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Autore: JS Barrow    17/11/2013    0 recensioni
Era una gelida notte di Dicembre, quella che avvolgeva con il suo nero manto vellutato la città di Budapest, alla fine di quell’ impervio secolo che era stato il 1700.
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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A Winter Fair about love
 
CAPITOLO 1
 
Era una gelida notte di Dicembre, quella che avvolgeva con il suo nero manto vellutato la città di Budapest, alla fine di quell’ impervio secolo che era stato il 1700. Una bianca coltre di neve ricopriva ogni strada e via, ogni casa e tetto, indifferente ai problemi dell’uomo e a quelli del mondo intero. Candidi fiocchi di neve errabondi turbinavano contro le vetture di passaggio per le strade, disperdendosi poi in sprazzi di ghiaccio triturato dalle spesse ruote delle carrozze.
Le lanterne appese ai lati delle insegne delle ultime botteghe aperte sulla via principale, e i  lampioni che bordavano le strade, coloravano fiocamente la nebbia biancastra che si stava alzando dal Danubio, di un tenue giallino spento.
Ogni donna e uomo sapeva esattamente dove andare: chi a casa dalla famiglia, chi in qualche squallida bettola a dimenticare una brutta giornata, chi a mendicare per una misera pagnotta di pane ammuffito. Ma lui no: se ne stava fermo in mezzo a quella strada lastricata di piccoli mattoni scivolosi, perduto in quella nebbia fitta, non sapendo dove dirigere i propri passi.
Per l’ennesima volta si guardò intorno spaesato, cercando disperatamente di capire, di ricordare, dove fosse la sua casa. Gli sarebbe bastato un semplice indizio per poter ritrovare la via giusta, ma nulla gli era amico quella notte, niente gli era familiare:  era come se qualcuno avesse cancellato ogni indicazione da quella strada solo per fargli un dispetto. Si sentiva come Hansel e Gretel, dispersi e soli nel bosco oscuro, dopo che le loro molliche di pane, disseminate per ritrovare la via di casa, erano state mangiate dai corvi.
Dove mi trovo? Perché sono qui?
Erano queste le domande che lui continuava a ripetere a voce alta  come un folle, senza riuscire a trovare riposta alcuna.
Un sferzata di vento gelido lo fece tremare, facendolo quasi barcollare su quel maleodorante marciapiede ed imprecare contro il freddo.
Il suo completo da uomo di alta sartoria era quanto elegante, quanto inadatto al clima impietoso dell’inverno ungherese.
E ora che la neve si era tramutata in una fine pioggerella di aghi ghiacciati,  il tessuto dei suoi indumenti si era impregnato di una gelida umidità che gli stava congelando le ossa, facendogli battere rumorosamente i denti dal freddo.
-  Prenderò una polmonite- imprecò ancora  maledicendo quella città, la neve, e tutte quelle facce all’ombra delle fiaccole che lo scrutavano dagli angoli della strada.
Alcuni tratti di quei volti, deformati dalle tremule fiammelle delle lanterne, gli apparvero come maschere demoniache da cui tenersi alla larga.
Credeva ormai di essersi sbagliato: quella non era Budapest, ma il  centro esatto dell’inferno.
Ma poi improvvisamente, un pungente profumo di mughetto attirò la sua attenzione.
Non capiva da dove provenisse ma gli era familiare, così come quella nenia che sentiva trasportata dal vento.
L’uomo senza ricordi si guardò intorno, cercando di individuare da dove provenisse quella voce melodiosa, ma essa non veniva da una zona in particolare, sembrava come se impregnasse l’aria e si spargesse insieme al vento.
Era proprio come se il vento, stesse cantando per lui.
- Che stregoneria è mai questa, - urlò a pieni polmoni agitando il pugno contro il nulla -  rivelati strega! Fatti vedere e dimmi cosa vuoi da me – berciò infine, ricevendo solo il silenzio come risposta.
Tutto intorno a lui si fermò: il vento non soffiava più, la neve smise di cadere, rimanendo sospesa immobile a mezz’aria. Persino le persone attorno a lui, si erano ammutolite.
