di proprietà di loro stessi – o della Modest!, come preferite – e non mi appartengono assolutamente. (Peccato.)


(Link utile: qui la playlist di Home. Enjoy^^)



Let me come home
Home is wherever I’m with you.”
 
Click.
La vecchia Polaroid cominciò a fare un rumore familiare alle orecchie di Harry, poi sputò fuori la fotografia. Lui la afferrò e la coprì, mettendola al buio. Rimise la preziosa macchina fotografica nell’enorme tracolla di jeans che si portava sempre con sé e ne tirò fuori un Olympus, appendendola al collo.
Harry faceva  il fotografo; da poco, certo, ma aveva già portato alcune sue fotografie ad alcune mostre fotografiche. Fotografava paesaggi, oggetti ma anche persone. Persone che, sempre e comunque, dovevano avere gli occhia chiari. Meglio se del colore del cielo. A Harry piaceva molto il cielo, gli ricordava casa sua e il tempo passato a fotografare le nuvole.
Possedeva quattro macchine fotografiche; la Polaroid, che era la sua preferita in assoluto, una Zenit russa, l’Olympus e una Canon.
Washington D.C. era bella. Harry tempo prima l’aveva scelta perché era la capitale degli Stati Uniti e perché era un bel posto da vedere. Da fotografare. New York sarebbe stata un clichè, ma Washington no. Aveva qualcosa di semplice e bello. Harry amava tutte le cose che vengono bene in foto e fino ad adesso ne ha viste solo due: Washington e una persona.
Casa sua era al nono piano di un palazzo con undici piani; l’aveva arredata con stampe colorate di artisti e musicisti che in pochi conoscevano, mobili anonimi e tantissime fotografie. La foto impressa era un palazzo, semplicemente; Harry la prese e la appese a una parete dove stavano tutte le foto fatte con la Polaroid. Quasi tutte. Perché se non le aveva messe su quella parete voleva dire che c’era qualcosa che non voleva ricordare. Non ancora.
C’era tanta malinconia nel farlo, perché anche a casa lo faceva. Amava casa propria, ovviamente, ma si era accorto di stare soffocando là. Sentiva la propria gabbia stringersi attorno a lui, fino a farlo soffrire. Harry non voleva soffrire.
Per questo voleva partire, per questo era partito.
Osservò la parete.
“Harry, vecchio mio, stai perdendo qualche colpo.” si disse, ridacchiando, indicando l’ultima foto scattata. “E troppo chiara!” spiegò, continuando a parlare da solo. In realtà era sempre solo come un cane, ma faceva finta che non fosse vero e parlava tanto con sé stesso o teneva accesa la tv o la radio per sentire qualche voce sconosciuta che parlava. Il silenzio totale lo raggiungeva solo quando anche l’ultima luce era spenta e lui era coricato a letto. Allora sì che le cose potevano sembrare un po’ più difficili.
 
Non voleva sentirsi solo e nemmeno la compagnia occasionale di modelle con i capelli dai colori pastello o ragazzi sconosciuti da una notte e basta poteva essere abbastanza; c’era un qualcosa che la mente di Harry reclamava a gran voce. Ma nulla lo avrebbe riportato a casa sua. Il suo tormento era e rimaneva a Washington. Lontano da qualsiasi cosa che avrebbe potuto calmarlo.
 
