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Autore: Klerey    17/11/2013    2 recensioni
[Skyrim]
[Skyrim][Skyrim]Tutto ciò che Talia conosce di sè sono il suo nome e una vaga indicazione del villaggio dove sua madre la diede alla luce. Una volta cresciuta viene improvvisamente colta da un'inspiegabile quanto intenso desiderio di scoprire le sue origini, la sua patria da cui per volontà della madre si è sempre tenuta lontana. Nella fredda ed inospitale terra di Skyrim Talia troverà molto più di quanto stesse cercando ... flebili risposte che generano altre domande sempre più complesse in un intricato gioco di bugie, indagini e profezie. Profezie che parlano del Sangue di Drago, il salvatore di Skyrim destinato a sconfiggere il possente drago Alduin e salvare così il mondo dalla distruzione. A questo destino la madre di Talia ha sempre cercato di sottrarla ma per quale motivo? E' veramente questo il destino che i Divini hanno scelto per il Sangue di Drago? O dietro questa profezia si celava qualche segreto più oscuro e profondo ... uno di cui nemmeno il Sangue di Drago doveva essere a conoscenza?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bentornata a casa
 
Era da parecchio tempo che non mi concedevo il lusso di una buona notte di sonno, ma stanotte sarebbe stato diverso: avrei dormito se non in un vero e proprio letto, almeno in un sacco a pelo. Solitamente mi accontentavo di accucciarmi in una grotta avvolta in una coperta e sonnecchiare per qualche ora, ma da un paio di giorni non mi sentivo bene, quindi una notte di sonno mi avrebbe solamente giovato.
Eppure stranamente non riuscivo a dormire. Erano successe troppe cose dal mio arrivo a Skyrim e tutte troppo in fretta, ora tutte le domande si affollavano nella mia mente in cerca di una risposta. Era buffo, perché era proprio questo il motivo per cui ero giunta a Skyrim: cercare risposte, e più precisamente per scoprire le mie origini.
Avevo intrapreso quel folle viaggio con solo due  indizi: il mio nome e il villaggio natale di mia madre.
Toccai il medaglione che portavo al collo facendo scorrere le dita sulla superficie sentii le quattro lettere del mio nome in rilievo sulla pietra: Talia. Nessun cognome, semplicemente Talia del Nord.
Il villaggio di mia madre era Riverwood, lei lo aveva lasciato quando era incinta di me non so per quale motivo. Alla gente del villaggio non avevo detto di essere la figlia di quella che per molto tempo ne era stata la guaritrice.
Non sapevo cosa volevo di preciso, sapevo solo che circa un mese prima un desiderio irrefrenabile di trovare delle risposte mi aveva convinta a intraprendere questo viaggio. Anche questo era strano perché fino ad allora avevo sempre evitato con forza anche il solo pensiero di partire.
Eppure ecco quel pensiero irrompere all’improvviso nei miei sogni, un impulso a muoversi manifestatosi sotto la forma di un sussurro appena udibile ma di un’intensità cristallina che mi chiamava per nome mostrando le inconfondibili montagne di Skyrim.
Volevo trovare i miei genitori, se erano ancora vivi. E volevo conoscere mio padre.
 
Il possente nitrito di Ally interruppe il filo dei miei pensieri. Scostai una delle pelli per uscire e vidi i raggi del sole ormai alto riflettersi sulla neve che imbiancava perennemente i pendii delle montagne e diffondere la loro luce facendo brillare tutta la vallata. Mi concessi il lusso di ammirare per un po’ quello splendido panorama prima di preparare Ally per partire.
La giumenta mi salutò strofinandomi il muso contro il petto con un’irruenza tale da mandarmi quasi a terra, per essere una cavalla di sette anni era vivace quanto una di tre. Prese subito a scalpitare, impaziente di partire almeno quanto me.
“Sta buona ragazza, altrimenti non partiremo più!” le dissi dandole un buffetto sui quarti posteriori per invitarla a calmarsi. In effetti a quell’esortazione la cavalla sembrò calmarsi un poco, unico segno della sua irrequietezza il suo continuo pestare a terra con lo zoccolo anteriore destro. Ma dopo qualche minuto Ally scosse violentemente la testa proprio mentre le stavo mettendo la sella e lanciò un forte nitrito in direzione dei cespugli appena sopra lo spiazzo in cui ci trovavamo.