E in quell’immobilità che gli toglieva il respiro, apparve una flebile luce azzurra. Diveniva sempre più intensa man mano che passavano i secondi, fino ad illuminare l’intera strada di un algido azzurro cangiante.
L’uomo senza ricordi si avvicinò  titubante a quello scintillio visibile tra la nebbia.
Si piegò sulle gambe rattrappite dal freddo, raccogliendo un piccolo anello con uno zaffiro, incastonato in una montatura finemente rifinita in oro rosso. 
Gli bastò guardarlo per una frazione di secondo, per essere colto da un emicrania terribile che lo fece cadere sulle ginocchia e perdere i sensi immediatamente.
***
Quando si svegliò, l’uomo senza ricordi non era più disperso in quella Budapest fredda e nebbiosa. Era adagiato in un ampio letto, tra morbide lenzuola di seta.
Sopra di sé non aveva un nero cielo senza stelle, ma un soffitto color dell’oro.
Aveva sognato?
Solo adesso si stava rendendo conto che quel delirio infernale, era stato un incubo.
 Il dolore alla testa però era ancora insopportabile, un dolore così acuto da togliergli le forze.
 Ma lui sentiva di doversi alzare e tornare immediatamente a casa sua.
Qualcuno lo stava aspettando e non voleva si preoccupasse.
Gettò le lenzuola da una parte pronto a muoversi, ma stilettate di dolore si propagarono dai suoi muscoli contratti. Si accorse solo in quel momento delle innumerevoli ferite che aveva sul corpo.
-  Ma che diavolo - si chiese cercando di mettersi in piedi faticosamente.
Un capogiro ebbe la meglio su di lui e nel tentativo di reggersi a qualcosa , urtò un oggetto alla sua sinistra, facendolo cadere e frantumare.
E come se non avesse abbastanza problemi, le schegge gli ferirono un piede.
- Dove credi di andare! - gli intimò una voce autoritaria -  rimettiti subito a letto – gli ordinò ancora, mentre lui se ne stava lì, immobile e ad occhi chiusi, cercando di non finire né a faccia in giù, né piegato a vomitare l’anima. 
Si concentrò sui suoi stessi respiri, cercando invano di riprendere il controllo del suo corpo, ma quando due mani piccole e affusolate lo spinsero verso il letto, lui non si oppose.
È meglio che non torni in queste condizioni da LEI. Pensò lui.
Ma quando cercò di ricordarsi chi fosse LEI, si rese conto che la nebbia dell’oblio che poco prima lo aveva oppresso in quel sogno, ora gli era entrata in testa, impedendogli di ricordare qualcuno, che immaginava, fosse molto importante per lui.
- Dove mi trovo?
Una donna lo stava medicando, borbottando qualcosa per lui di incomprensibile e fastidioso. 
L’uomo senza ricordi aprì gli occhi: voleva vedere chi era costei che con tanta non concessa confidenza, si stava prendendo cura di lui.
Sembrava una serva, portava i capelli acconciati di fretta, e dal suo collo non pendevano preziosi monili.
- Allora? Dove mi trovo?- chiese di nuovo bruscamente a quella donna, afferrandole i polsi sottili per fermarla.
Non era in vena di misteri e silenzi, e nemmeno di essere rimproverato da un serva sconosciuta e un po’ troppo zelante.
-  A Budapest, questa è casa vostra, Signore. Siete a Palazzo Van Hoven
Van Hoven.
Il suono delle lettere che componevano quell’altisonante cognome, non gli erano familiari.
Van Hoven era per lui il nome di uno sconosciuto, proprio come gli era estranea quella stanza e il volto di quella donna.
Cercò di sforzarsi per immaginare un nome che si adattasse a quel cognome dall’aria così importante, ma non gli venne in mente nulla.
Nebbia. Sempre e solo nebbia, che impietosa gli occultava ogni ricordo.
-  Hayden Victor Van Hoven è il vostro nome per intero. Conte di Vestfalia e Barone di Boemia sono i vostri titoli.