 
Una cosa che Louis Tomlinson non aveva mai voluto essere era abitudinario; si vedeva bene, là a Washington, a non avere mai un abitudine precisa, a non vivere secondo alcuna regola e essere, semplicemente, felice.
Diciamo che le cose non erano andate proprio come voleva lui.
Aubrey aveva 2500 abitanti circa; era situata nel Texas, contea di Denton, e tutti conoscevano tutti; lui non conosceva più nessuno e nessuno conosceva lui, al di fuori della sua famiglia.
Uscì di casa esattamente alle sette e mezza; la colazione la faceva a casa, alle sette e un quarto. La prima cosa che fece fu portare a scuola le sorelle - aveva proibito a Lottie di guidare; una sorta di vendetta personale per quello che lei gli aveva fatto prima - e poi andò al suo noioso lavoro da cameriere in centro. La paga faceva schifo, ma si andava avanti lo stesso, in qualche modo. Staccava ogni giorno alle sei del pomeriggio, il che vuol dire che le sorelle tornavano in autobus.
Lottie chiedeva sempre, ogni mattina, la macchina di loro madre, ma Louis diceva no, sempre. La macchina no; da quando loro madre e stava male non poteva guidare, ma il ragazzo si fidava poco delle sorelle. Si fidava poco di tutti quanti.
Faceva sempre le stesse cose, ogni giorno.
Fin dal primo giorno al lavoro aveva capito che non sarebbe stato felice mai più ad Aubrey; ogni giorno scorreva identico a quello prima e tutto questo uccideva Louis.
Uscì dal lavoro al solito orario, e rientrò nella propria macchina. Poggiò la paga mensile sul sedile anteriore accanto e mise in moto. La radio non la accese –ogni rumore era così fastidioso alle sue orecchie, stanche di ordini e di imposizioni -, anche se il silenzio lo portò a pensare e a farsi del male.
Aveva praticamente ventiquattro anni e non avrebbe mai dovuto fare il ragazzino ripensando al passato e al futuro buio che lo aspettava; si rimproverò perché il suo desiderio era solo fuggire via lontano invece di restare con la sua famiglia. “Noi ti amiamo davvero.” avevano detto e Louis sperava che non fosse vero. Non voleva solo l’amore della sua famiglia, lo voleva da qualcuno che… scosse la testa, rifiutandosi di andare avanti a pensare così.
Parcheggiò davanti a casa ed esce dalla macchina, nascondendo i soldi nella giacca. Senza farsi notare, si tolse le scarpe e le lasciò all’inizio delle scale, lasciò la giacca sul mobiletto dell’ingresso e corse in camera sua. Si inginocchiò accanto al letto, tirò fuori una scatola di latta e la aprì. Estrasse il contenuto. Una scorta personale di denaro, con il quale sperava inutilmente di realizzare un vecchio sogno. Divise la propria paga, mettendo però la parte più piccola dentro la scatola, e tenendo quella più grande per la famiglia.
Curioso come si sentiva un ipocrita e un traditore a tenere un po’ di soldi per sé. Aiutare di più la sua famiglia sarebbe stato fantastico, ma volle  ancora concedersi il lusso di sperare, per l’ennesima volta.
Con lo sguardò attento, contò i soldi che aveva, confrontando la cifra con quella scritta a mano sulla scatola di latta. Le cifre, per la prima volta, coincidevano.
Non che questo, alla fine, contasse qualcosa. Non ancora.
 
 
Vivere ad Aubrey aveva sempre significato l’assenza di privacy, lo stress, la preoccupazione costante per la sua famiglia e la perdita di molte, molte cose che erano troppo importanti per essere abbandonate. Non che Louis avesse avuto libero arbitrio sulle proprie scelte.
 
 
Ogni dannata cosa porterebbe a chiedersi “che cosa è andato storto?” o “perché alla fine non sono felici?”
Il fato avrebbe dovuto portare nella vita di Louis la felicità e nella vita di Harry la serenità; a Louis è stata data solo sofferenza e a Harry solo solitudine.
 
 
 
 
Due anni prima.
 
 
“People in this town they, they can be so cruel
I live my life inside a dream,
only waking when I sleep.”
 
