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Autore: TheGreedyFox    18/11/2013    3 recensioni
Sherlock Holmes è morto.
Lo sanno tutti. Tutta Londra. Tutta la nazione.
Soprattutto lo sa John Watson che ogni mese continua a recarsi sulla tomba dell’amico, in una limousine dai vetri oscurati inviatagli dal fratello di quest’ultimo per proteggere la sua privacy ed il suo dolore.
Eppure, in quello che dovrebbe rivelarsi un triste appuntamento, John scopre che, quando si tratta di Sherlock Holmes, la parola impossibile non esiste, e che la felicità può essere vicina se solo si ha l’accortezza di spingere lo sguardo al di là del proprio naso... oppure... al di là del vetro.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Al di Là del Vetro

 

 

Ormai era diventata un’abitudine.
La limousine nera che si fermava davanti a Baker Street, lui che si scostava veloce dalla finestra per prendere la giacca, Mycroft che gli mandava un sms sul cellulare, a volte per avvisarlo di essere arrivato, esortandolo così a scendere, altre volte per scusarsi di un imprevisto occorso all’ultimo momento e pregarlo di andare lo stesso, senza di lui, utilizzando comunque la sua auto, in modo che la visita potesse svolgersi, come al solito, in totale discrezione.
A detta di Mycroft, anche se la notizia era ormai vecchia e non faceva più clamore, in giro c’erano ancora alcuni fotografi senza scrupoli a caccia dello sgomento e del dolore che lo spettacolare salto nel vuoto di Sherlock si era lasciato alle spalle. Quindi, da uomo previdente qual era, dopo la tragedia Mycroft aveva ritenuto più prudente suggerire a John di recarsi sulla tomba di Sherlock insieme, non più di una volta al mese, nella sua macchina governativa dai vetri oscurati che assicurava a John privacy e protezione.
Come John ben sapeva, Mycroft Holmes era l’ultimo uomo al mondo che chiunque volesse ancora lavorare sul suolo inglese potesse desiderare come nemico... quegli sciacalli non avrebbero osato disturbarli oltre.
Era diventata quindi una consuetudine per loro due, un appuntamento che si ripeteva ogni mese, come se entrambi avessero bisogno di quella visita per continuare a ricordare che era tutto vero, che Sherlock non era chissà dove a vivere una delle sue rocambolesche avventure... Sherlock se n’era andato, lasciandoli con nient’altro che una tomba scura.
Il tragitto fino al cimitero veniva sempre percorso in silenzio, perché Mycroft aveva una nazione da mandare avanti e non riusciva mai a liberarsi totalmente da dispacci da dettare, documenti da leggere, mail da inviare e John... John guardava semplicemente fuori dal finestrino, lo sguardo che vagava stanco su una Londra ignorante e ingrata che ormai da tempo non riusciva più a sentire sua.
Quella non era la Londra che aveva percorso in lungo ed in largo seguendo Sherlock nelle sue indagini, bellissima e misteriosa, tutta vicoli fumosi e taxi neri, quella era una Londra che, nel momento di maggior pericolo, non era riuscita a vedere al di là del suo naso e aveva condannato Sherlock a quella fine ingloriosa. Una Londra che aveva seppellito il ricordo del suo uomo migliore senza rivolgere uno sguardo a quanto quell’uomo avesse fatto per lei ma gli aveva invece voltato le spalle.
L’aveva lasciato solo.
E John questo non poteva perdonarglielo.
Durante quel breve viaggio, che li portava verso la tomba del suo amico, il cuore di John era sempre irrimediabilmente ombroso, arrabbiato, ce l’aveva con la città, con la nazione, con il mondo intero... perché Sherlock non meritava ciò che gli era accaduto e John non riusciva proprio a farsene una ragione.
Riusciva a calmarsi solo quando arrivavano in vista del cimitero, lì allora, miracolosamente, i suoi pensieri cambiavano, smettevano di tingersi di rabbia e correvano a Sherlock, solo a Sherlock, il suo amico, e a quello che loro due avevano condiviso un tempo. A John mancava tutto di quell’egocentrico stacanovista, i suoi sms perentori, il suo sentirsi sempre annoiato, persino i resti umani che lasciava nel frigo...
