Come una furia, entrò in camera sua, scaraventò la borsa sul pavimento e si accasciò sulla moquette, in lacrime.
“Adesso basta…” pensava mentre singhiozzava, lasciando che
il trucco colasse senza nessuna pietà sul suo viso.
Mentre si metteva le mani tra i capelli, sentì il tintinnio
dei suoi bracciali ai polsi.
Se li era messi apposta, per sembrare più carina, più
femminile, più alla moda, più curata.
Se li tolse con gesti rabbiosi e li tirò contro il muro; una
smorfia irosa le sconvolgeva i lineamenti solitamente dolci.
Appoggiò la schiena alla porta, sfinita, e iniziò a
calmarsi: le lacrime continuavano a scorrere, come per inerzia, e le sporcavano
le guance, il naso, le labbra di nero.
Si era truccata, ci aveva messo più di mezz’ora ed era
rimasta così contenta davanti allo specchio…
E poi le sembrava quasi di poter volare mentre camminava e
lasciava che le maniche della sua camicia di seta si muovessero a seconda del
vento.
I tacchi le facevano male, ma non le importava, avrebbe
anche potuto correrci la maratona di New York.
Non lo vedeva da un mese, era così eccitata che alla
stazione avrebbe ribaltato tutti i treni di tutte le corsie per rivederlo
quanto prima.
E quando era sceso, era imbronciato, come al solito.
Chissà di che cosa si sarebbe lamentato quella volta con
lei.
Gli aveva sorriso da lontano e gli era corsa incontro,
gettandogli le braccia al collo. Avrebbe voluto essere un ragno per avere otto
zampe e abbracciarlo meglio.
E lui l’aveva stretta a sé con un braccio solo,
circondandole tutta la vita. Con l’altro teneva il proprio borsone.
“Male, non ho dormito neanche un po’…” aveva borbottato lui
in risposta.
“Dormirai a casa mia! Lo sai che tra una settimana ho il
saggio di danza?”
Quel saggio che aveva preparato con più entusiasmo del
solito, perché stavolta qualche idea nelle coreografie ce l’aveva messa anche
lei.
“Ma quando, domenica?”
“Sì!”
“Ah… io parto sabato sera, lo sai che domenica mi trovo con
i ragazzi…”
L’aveva guardato un po’ delusa.
Si trovava coi ragazzi, sì.
Quelli del surf.
Quello sport che lui stava cercando di imparare da un mese e
mezzo.
E nonostante tutti gli sforzi, sulla tavola non ci sapeva
stare per più di un minuto, perché poi cadeva in acqua al minimo accenno di
onda.
E mentre il vento si alzava e lei continuava a guardare e a
rabbrividire, una voce a lei familiare commentava con diplomazia: “Potrebbe
anche smettere di buttare via tempo e soldi in uno sport per il quale non ha
talento”.
Diana annuiva impercettibilmente mentre quella voce la
consolava, l’abbracciava attraverso la brezza e l’aiutava a non alzarsi e dire
“Dario, vado a casa, ne ho abbastanza!”.
Andarono a casa sua per lasciare il suo borsone sul letto
degli ospiti, poi lui volle uscire subito…
“Andiamo!” le disse, aprendo la porta.
“Ma…” provò a ribattere lei.
“Dài, devo vedere un attimo una cosa, a quel negozio di
computer che ho visto venendo qui!”
Non aveva opposto resistenza, nonostante non le sembrasse
giusto che non volesse stare da solo con lei, dopo un mese di lontananza.
Appena sentirono la porta chiudersi, tutti in casa si misero
subito a spettegolare.
“Secondo me, quello una settimana qui non ce la passa…”
disse una bionda platinata, mandandosi indietro con la mano un ciuffo ribelle.
“Quello chi?” chiese un uomo con gli occhiali da sole.
“Dario, Steveland, parla di Dario…” gli rispose con pazienza
un uomo vestito di bianco.
“Ci scommetto anche il mio culo che quel coso se ne va entro
ventiquattr’ore!” commentò convinto un altro, capelli lunghi e una faccia
imbronciata.
“Chiudi quella bocca larga, Steven! Piuttosto, volete una
canna, ragazzi?” chiese un ragazzo con i capelli mossi e in disordine,
dall’aria addormentata.
“Robert, ti dispiace non sviare sull’argomento?” ribatté
seccato un ometto basso coi baffi.
“Ragazzi, chiediamo all’oracolo, lui sicuramente sa come
andrà a finire per quella povera ragazza…” s’intromise una donna dai lunghi
capelli neri, che poi chiamò: “Peter Pan! Ti giri, insomma?!”