Louis uscì dal bagno per primo e Harry contò esattamente quindici secondi prima di uscire anche lui, guardandosi intorno attentamente. Dopo aver constatato che nessuno lo stava guardando, andò fino all’armadietto di Louis. Gli si piazzò davanti e sfoderò un sorriso adorabile.
“Non dovresti seguire il frocio, Harry. Almeno non finché hai una reputazione buona in questa scuola.” gli disse allora l’altro ragazzo, guardandolo dritto negli occhi e stringendo i libri che aveva in mano. Harry ricambiò lo sguardo, soffermandosi sui suoi occhi del colore del cielo e sulla sua statura bassa.
“Seguo il mio ragazzo ogni volta che voglio, ok Louis?” disse, a mo’ di sfida. Louis allora rise, una risata che riempì il cuore di Harry con tenerezza e amore.
“Dio, quanto sei dolce, Haz…” mormorò, abbassando la voce di proposito, per non farsi sentire dalla gente intorno. In realtà tutti li ignoravano in quel momento, ma per Louis la prudenza non era mai troppa.
“Solo con te.” fece Harry in risposta. “Mi permetti di accompagnarti in classe?” domandò, porgendogli anche il braccio e facendogli una mezza riverenza.
“Cretino… mi accompagni solo perché abbiamo la stessa lezione.” borbottò il castano, anche se afferrando lo stesso il braccio del proprio ragazzo, in quale ridacchiò e scosse la testa.
“Lo faccio perchè mi piace andare in giro con il mio bellissimo LouLou attaccato al braccio.” confessò, sincero. Ogni singolo contatto con Louis per Harry era speciale, unico, bello. Poco gli importava se Aubrey era forse la cittadina più omofoba del Texas o se qualcuno non approvava.
Ma Louis non era a proprio agio con sé stesso; non totalmente, almeno. Era stato bocciato due volte: una al primo anno e una al terzo. Non riusciva a trovare la propria strada nella vita e non sentiva di avere nessun talento particolare. L’omofobia nei suoi confronti lo destabilizzava.
Quindi forse con la loro relazione non ci si poteva proprio dimostrare molto affetto in pubblico; però Harry e Louis si amavano così profondamente e così puramente che alla fine non era importante.
 
 
“I love you, the best. 
Better than all the rest. 
I love you, the best.”
 
Quando Harry aveva compiuto diciotto anni Louis gli aveva regalato una Polaroid; era usata e le foto che faceva erano ovviamente di qualità inferiore di quelle che faceva la sua Olympus - regalo di sua madre quando aveva iniziato a mostrare interesse per la fotografia – o la vecchia Zenit che aveva trovato in soffitta ma Harry la adorò e la prima foto che ci fece fu una a Louis, che semplicemente sorrideva. Da allora decise di usarla solo per fotografare lui, cosa che fece arrossire violentemente il diretto interessato.
“Cinquantesima foto!” esclamò Harry. Louis lo guardò stupito, guardando l’obiettivo con un sorriso timidissimo. Il riccio scattò e lo guardò, intenerito. “Dannazione, quanto sei bello.” sussurrò più a sé stesso che a Louis.
“Siamo già a cinquanta inutili foto mie?” chiese il castano, accomodandosi vicino a lui; erano in casa sua, i suoi erano al lavoro entrambi e le sorelline ancora a scuola. La casa di Louis era raramente così tranquilla.
“Non sono inutili. Ok? Ok.” disse, accarezzandogli la guancia; lui abbassò la testa, sospirando. “Lou, amore mio, io amo avere foto tue.”
“Non sono un soggetto poi così interessante.” sussurrò, mordendosi il labbro. “Nulla che riguardi me è interessante.”
“Perché dici questo?”
“Perché… sono inutile. No? Sono una persona inutile, sciocca e che ha paura di tutto…” disse, ma venne interrotto da un bacio veloce, a stampo, sulle proprie labbra.
“Non osare dire così…” sussurrò il riccio, accarezzandogli la guancia. Poi lo attirò a sé, in abbraccio affettuoso.
Louis si rabbuiò; non sorrise alle carezze del proprio ragazzo. Si lasciò coccolare per un po’, poi sciolse la stretta e si alzò. Ignorò il verso lamentoso di Harry, che si stava divertendo ad averlo tra le braccia.
Harry lo guardò uscire dalla stanza, incuriosito. Si mise seduto sul letto, a gambe incrociate.
Louis tornò, teneva le mani dietro alla schiena. Non sorrideva per niente, sospirò e, con una lentezza sospettosa, si sedette davanti ad Harry. Gli occhi blu erano così tristi che Harry si preoccupò.
E poi tolse entrambe le mani da dietro alla schiena. E allora sì che vide la paura nel verde degli occhi del suo ragazzo. Perché aveva tra le mani la pistola di sua madre.
Come ci si comporta con una persona armata? La si placca immediatamente, usando la propria forza fisica e le si impedisce di fare del male oppure le si parla con dolcezza, facendole posare l’arma?
Louis non voleva uccidere o fare del male; la sola presenza di un’ arma in casa gli dava fastidio, gli aveva sempre dato fastidio. Ma la teneva ugualmente in mano, solo perché voleva. Perché gli piaceva la sensazione, in quel momento. Se la rigirò tra le mani, Harry ancora in silenzio, poi la girò verso di sé. “Harry, perché tutti mi odiano?” chiese, guardando la pistola invece che il ragazzo. 
“Nessuno ti odia.” disse Harry, freddo. La sua voce era atona e i suoi occhi concentrati sui movimenti di Louis.
“Mamma è repubblicana. È a favore delle armi in casa. La pistola è sua.” spiegò Louis, cambiando argomento.
“L’avevo capito.”
“Ah.”
Harry non rispose, ma gli prese dolcemente i polsi, strattonò via l’arma dalle sue mani e la appoggiò con cautela sul letto, accanto a sé. “Qual è il tuo problema?” chiese un po’ troppo duramente. Louis si raggomitolò su sé stesso, sospirando. Il cuore di Harry ancora batteva forte. Il solo immaginare a cosa avrebbe potuto fare Louis con quella pistola…ma Louis non era depresso, no? Si trattenne dallo sbuffare, perché avrebbe infastidito o spaventato il suo ragazzo, ancora perso nel suo mondo.
“Non ho un problema.”
Harry sospirò, scuotendo la testa. “Cosa avevi in mente, allora?”
"Non saprei. Ci sono giorni che vanno male, giorni che vanno bene. E a volte mi sveglio strano. Sai quando non sai se vuoi andare a scuola o no? Quando hai buoni motivi per restare nel tuo letto, ma ne hai anche per alzarti e andare. Ecco, a volte tra me e questa pistola è così. Ma ci provo, sai? Continuo a dire che invece che... andare via, è meglio restare. Perchè tu esisti. Non sono depresso, è solo che ci sono giorni in cui non sono felice."
"Promettimi che non la tirerai fuori mai più."
"Vorrei poterlo fare. Ma a volte è bello contemplare l'idea di smettere di essere. Mi piacerebbe sapere che cosa succederebbe. Chi piangerebbe la mia morte."
"Mi spaventi quando parli così."
"No, non esserne spaventato. Credo che tutti in questo mondo vogliano sapere chi andrebbe al loro funerale."
 