E John si stupiva sempre di come quelli che una volta aveva considerato difetti, quelli contro cui aveva sbuffato e protestato, alla fine gli si fossero inaspettatamente impressi nel cuore, offuscando tutto, perdendo ogni connotazione negativa, parlando solo dell’uomo al quale aveva voluto bene.
Potendo, John si sarebbe ripreso Sherlock così com’era. Anche ora. Subito.
Senza un attimo di esitazione.

La visita alla tomba era sempre breve.
Lui e Mycroft, una volta davanti a quel marmo nero e a quelle lettere d’oro, così grandi e sfacciate da sembrare una bugia, era come se non sapessero bene che fare, forse tutti e due troppo imbarazzati dalla presenza dell’altro, forse entrambi consapevoli dell’inutilità di quella visita e desiderosi solo di tornare indietro.
Mycroft non tornava mai con lui a Londra.
Di solito c’era sempre una seconda macchina che arrivava per portare John a casa, mentre Mycroft si dirigeva verso l’aeroporto pronto a partire alla volta di Mosca, Parigi, Dublino.
Quello era il momento che John preferiva.
Quello in cui saliva nella comoda limousine e Barty, l’autista di Mycroft, lo salutava ogni volta nello stesso modo, attraverso l’interfono della macchina, con quella sua voce un po’ gutturale, come se avesse perennemente il raffreddore.
Una voce artefatta. Teatrale.
- Buongiorno Sir, dove la porto? –
E John, che a quel punto non aveva mai voglia di tornare a casa, gli indicava una zona a caso della città, una zona molto lontana, inventandosi ogni volta una scusa qualunque per giustificare quella deviazione.
Barty non commentava mai.
John se lo immaginava sorridere da dietro il vetro attraverso il quale lui riusciva solo a scorgere la sua uniforme, il cappello con visiera poggiato sui capelli scuri, le sue mani che tenevano il volante.
In quei diciotto mesi, in tutte le volte che l’uomo l’aveva riaccompagnato a casa dopo quelle visite al cimitero, di Barty John non aveva praticamente visto altro che la nuca e quelle mani lunghe e affusolate che sembravano stringere il volante come l’archetto di un violino.
Barty non si voltava mai per salutare, non scendeva mai ad aprirgli la portiera, John non riusciva neanche a scorgere il suo viso dallo specchietto retrovisore, nascosto dall’ingombrante visiera, però a lui andava bene così. In fondo, per quanto doveva saperne lui, Barty non era che un semplice autista e John sapeva per istinto che certe barriere non andavano oltrepassate, anche se lo si voleva, anche se la barriera in questione non era altro che una vetro sottile che separava l’abitacolo dal resto della limousine.
Era sempre Barty ad iniziare la conversazione, quasi come se il silenzio prolungato di John gli pesasse. Come se l’aria fosse più fredda senza le sue chiacchiere a scaldarla un po’.
- Passato un buon mese sir? –
Era la domanda che John aspettava.
E quando Barty gliela poneva, allora John si metteva a parlare, a parlare davvero, come non gli capitava mai in nessun altro giorno e con nessun altro, né con Greg, né con Mrs. Hudson, neanche con Mary... Come se finalmente potesse dire tutto, senza trattenere nulla, senza preoccuparsi di ciò che l’altro avrebbe pensato...
Chiuso in quell’auto scura, neanche fosse un confessionale, John raccontava a Barty della sua vita, di ciò che gli capitava, dei suoi pazienti, delle sue ragazze, del suo libro... di come era stato ricostruirsi una vita da zero dopo tutto quello che era accaduto.
Barty cercava sempre di ascoltarlo il più a lungo possibile, senza intervenire, e John apprezzava incredibilmente lo sforzo che l’altro sembrava impiegare per non rispondergli punto su punto come forse gli sarebbe piaciuto.
La sua persona però lo tradiva comunque.
Nonostante i silenzi dell’altro, John aveva imparato da tempo a decifrare tutti i segnali che quella figura girata di spalle lanciava muta durante i suoi racconti e quindi John sapeva sempre ciò che Barty pensava di ciò che gli diceva, senza bisogno di parole.