Qualcosa la spaventava, un lupo forse, sulle montagne ce n’erano molti.
Strinsi forte il manico dell’ascia bipenne e salii cautamente il pendio. Non ci volle molto perché individuassi il mio bersaglio. Non si trattava di un lupo.
Strisciai cautamente tra i cespugli finché non fui a circa due metri dalle sue spalle e gli saltai sopra atterrandogli di peso sulla schiena. La riuscita della mia mossa confermò la mia prima impressione: quello era un khajiit o molto inesperto o molto stupido. Avrebbe dovuto attaccarmi molto prima o come minimo non si sarebbe dovuto far sorprendere così facilmente.
Lo spinsi a terra in posizione prona bloccandogli la testa con una mano e le braccia con l’altra. Rimasi di stucco quando lo vidi in faccia: era solo un ragazzo.
Lui tentò con tutte le forze di divincolarsi, dimenandosi e soffiando ma non poteva nulla contro il peso di un’armatura d’acciaio. Portai l’ascia a pochi centimetri dal suo volto.
“Prima di tagliarti la testa gradirei conoscere il tuo nome.”
Il ragazzo spalancò terrorizzato le sue pupille verticali ma mantenne la voce sorprendente ferma mentre rispondeva.
“Mi chiamo Kar’At.”
Sotto la mia mano sentii qualcosa di freddo e duro incastonato nel bracciale di cuoio che gli copriva il braccio destro e ne seguii il profilo con le dita: un logo a forma di pugnale circoscritto in un pentacolo. La Confraternita delle Ombre. Non molto temibili, ma pur sempre assassini. In genere si occupavano di bersagli facili, erano una copia mal fatta della ben più temibile Confraternita Oscura. Ma stavolta avevano davvero sbagliato i calcoli. Tornai a concentrarmi sul mio prigioniero.
“Quanti anni hai Kar’At?”
L’espressione del khajiit si fece stupita: non si aspettava una domanda del genere.
“Ho tredici anni, ma a te cosa importa?”
Lo tirai su di peso continuando a trattenerlo per le braccia.
“Non sei un po’ giovane per essere affiliato alla Confraternita?”
“Chi ti dice che io …”
“Non sono ne cieca ne stupida, ragazzo. Non potevi essere altro che un assassino, anche se io credo che tu non lo sia ancora ufficialmente, sbaglio?”
Mi guardò con un’aria ancora più sorpresa di prima.
“No, infatti. Tu eri la mia prova di iniziazione.” poi aggiunse dopo qualche secondo “Sembri sapere un sacco di cose sulla Confraternita.”
Non gli risposi ma mi affrettai a riportarlo all’accampamento. Ally fu palesemente contenta di vedermi tornare ma sbuffò nervosa appena il khajiit le passò davanti. Era pur sempre una razza felina, un predatore, niente di più normale che la sua presenza la rendesse irrequieta.
Legai i polsi e le caviglie di Kar’At e lo adagiai sul sacco a pelo trascinando fuori lo zaino e preparando gli ingredienti per l’antidoto. Aveva ragione, sapevo alcune cose della Confraternita e ne conoscevo bene i riti di passaggio. Forse quel povero ragazzo nemmeno lo sapeva ma il rito di iniziazione prevedeva che l’iniziato venisse avvelenato e l’antidoto gli sarebbe stato dato al suo ritorno e solo ad incarico completato.
In caso di fallimento sarebbe andato incontro ad una morte lenta tra atroci sofferenze.
La Confraternita era spregevole. Spesso il veleno veniva somministrato di nascosto e gli iniziati se ne accorgevano troppo tardi per salvarsi e lui stava già mostrando i primi sintomi: pupille dilatate, respiro affannoso, copiosa sudorazione e non mancava molto prima che sopraggiungesse anche la febbre.
“Da quanto ti senti male, ragazzo?” gli chiesi scostando un lembo della tenda per sporgermi dentro.