 
 “When the truth is found to be lies
And all the joy within' you dies
Don't you want somebody to love?
Don't you need somebody to love?
Wouldn't you love somebody to love?
You better find somebody to love.”
 
"Voglio andare via..." sussurrò Louis contro la pelle della spalla di Harry, lasciando un bacio leggero.
Lui gli carezzò dolcemente i capelli, "Dove, amore?" domandò, guardando di nuovo verso il cielo. Non osò spostare Louis da dov'era, nemmeno per prendere la macchina fotografica e fare la milionesima foto al cielo. Gli occhi di Louis, poi, erano più belli e senza nuvole. 
"Lontano. Un posto dove..." si interruppe, girando il volto verso il cielo e appoggiando la testa sul petto di Harry. Non riusciva a completare la frase, era imbarazzante per lui.
"Dimmelo, amore mio."
"Voglio andare via davvero." decise, convinto. Prese la mano dell'altro ragazzo e se la portò sul petto. "Voglio partire e non tornare mai più qui, e voglio lasciare questa città." e sorrise perché doveva succedere, perché l’unica cosa che voleva essere era libero. Se lo meritava.
Harry vide bene che no, Louis non stava scherzando. Valutò l'idea di andare via da Aubrey. L'idea di tornare a respirare, di amare liberamente, di non soffocare mai più e "Sai, si può fare. Dopo il diploma.”
“Dopo il diploma. Insieme. Suona bene.” disse Louis, baciandogli gli angoli della bocca. Non meritava un ragazzo come Harry, pensò, troppo buono e dolce. Lui al confronto era il nulla. Odiava fare questi pensieri tristi, lui non era depresso, il suo era… un semplice problema di autostima.
 “Dove? Dove vorresti andare?" disse, e sarebbe stato bello vivere con lui, lontano. Lontano. Harry assaporò quella parola nella propria mente. Suonava bene.
Faceva male essere ogni giorno guardati male, come se le loro scelte in fatto di amore fossero state strane, quando non lo erano. Harry amava Louis. Louis era bello, dolce, gentile. E pensava di meritarselo, di avere pienamente il diritto di prendersi il suo perfetto Louis e portarselo via, tenerlo sempre con sé. Insieme.
"Un posto dove..."
"Dove?"
Louis allora si rialzò, si mise seduto a cavalcioni su di lui e gli strinse le mani. "Dove quelli come noi possono sposarsi."
Harry sorrise e prese la macchina fotografica. Louis con gli occhi azzurri e alle spalle il cielo.
Click.
 