Un ragazzo si girò a guardarla con un sorriso e chiese:
“Dimmi, Patricia, che c’è stavolta?”
“C’è che siamo tutti curiosi, insomma… l’hai vista Diana,
hai visto com’è ridotta?”
“Sì…” rispose il ragazzo, rattristandosi di colpo. Accanto a
lui, l’uomo con gli occhiali da sole chiese un po’ incerto: “Ne sai qualcosa?
Intendo dire… bè… come finirà? Siamo preoccupati!”
Il ragazzo incrociò le braccia con fare pensieroso, poi
rispose: “Non posso ancora dirvi nulla di certo, ragazzi… però… posso parlarci
e convincerla…”
“Sì… parlaci, Michael, ti prego… non posso sopportare di
vederla ancora così, gli occhi le scoloriranno se continuerà a piangere!”
esclamò un uomo seduto dietro di lui, sistemandosi i pantaloni di pelle.
“Sono così incazzata con quell’essere che potrei abbatterlo
con un urlo!” esclamò adirata un’altra donna dal caschetto liscio e rosso.
Da diversi minuti ormai giravano in quel negozio di
accessori per PC, e lui non aveva comprato niente. Borbottava tra sé e sé,
lamentandosi dell’aumento dei prezzi dei prodotti.
Diana aveva trovato qualcosa che le potesse minimamente
interessare: l’avevano attirata i colori dei piccoli mouse su uno dei tanti
scaffali. Ma dopo un po’ si era stancata di memorizzarne tutti i colori, i
codici a barre e i prezzi, così era andata verso Dario e gli aveva chiesto:
“Hai trovato niente?”
“No, questo negozio fa schifo!” aveva risposto lui, di
fronte al negoziante.
La ragazza, dopo essere arrossita, aveva tirato via il
fidanzato per un braccio e aveva bisbigliato: “Andiamo via…”.
Una volta fuori, si erano messi a girare il centro; i loro
riflessi si trattenevano poco sulle vetrine, perché Dario non si fermava mai
davanti a nessun negozio, e si trascinava dietro anche Diana, che invece
avrebbe voluto almeno dare qualche occhiata veloce.
E intanto i suoi occhi verde scuro cercavano di nascondere
il disagio, qualche lacrima, ma soprattutto una rabbia sconosciuta perfino a
lei.
Dopo tre ore di camminate a vuoto e un mal di piedi
tremendo, Diana si era seduta su una panchina del parco, cercando di sorridere
ancora.
Non ce la faceva più.
Lui era così lontano, nonostante l’avesse tenuta tutto il
tempo per mano.
E poi avevano un problema in sospeso.
O meglio, una decina.
Una ventina.
Un centinaio di piccoli problemi.
Piccoli mattoncini che erano andati a formare un muro tra di
loro.
E Dario non aveva mai voluto demolire quel muro. Credeva che
fosse fatto di polvere, che col tempo sarebbe svanito.
No, era fatto di veri e propri mattoni in terra cotta. Non
era facile spazzarli via con un soffio.
“Dario” aveva detto con calma “Ti va di parlare?”
“Parlare di cosa?”
Perché doveva essere sempre così? Perché tutte le volte doveva far finta di non capire?
“Di noi, Dario, di noi…” aveva risposto lei, sospirando.
“Senti, non ricominciamo…” aveva tagliato corto lui.
“No, Dario! Senti, è da quando stiamo lontani per via dei
tuoi studi che va tutto male!”
“Adesso sarebbe colpa mia?!”
“Non ho detto questo! Dico solo che dovresti venirmi di più
incontro! Non ci credo che in un mese non ti sei mosso di casa per studiare!”
Ecco. Aveva parlato. Parlato come si deve. Finalmente si stava arrabbiando.
“Tu non hai idea di cosa faccio quando sono a casa, quindi
vedi di stare zitta!” l’aveva minacciata lui di rimando, spaventandola. Ma
aveva resistito.
“No, non lo so cosa fai! Perché d’altronde tu non ti fai
sentire se non ti chiamo io! E poi che conversazioni!! La telefonata più lunga
è durata cinque minuti!”
“Sei veramente una fissata, mi asfissi!”
“No, sei tu che mi fai venire l’ansia!”
Un’altra frase forte.
A Dario erano tremate le mani.
NOTA DELL'AUTRICE: il titolo del capitolo è tratto da una frase della canzone "Scream" di Michael & Janet Jackson. No scopo di lucro.