“Io sto benissimo. E smettila di chiamarmi ragazzo.” Rispose lui in tono duro.
Non riuscendo a reprimere un sospiro gli passai l’antidoto.
“Bevilo. Ti farà addormentare e vedrai che al tuo risveglio sarà tutto finito.”
“Già, sempre che non mi risvegli nell’Oblivion!” sibilò lui di rimando “Perché dovrei fidarmi di te? Anzi, perché mi stai aiutando?  Io dovevo ucciderti.”
Gli rifilai uno sguardo talmente duro da farlo deglutire. “Io sono la tua unica e migliore opportunità per salvarti quindi non hai alternative se vuoi vivere. Io non uccido nessuno se non sono costretta. Non ne sono capace.”
Mi guardò fisso negli occhi mentre parlavo cercando un qualche segno di menzogna nel mio sguardo e si stupì molto non trovandone. Seppur ancora con qualche esitazione bevve l’antidoto e si distese sul giaciglio chiudendo gli occhi. Dopo poco tempo il suo respiro si fece profondo e regolare. Lo coprii meglio e tagliai le corde con cui l’avevo legato.
La tenda non era abbastanza grande per accoglierci entrambi così presi una coperta e mi preparai a trascorrere la notte fuori. Avevo ancora qualche ora di luce così andai a caccia, badando a non allontanarmi troppo. Hircine mi fu favorevole quel giorno: riuscii ad abbattere un cervo.
Tornai all’accampamento al tramonto e trovai tutto in ordine, ma qualcos’altro mi preoccupava: il cielo da terso si era tinto di un grigio uniforme e faceva abbastanza freddo perché nevicasse.
La mia previsione si dimostrò corretta dopo appena mezz’ora, avevo appena fatto in tempo ad allestire un riparo per Ally quando caddero i primi fiocchi. Mi infilai sotto la tettoia di pelli e rami appoggiando la schiena contro la roccia e mi avvolsi nella coperta.
 
Sognai, per la prima volta dopo molto tempo riuscii a ricordare il mio sogno.
Ero a caccia in un bosco di abeti altissimi imbiancati di neve, da qualunque parte volgessi lo sguardo solo alberi, per quanto tendessi l’orecchio sentivo solo il mio respiro. I raggi del sole filtravano tra gli aghi degli alberi trasformando il terreno in un mare di scintille bianche.
Ma mi accorgo di non essere sola, alle mie spalle qualcosa si muove. La corda dell’arco si tende, la freccia incoccata, pronta a colpire. Non la scocco. Non posso.
Tra gli alberi un unico cervo, magnifico, il manto così candido da sembrare irreale, i palchi forti e splendidamente ramificati. Lo guardo da dietro la corda dell’arco, lui si volta e lentamente si avvicina, circospetto, quasi esitante, abbasso l’arco e il suo passo si fa più sicuro.
L’animale più bello e maestoso che avessi mai visto, lo spirito stesso delle foreste. Si avvicina a tal punto che posso vedermi riflessa nei suoi occhi, occhi di un verde scuro, intenso e penetrante. I miei occhi.
Ne ebbi paura. Cercai di muovermi, di indietreggiare ma non riuscii a spostarmi di un millimetro, ero lì ferma e impotente costretta a subire il peso del mio stesso sguardo così intenso e diretto.
Il cervo parlò, non con la voce ma potei sentirlo chiaramente. Era un saluto.
“Bentornata a casa, Talia del Nord.”
 
La tempesta era peggiorata e faceva sempre più freddo, sul terreno era già caduto uno spesso strato di neve fresca. Il freddo non mi creava problemi ma ero piuttosto preoccupata per il ragazzo, decisi che sarebbe stato bene dargli un’occhiata, così entrai nella tenda. Da quello che vidi, soprattutto considerato il fatto che l’aveva scampata per un pelo, non stava poi così male.
Nonostante la febbre fosse ancora alta e i muscoli costantemente scossi da brividi l’antidoto stava agendo bene e anche velocemente, ma in una fase così delicata qualsiasi cosa poteva metterne a rischio la guarigione.