 
“Imagine I was a full-grown man
And I could talk just right 
Could I come and see you here”
 
"Louis, mamma sta male." Lottie disse, facendogli segno di sedersi. Il suo volto non lasciava scelta. Louis obbedì. Non odiava la sorella, davvero, ma il suo carattere era troppo deciso e predominante. Non si capiva da chi avesse preso, ma era di certo una piccola strega. Sotto sotto Louis lo sapeva che era cattiva. Ma le voleva bene…
"Lottie, lo so." rispose, sospirando. Mark, compagno di sua madre da anni, li aveva lasciati due sere prima. Avevano litigato e Louis ricordava bene come aveva coperto le orecchie di Phoebe che piangeva e di come aveva portato in camera Daisy e Fizzie per impedire loro di sentire. Poi lui era uscito sbattendo la porta. Era rientrato due ore dopo, aveva fatto i bagagli ed era uscito ancora, con la promessa di non tornare. E Jay lo amava davvero. Louis sapeva quanto lo amasse; lei però non aveva pianto, no. Si era alzata dalla propria sedia ed era andata nella propria stanza. E poi… non era più uscita.
"No, non lo sai." disse, fredda. I suoi occhi sembravano accusarlo del male di sua madre.
"Cosa vuoi?"
Louis forse lo sapeva già. Qualcosa nello sguardo deciso di sua sorella, appena diciassettenne, gli stava dicendo tutto. Il cuore di Louis, perse un battito quando la sua mente formulò quel pensiero, che poi prese vita sulle parole di Lottie Tomlinson.
"Voglio che tu resti ad Aubrey." fu l'ordine. Come poteva una ragazzina dargli ordini? La sua sorellina? Ma perché, poi? Per la mamma. Lei.. era solo depressa. Se la sarebbe cavata. Louis aveva bisogno  di fuggire via. Di vivere libero e senza la gente che lo giudicava. Voleva solo… essere felice. Felice. Ma gli era proibito.
La risposta del ragazzo fu l'ovvio "No", indignato, anche se lo sapeva che glielo avrebbe detto. Ma nulla, nulla lo poteva costringere a rimanere, non Lottie, non sua madre. No…
"Come no?! Tua madre sta male e tu sei l'unico, l'unico che può aiutarci."
"Ma come?" domandò allora Louis, confuso.
"Mamma non tornerà al lavoro. Ci andrai tu."
Louis scosse la testa, alzandosi. La guardò male e incrociò le braccia, come per evidenziare quanto le sue affermazioni fossero assurde. Si voltò, passandosi una mano sugli occhi perché no, non poteva piangere per niente, e corse su per le scale, fino in camera di sua madre. Bussò delicatamente prima di entrare e anche se non ebbe risposta decide di entrare comunque.
Jay era seduta davanti alla finestra. Lo sguardo fu perso nel vuoto finchè non si accorse della presenza del proprio figlio all’interno. La sua testa si girò, ma troppo lentamente.
“Louis… oh, il mio Louis. Lottie mi ha detto che resterai qui con me.” disse. Gli sorrideva. Louis maledisse la sorella. Non era giusto.
“Mamma…” sussurrò, non riuscendo ad affrontare il suo sguardo.
“Ti ringrazio…”
Louis odiava con tutto il suo cuore deludere le persone; soprattutto sua madre. Sua madre, che ora non stava bene. Louis odiava deludere le persone. Non era colpa sua, ma non poteva deludere nessuno.
 
 
When I met you, I met you for pleasure
And the good times of running around
Then you seemed to be so understanding
From the weight that's been draggin' me down.”
 