Hayden ripeté quelle parole nella sua testa, sperando di percepire il barlume di un ricordo, di una vita passata dove era quell’estraneo Conte Van Hoven.
Ma era come essere stato addormentato per tutta la vita, prima di essere risvegliato d’improvviso, in quel letto a baldacchino e in quella camera sfarzosa, con un nome sconosciuto affibbiatogli dalla prima che capitava.
Per la prima volta da quando si era risvegliato, Hayden mise a fuoco il viso di quella donna.
Possedeva capelli neri come le ali di un corvo, e incantevoli occhi di un particolare blu violetto, grossi e magnetici.
-  E tu? Sei la mia serva?
La donna si ritrasse lentamente, sollevando le lenzuola sul petto del suo Signore.
Lo guardò con occhi indecifrabili, prima di sbattere le ciglia lentamente, come se solo adesso si fosse resa veramente conto di ciò che aveva davanti.
-  Scarlet. Il mio nome è Scarlet             
Hayden la osservò, ma nemmeno di lei si rimembrava.
L’unica cosa che continuava a sentire agitarsi dentro di sé, era il desiderio di correre da LEI.
Sentiva che doveva assolutamente lasciare il suo palazzo, per andare a cercarla.
Doveva assicurarsi che stesse bene, che non fosse ferita.
Eccola: di nuovo quell’ esplosione dolorosa alla testa, che gli accecò la mente.
Da essa vennero rigurgitate fuori una miriade di immagini veloci e turbinose, che assaltarono la sua memoria.
Aveva avuto in incidente, la carrozza su cui viaggiava si era ribaltata sul Ponte delle Catene che scavalcava il Danubio separando Buda da Pest.
-  Dov’è LEI?  Come sta?
 Hayden cercò di alzarsi dal letto in preda al panico, e quando Scarlet si avvicinò per sorreggerlo, lui la spinse via con forza  e fastidio.
- Dov’è? Dimmi dov’è?
Scarlet per poco non perse l’equilibrio, urtando contro la pesante scrivania di ottone e legno di frassino.
-  Non ti avvicinare, sta lontana da me - la minacciò mentre afferrava dalla poltrona una camicia bianca che probabilmente gli apparteneva.
- Io non ti conosco, non mi fido di te.
Ma tutto si fece nero, l’acidità gli salì  in gola dallo stomaco, le viscere gli si attorcigliarono facendolo arrancare verso il pavimento.
Scarlet lo prese prima che svenisse e cadesse in ginocchio.
Quando la testa di Hayden si poggiò sul cuscino, l’uomo prese ad agitarsi convulsamente.
-  Sssh. Va tutto bene-  lo rassicurò lei con voce dolce e carezzevole.
Lo stava trattando come un bambino e questo lui non lo sopportava, ma non riusciva ad opporsi al volere di quella tenace domestica.
- Sei licenziata! - borbottò ad occhi chiusi
- Come desiderate mio signore – lo assecondò Scarlet, allungandosi  verso la bacinella dell’acqua ed immergendo una pezzuola.
Dopo averla strizzata con cura, la poggiò sulla fronte bollente di Hayden.
L’uomo rabbrividì ferocemente, mentre calde gocce di sudore gli colavano dalle tempie.
Scarlet si inginocchiò sul pavimento freddo, al fianco del lato del letto dove giaceva Hayden, intrecciando le dita e poggiando i gomiti sul materasso.
-  Salvalo. Ti prego, salvalo
Con un gesto secco delle dita, la fanciulla si asciugò le lacrime che prepotentemente avevano preso a scorrere lungo le guance, senza che potesse trattenerle.
Rimase un tempo interminabile ad osservarlo, contando i sui respiri e stringendo quella mano più grande della sua, fino a quando non sentì le palpebre farsi pesanti.
Non voleva dormire, temeva gli incubi e il gelo della notte, che l’avrebbero fatta sentire più sola che mai.
Il cigolio leggero della porta attirò la sua attenzione.
 Lasciò immediatamente la mano di Hayden e si voltò ad osservare una donna alta e dal portamento autoritario, che le si stava avvicinando.