Ma dopotutto ero la figlia di una guaritrice, sapevo cosa dovevo fare. Non potevo rischiare che la temperatura del suo corpo subisse una variazione troppo brusca, dovevo mantenerla stabile il più possibile finché non avesse recuperato le forze almeno in parte e poi il resto sarebbe venuto da sé. Aggiunsi una coperta al suo giaciglio e preparai accanto una ciotola d’acqua e delle bende pulite.
Mentre lo facevo mi venne in mente che forse c’era anche un’altra cosa che potevo fare per lui. Mi portai la mano al collo e mi rigirai il medaglione tra le dita pensierosa, forse era solo una sciocchezza ma avevo sempre avuto l’impressione che quello non fosse un semplice gingillo.
Non era magico, ne ero sicura ma lo sentivo come una specie di talismano. E sicuramente quel ragazzo aveva bisogno anche di una buona dose di fortuna per passare la notte.
Mi tolsi il medaglione dal collo e lo misi al suo mormorando una preghiera a S’rendarr affinché vegliasse su di lui anche se mi sembrò un po’ strano. Non avevo mai creduto molto nemmeno negli dei del Nord, figurarsi se in quelli della razza khajiit. “Ma forse lui ci crede” mi dissi “e questo è un motivo sufficiente.”
Era ancora buio e la tempesta non accennava a placarsi, ma fortunatamente mancavano solo un paio d’ore all’alba e sperai che con il sorgere del sole la situazione sarebbe migliorata e non sperai invano: all’alba le nuvole si aprirono lasciando splendere il sole a oriente.
Nonostante il sonno di Kar’At fosse stato parecchio agitato ora sembrava stare bene, aveva la fronte ancora calda ma non in modo preoccupante.
Proprio in quel momento aprì gli occhi, le pupille nuovamente normali, e li rivolse verso di me. Diverse emozioni passarono fulminee per il suo sguardo: stupore, dolore e poi sollievo quando gli poggiai una benda zuppa di acqua fredda sulla fronte.
“Ho la testa che mi scoppia.” gemette dopo qualche secondo.
“Non fare il bambino, te la stai cavando bene.” ribattei mentre preparavo un’altra benda “Vedrai che entro stasera sarai di nuovo in piedi. Sei tosto ragazzo, devo concedertelo.”
Lui mi artigliò il polso e mi trascinò verso il basso finché il mio viso non fu a pochi centimetri dal suo. “Perché ti comporti così? Perché mi stai salvando la vita?” lo sguardo intenso, desideroso di una risposta, quasi supplicante ma allo stesso tempo determinato.
Distolsi lo sguardo e uscii dalla tenda, non potevo dargli una risposta perché non ne avevo una, nemmeno io sapevo perché gli stavo salvando la vita.
“Adesso che la febbre è scesa faresti bene a riposare. Ti sveglierò io quando tornerò.”
 Uscendo presi l’arco e le frecce, cacciare mi avrebbe sicuramente aiutato a stendere i nervi.
 
Mentre cavalcavo mi ricordai del cervo abbattuto il giorno prima, avevo abbastanza carne per almeno tre giorni, cacciare non era necessario. Ripensando al cervo mi tornò in mente anche il mio sogno. Era un sogno cui non riuscivo dare un senso, spesso i sogni non ne hanno, ma questo era diverso, doveva avere un significato: era stato così vivido e intenso da imprimersi a fuoco nella mia memoria in ogni minimo dettaglio.
Fermai la cavalla e la feci voltare per tornare indietro.
Forse non era stata una buona idea tornare, non si poteva neanche dire che fossi tornata, ero indubbiamente una Nord ma niente suggeriva che io fossi nata proprio a Skyrim. Ma sarebbe stata un’idea ancora peggiore abbandonare tutto, avrebbe significato ammettere una sconfitta bruciante e inoltre non avevo un altro posto dove dirigermi.
Dovetti comunque ammettere che era frustrante cercare risposte solo per trovare altre domande.
“Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile.” pensai “E’ ancora presto per arrendersi.”
 
Kar’At era sveglio quando tornai all’accampamento, era strisciato fuori dal giaciglio e stava tentando di reggersi in piedi aggrappandosi alle pelli della tenda. Lo lasciai fare: non poteva fargli altro che bene.