"Lo so che mancano tre settimane, ma non so proprio cosa mettere in valigia. Non ho idea di come sarà il tempo! Sei l'unico che può aiutarmi."
Harry parlava e Louis avrebbe voluto ascoltarlo ma non riusciva a non pensare alla discussione con Lottie e al dialogo con sua madre. Harry si girò verso di lui, con due maglioni quasi uguali tra le mani, e lo vide distratto. "Lou, amore?" chiese, preoccupato. Vide bene che per Louis il suono della sua voce fu come un campanello, che lo svegliò da il suo dormire ad occhi aperti.
I loro occhi si incontrarono. Quelli di Harry, curiosi, e quelli di Louis, tristi.
Louis si era ripromesso di non piangere, ma non appena Harry lo guardò, triste, lasciò che le lacrime invadessero il suo volto.
"Non dirmelo. Non vuoi più venire a Washington."  Le sue parole e il suo volto erano freddi e Louis si odiava per averlo deluso così, ma non era giusto, non era colpa sua, era di Mark che se ne era andato via nel momento sbagliato.
"Mia madre... non sta bene, abbiamo bisogno che qualcuno lavori e io sono l'unico che..."iniziò a spiegare, asciugandosi il viso, che venne di nuovo inondato.
"Ok." lo fermò Harry, passandosi una mano sul volto frustrato. "Non parto senza di te. Aspetterò."
Ma la sua voce non ne era convinta. E cosa poteva fare, Louis? Spezzargli i sogni in mille pezzi? Costringerlo a sopportare Aubrey e la sua chiusura mentale per sempre? Impedirgli di essere felice? Non poteva, lo amava troppo. E nemmeno poteva lasciare sola la sua famiglia, si sarebbe sentito troppo in colpa. Maledisse mentalmente il suo patrigno, per essersene andato. Tutti nella vita di sua madre se ne andavano, non poteva sparire anche lui. E non poteva trascinare Harry, il perfetto Harry, nei suoi problemi.
"No!" esclamò, poggiando le mani sul suo petto. "Sarà... sarà per poco. Massimo un mese. Tu parti, ok? Ti raggiungo presto." disse, sentendosi in colpa per dare false speranze al suo ragazzo.
Harry fu dubbioso. Stava per dire qualcosa e lamentarsi ma Louis lo bloccò. "Promesso. Promesso..." e Harry decise di credergli. Anche se l'idea di partire per la capitale da solo non era allettante, di Louis poteva fidarsi. Doveva, fidarsi. Gli accarezzò dolcemente il viso, spazzando via le lacrime tristi di Louis. Lo strinse a sè e "ti attenderò con ansia, allora."
 
 
“Made up my mind to make a new start,
Going to Washington with an aching in my heart.”
 
A Louis la solitudine faceva un brutto effetto. Si chiuse in sè la mattina in cui portò Harry all'aereoporto. Appena aveva visto il ragazzo allontanarsi con le sue valigie era scoppiato a piangere per l'ennesima volta in quei giorni, consapevole che le probabilità di rivederlo erano troppo poche.
Avevano parlato di Washington, solo di Washington per mesi. Di come sarebbe stato bello partire insieme e vivere liberi e innamorati e ora il tutto il dolore della lontananza lo stava lentamente spaccando in due.
Fizzie lo aveva accusato di essere troppo distratto, ma lui non le aveva risposto. Aveva ragione, dopotutto, e controbattere a un affermazione giusta era solo una perdita di tempo. Nel suo cuore mancava una parte importante che lo faceva funzionare correttamente e nella sua mente mancava lo stimolo per andare avanti. Louis non avrebbe mai saputo dire cosa gli mancava di più. Se la voce di Harry, così calda e roca, bellissima di prima mattina, dolce nel parlargli. Se i suoi occhi verdi, due gemme che affascinavano chiunque. Se i suoi capelli morbidi al tatto. Forse il suo carattere, che lo rendeva il principe azzurro ideale.
Ma Harry era così perfetto che meritava di meglio che un perdente come Louis, che si era limitato a fargli da fan per anni, senza avere mai un progetto suo.
L'unica cosa che lo teneva vivo era il momento della telefonata.
"Ehi, amore, non ti immagini che belle foto mi stanno venendo! Ne ho fatta una al parco che... non vedo l'ora di mostrartele, Lou!"
L'entusiasmo di Harry gli riempì il cuore di amore. "Io non vedo l'ora di vederle... e di vedere te." rispose, realizzando però che non ce l'avrebbe mai fatta.
"Lou, vieni presto, vero?"
"Il prossimo mese, magari." rispose, e poté immaginare bene Harry che sorrideva e il suo sorriso che illuminava tutta la stanza.
La cosa andò avanti per quattro mesi.
Un giorno Louis, preso dallo sconforto, chiamò lui Harry, ma trovò solo la segreteria telefonica. Il solo pensiero di poterlo disturbare con le proprie inutili chiamate e le proprie frustrazioni fu troppo per lui.
E non chiamò mai più.
Smise di chiamare e mentire e Harry smise di sperare.
 