- Contessa Van Hoven - la salutò
La donna aveva profonde rughe di preoccupazione a solcarle gli occhi, segni che Scarlet mai aveva visto sul quel volto tanto austero, e ne dedusse che fosse anche lei mortalmente preoccupata per l’uomo dal volto cereo, che giaceva tra quelle lenzuola.
- Non puoi restare sul pavimento della sua stanza come un animale. Va a letto, ci penso io.
- Mi ha licenziata - la informò Scarlet in un sussurro tornando a guardare Hayden - lui non ricorda nulla
-  Ricorderà ogni cosa – la rassicurò la donna sorridendole dolcemente e prendendo la mano della giovane nella sua.
Scarlet non aveva la stessa sicurezza della Contessa, avrebbe tanto desiderato averla, ma le bastava guardare l’uomo delirante disteso su quel letto,  per cadere in uno stato di insicurezza e paura mai provato prima.
E se perisce? E se invece sopravvive, ma senza ricordo alcuno?
Scarlet lo aveva sempre visto come la colonna portante di quella famiglia, l’uomo che se lo desiderava, poteva fare tutto quello che si prefiggeva: un uomo capace di uccidere pur di difendere le persone che amava.
Ma vederlo ora, in preda al delirio della febbre alta, così fragile e indifeso, l’annientava.
Avrebbe dato la sua stessa vita per vederlo nuovamente in salute, ed era per quello che pregava ormai da tre giorni: chiedeva a Dio che lo salvasse, che si prendesse la sua vita in cambio, anche se rispetto a quella di Hayden, non aveva un gran valore.
 Ma nonostante le sue preghiere, nessun miglioramento era avvenuto, anzi, al contrario,  sembrava che il suo Signore si ammalasse di più di ora in ora, facendole temere il peggio.
Scarlet si alzò controvoglia dal pavimento, assecondando il volere della Contessa Van Hoven. Cambiò nuovamente la pezzuola sulla fronte di Hayden, prima di afferrare la bacinella d’acqua per prenderne dell’altra più fresca, ma non fece nemmeno tre passi, perché la stanza le ondeggiò dinanzi in modo spaventoso.
- Scarlet vi sentite bene?
La voce della Contessa era distante, sembrava solo un eco lontano.  Voleva risponderle, mentirle, dicendo che stava bene, ma non ci riuscì. Rimase lì ferma,  finché la vista lentamente non tornò a farsi chiara.
- Sto bene -  mentì sorridendo alla donna che ora la sorreggeva.
- Da quanto non mangi? - le chiese la Contessa Van Hoven con tono dolce e preoccupato.
Scarlet non le rispose.
Cosa avrebbe dovuto dirle? Che non mangiava da prima dell’incidente? Che era stata così preoccupata per l’incolumità del suo Signore, da non aver pensato a se stessa nemmeno per un minuto?
Ma alla Contessa non servì alcuna risposta.
Le circondò le spalle con un braccio, e la portò a sedere sul divano accanto al camino.
- Non ti muovere da qui, - le disse con tono fermo  - è un ordine – le intimò autoritaria, quando vide la protesta affiorare sulle labbra di Scarlet.
La donna uscì dalla stanza, lasciandola lì  da sola, ad osservare l’uomo agitarsi nel sonno invocando una donna di cui non ricordava il nome.
Perché era successo tutto questo? Perché quando sembrava andare tutto per il verso giusto, succedeva qualcosa che le ricordava, che non era altro che un granello di sabbia, in balia dei capricci del vento?
Sospirò esausta portandosi le ginocchia al petto, posando poi la fonte sulla spalliera del divano.
Non voleva dormire, ma le palpebre erano troppo pesanti per permettere alla sua volontà fragile di  combattere il loro desiderio di chiudersi.
Solo cinque minuti. Cercò di giustificarsi giocando distrattamente con un campanellino, legato al suo polso con un nastrino scarlatto. Poi torno da Hayden.
Ma nello stesso istante in cui Scarlet pensò razionalmente a  cosa fare, crollò addormentata di colpo, esausta e sfinita.
 
  
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