Tuttavia ci mise un po’ troppa fretta: non aveva nemmeno finito di mettersi in piedi che già provò a camminare e se non cadde a terra lo dovette solo alla sua straordinaria prontezza di riflessi.
“Vacci piano, tigre. Non ti sei ancora ripreso del tutto.”
Mi lanciò un’occhiataccia penetrante quanto un pugnale ricevendo in risposta un sorriso compiaciuto che gli lasciò negli occhi uno sguardo interdetto. Mi avvicinai e l’aiutai ad arrivare al falò, o per meglio dire ce lo trascinai e gli passai lo stufato di cervo.
“Questo è quello che ti ci vuole per riprendere completamente le forze.”
Lui sgranò gli occhi e deglutì quando vide la ciotola fumante che gli tendevo. Sicuramente non avevo mai visto nessuno mangiare così velocemente. In effetti ora che potevo osservarlo meglio notavo che era piuttosto magro anche per un khajiit, perfino per un ragazzo.
“Dimmi, quanto hai viaggiato per raggiungermi?” gli chiesi mentre preparavo la mia porzione.
Lui ci pensò un attimo facendo mentalmente il conto e rispose.
“Circa una settimana e mezza, il mio ultimo pasto decente risale ad allora.”
Impressionante, non mi ero sbagliata, quel ragazzo era davvero forte.
“Bene, dato che ti sei ripreso prima del previsto potrò partire prima. Starai qui ancora per una notte, poi potrai andare per la tua strada.”
Quella sera il clima fu eccezionalmente mite, abbastanza da permetterci di stare all’aperto fino a tardi, e il cielo sereno offriva uno splendido firmamento. Kar’At se ne stava disteso accanto a me guardando il cielo con espressione meditabonda, quasi triste.
“Qualcosa ti turba?” gli chiesi dopo un po’ di tempo.
“Deve essere confortante avere sopra la testa le stelle sotto le quali sei nato. A me piacerebbe vedere le mie. Sei fortunata.”
“Come sai che sono di Skyrim?”
“Beh, sei una Nord e tutti i Nord vengono da Skyrim, no?”
“Hai ragione, ma io non so se sono realmente nata qui.”
“Ma è comunque casa tua.”
Quella risposta mi spiazzò. Non avevo mai avuto un posto che potessi chiamare casa e tornai a guardare il cielo con occhi nuovi. Casa. Rimuginai su quella parola cercando di immaginare la mia infanzia sotto quello stesso cielo che ora stavo guardando. Sì, Kar’At aveva ragione, era davvero confortante.
“Tu dove sei nato?”
“A Elsweyr, ne sono sicuro ma l’ho lasciato da piccolo, quindi non ho idea di come sia.”
“Potresti lasciare Skyrim e andarci.”
“Come hai fatto tu?” ribatté lui voltandosi verso di me. “Non saprei nemmeno da dove cominciare.”
“Non puoi saperlo ora ma vedrai che quando sarai pronto lo capirai. Se desideri davvero rivedere il tuo cielo troverai il modo per raggiungerlo.”
Ora fu lui a rimanere spiazzato, ma sorrise per la prima volta da quando lo avevo incontrato. Di lì a poco si addormentò senza che quel sorriso lasciasse il suo volto.
 
La mattina dopo cominciai a preparare il necessario per partire, lui si limitò a trascinare fuori le sue cose dalla tenda, poi si sedette vicino al falò, e per tutto il tempo rimase lì occhi fissi al terreno, le mani sulle ginocchia, l’espressione assente. Solo quando stavo per montare a cavallo alzò lo sguardo e mi chiamò.
Quando mi avvicinai lui ci mise un po’ per iniziare a parlare e non incrociò il mio sguardo.
“Volevo solo ringraziarti, io … non so perché lo hai fatto, ma grazie.”
“Buona fortuna Kar’At.” Gli tesi la mano e lui ricambiò la stretta.
“Beh, niente ragazzo?” chiese sorridendo di nuovo.
“No, non lo sei più.”
Balzai a cavallo e mi allontanai con più velocità di quanto non fosse necessaria per non avere la tentazione di voltarmi indietro.
  
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