 
 
 
Presente.
 
 
“Goodbye stranger it's been nice
Hope you find your paradise
Tried to see your point of view
Hope your dreams will all come true.”
 
Nessuno si era mai accorto della valigia piena nascosta dentro all’armadio di Louis. Nessuno, quella settimana, si era accorto del suo sorriso e del biglietto aereo che teneva sul comodino. Nessuno si era accorto di come era finalmente rinato, pieno di felicità ed impazienza.
Ma dire addio non era facile.
Uscì dalla propria stanza e guardò giù per le scale. Il corrimano al quale le piccole si appendevano sempre; davanti a sé, la parete dove avevano segnato la crescita di tutti i Tomlinson, con i trattini colorati. I disegni delle sorelle appesi alle pareti, le foto di famiglia, i ricordi. Ogni cosa possedeva una sua bellissima storia. Ma Louis sarebbe tornato, ogni tanto. Ma doveva fuggire. Per un po’. Ritrovare ciò che aveva perduto. Arrivò davanti alla porta di sua madre. La aprì.
Era nella stessa posizione che aveva avuto due anni prima. Avanzò all’interno e si sedette accanto a lei.
"Mamma..." sussurrò, guardandola. Le voleva bene. "Spero che tu mi perdonerai un giorno." disse. Lei lo guardò, interrogativa. Come avrebbe voluto che tutto fosse più facile; "Io parto, mamma. Lottie prenderà il mio posto e... verrò a trovarvi e..."
Non se ne accorse, ma aveva cominciato a piangere. Lo capì solo perchè lei gli passò una mano sulla guancia e allora si accorse che era bagnata. Louis odiava deludere la gente. "Ho l-lasciato un biglietto alle ragazze e ho salutato le gemelle..." scoppiò in lacrime, singhiozzando. Si coprì il volto con le mani, per non farle vedere che stava male. "Non voglio abbandonarti, giuro... tornerò a trovarvi..." ripetè, non osava guardarla in viso.
"Louis."
Non alzò lo sguardo, ma fu intimorito. "Mi dispiace..." mormorò e lasciò che la donna lo abbracciasse. Stupito, chiese "Non ce l'hai con me?"
Lei scosse la testa, sforzandosi di sorridere. "Va tutto bene. Va tutto bene..."
 
 
Louis aveva con sé solo una valigia, era stretto da una giacca troppo grande per lui e tremava leggermente per il freddo della capitale, ma si sentì stranamente vivo. Aprì la bocca e respirò l’aria fresca.
Si strinse cercando di riscaldarsi e tenne stretta la propria valigia. Aubrey aveva case piccole e provinciali; Washington era grande e alta, enorme, attiva. La gente era diversa e bella. Avrebbe potuto ammirarla per sempre. Ci sarebbe stato tutto il tempo necessario, per quello. E allora sarebbe andato in giro e avrebbe impresso ogni singolo angolo della città nella propria mente.
Ma in quel momento aveva altro da fare; trovare Harry. E sarebbe potuto essere ovunque, in giro, e trovarlo in mezzo a tutta quella gente che non conosceva, sarebbe stato impossibile. Ma il pensiero di ritrovarlo era bello e vivo, nella propria mente.
E se… l’avesse dimenticato? Louis non voleva nemmeno pensarci. Il suo Harry, avrebbe avuto tutto il diritto di rifarsi una vita, era lui che lo aveva abbandonato. Sperò intensamente di poterlo riavere.
Strinse la maniglia della sua valigia e si rimise a camminare; non sapeva nemmeno dove stava andando, ma sapeva cosa cercare. C’era un posto, da qualche parte, dove poteva trovare Harry. Doveva tentare, dopotutto.
Avrebbe girato ogni museo, ogni galleria fotografica, in cerca di Harry Styles. Avrebbe cercato anche per anni, se fosse stato necessario perché doveva rivederlo.
Quella notte non dormì. Preferì girare e vagabondare per la città, stanco come non mai. Era sicuro che lo avrebbe incontrato. Che sarebbe stato premiato per la sua perseveranza.
Passò ore a girare ogni strada della città, perdendosi spesso; alle prime luci del mattino, guardò l’alba attraverso le punte dei grattacieli. Guardò il cielo sereno, e finalmente capì.
Un posto dove fare le foto; un posto dove fotografare il cielo. Harry amava fare le foto al cielo, che fosse di mattina, di giorno, al tramonto. E per farlo gli serviva un posto luminoso, grande, bello.
Di mattina faceva ancora più freddo, e stare in mezzo alla natura del parco, tra gli alberi che impedivano alla luce del flebile sole di passare, si gelava. Louis si strinse nella giacca, che non teneva molto caldo come avrebbe voluto, e ricominciò la sua ricerca, sempre portandosi dietro il suo bagaglio. Sarebbe potuto rimanere lì per ore, a vagare cercandolo.
Fu lì, allora, che sentì quella risata. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentirla echeggiare nei corridoi della scuola, nell’intimità delle loro stanze, perennemente nelle testa di Louis, un eco che gli dava forza nei momenti in cui proprio temeva di non poter andare avanti in quella vita.
E allora lui avanzò. Avanzò fino a poter vedere.
Ogni attimo di quegli ultimi due anni aveva sognato quel momento, ma ora era mille volte meglio. Perchè… era perfetto. Non avrebbe potuto volere di meglio.
Harry Edward Styles, la sua Olympus al collo, le mani grandi strette intorno ad essa, i suoi ricci scuri, i suoi occhi verdi. Harry, più bello che nei suoi ricordi. Harry, che poteva ritornare ad essere suo.
Camminò verso di lui e si schiarì la voce. In quel momento, in quella parte del parco, erano soli. I bambini non c’erano ancora, gli anziani mattinieri se c’erano non producevano alcun rumore. Era solo loro due.
Harry si girò, facendo incontrare i loro sguardi.
“Louis…” mormorò, incredulo.
“Ehi.” salutò il castano, sorridendogli imbarazzato. Avanzò verso di lui, e con gioia vide il riccio imitarlo. “Come va?”
“Bene.” Continuava a sussurrare, ancora con quell’adorabile espressione stupita in volto. Quello era il suo Louis; il suo piccolo, dolce e gentile Louis. Quello che amava. D’un tratto il suo cuore si risvegliò. Non si sentiva più solo. E guardare Louis era come vivere di nuovo. Dopo due anni. Gli sorrise, felice, e aprì le braccia, semplicemente felice.
Il castano si buttò tra di esse e si abbracciarono. Un tocco richiesto per molto tempo, e adesso quel momento sapeva di casa. Il corpo di Harry profumava di pellicola per fotografia, di ore passate in camera oscura, lo stesso odore di cui il suo cuscino lasciato a casa di Louis non aveva mai smesso di odorare, e la sua presenza riportava agli abbracci sotto al cielo, ai baci scambiati in ogni momento libero, alle conversazioni notturne, ai giri in auto di notte fonda, a quando tornavano a casa tardi e facevano l’amore fino a rimanere senza fiato, al loro amore. Harry era la casa di Louis e Louis era la casa di Harry.
E tutto andava bene.
 
 
 


  
The Writer is IN
 
Dopo mesi e mesi che non pubblicavo qualcosa – sono lenta, ok? Lapidatemi viva – sono rispuntata su questi lidi a scrivere le mie cosette.
Home mi ha preso relativamente poco tempo per scriverla, rispetto agli standard che ho io solitamente, ma posso ritenermi totalmente soddisfatta del risultato.
Non smontatemi vi prego *occhi supplicanti*
Spero vi sia piaciuta.
E… ehi, lo so che sono inglesi, ma la mia ossessione per gli USA è ben nota. Quindi la colpa è degli Stati Uniti D’America, di certo non mia.
Con questo non volevo assolutamente sottolineare che nel Texas sono tutti omofobi; avevo bisogno dell’ambientazione, non linciatemi.
E adesso correte tutti a sentirvi tanta buona musica come quella della playlist
.
I miei link, come al solito, sono in presentazione.
Recensite se vi è piaciuta^^
.lu
  
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