Quando non era d’accordo con lui Barty muoveva appena le spalle, sistemandosi l’uniforme come se fosse quella, e non le parole di John, a dargli fastidio. Quando riteneva che John avesse detto un’immensa scempiaggine, l’autista alzava per un secondo il volto al cielo ed i ricci sulla sua nuca, schiacciati dal pesante cappello, sembravano alzarsi ed arricciarsi come non mai, quasi fossero irritati anche loro. Quando invece sorrideva, in quel modo discreto e sornione che John non aveva difficoltà ad immaginare, lo si vedeva inclinare un po’ il capo e per un attimo cercare rifugio con lo sguardo fuori dal finestrino e coprirsi veloce la bocca con la mano, come se volesse mascherare il piacere o l’emozione.
Come se certe debolezze non fossero degne di lui.
E il cuore di John si incrinava sempre un po’ a quella vista. Perché era familiare. Perché sapeva di passato.
Comunque Barty non restava sempre in silenzio.
Spesso aveva un’opinione molto precisa su come dovesse svolgersi la vita di John, e non si tirava certo indietro dall’esprimerla quando riteneva che fosse il caso.
Quando John aveva comunicato a Barty il suo desiderio di scrivere un libro che narrasse la vicenda di Moriarty dal proprio punto di vista, così che almeno parte del pubblico britannico venisse a sapere la verità, Barty l’aveva gelato con un sorprendente quanto inatteso:
- Non credo che sia una buona idea sir. Sono sicuro che non porterebbe a nulla di buono. –
Non aveva aggiunto altro, accantonando la questione come fosse cosa di poca importanza e non un progetto in cui John aveva deciso di buttarsi anima e corpo per cercare di correggere almeno un po’ il terribile torto che Sherlock aveva subito... e John c’era rimasto male, almeno fino a quando Barty non aveva aggiunto:
- Però mi piacerebbe davvero leggere un libro del genere sir... sarebbe una lettura quantomeno interessante... John Watson contro il mondo intero... Difensore della verità... Sapete, non lo credevo possibile... ma mi manca leggere il vostro blog... –
L’ultima frase l’aveva quasi mormorata, come se fosse un’ammissione che gli costasse fare senza però riuscire a convincersi a non farla.
John, a quel commento, aveva sentito un teporino nascergli nel petto e tutto contento gli aveva risposto:
- Beh... Barty... allora continuerò a lavorarci... magari lo farò leggere solo a te... –
Barty allora si era lasciato scappare un piccolo suono, come una risata appena accennata. Poi erano entrambi rimasti in silenzio. Per tutto il viaggio.
Soddisfatti.
In pace.
Quando invece John gli aveva parlato di Mary, Barty all’inizio non aveva fatto una piega, aveva solo ascoltato il dottore raccontare di questa ragazza dagli occhi chiari che per qualche motivo sembrava averlo scelto tra tanti, questa meravigliosa ragazza che John non credeva di meritare e che invece un giorno gli aveva preso la mano e non l’aveva più lasciata andare.
Quando aveva iniziato il discorso John non si era mai sentito tanto nervoso, timoroso di vedersi voltare le spalle proprio quando aveva bisogno di un amico. Mentre parlava di Mary però aveva dimenticato l’iniziale agitazione e si era messo a raccontare di lei con un leggero sorriso stampato in viso, che non era riuscito a far sparire, neanche volendolo, neanche impegnandosi.
Barty, quando John, stanco del suo silenzio, gli aveva infine chiesto un’opinione, aveva dimenticato per un attimo la sua imperturbabile riservatezza e si era quasi voltato a guardarlo, riprendendosi giusto in tempo e ritornando fulmineo alla sua posa vigile e compassata. In quel suo momento d’incertezza, John era riuscito ad intravedergli la guancia... era liscia, giovane e senza un filo di barba, la pelle così bianca da sembrare irreale. Però John non se n’era stupito, perché sapeva bene che al mondo poteva esistere una pelle così.
- Sono felice per voi sir. È bello che abbiate qualcuno accanto. –
Quella era stata l’unica volta in cui John aveva dubitato delle parole di Barty e di quel tono contratto, di circostanza, che aveva contraddistinto la sua risposta... però si era detto che non avrebbe dovuto stupirsene.
Forse Barty, come tutte le persone troppo sole, temeva un po’ quella nuova presenza che sembrava minacciare quel loro tranquillo tran tran.
Tornato a casa John si era addirittura detto che era andata molto meglio di quanto si sarebbe aspettato.
Si sbagliava.
Dal mese successivo Barty non aveva più smesso di cercare di mettere in cattiva luce Mary, come se un diavoletto dispettoso gli avesse morso il naso ed ora lui stesse cercando di sfogare in qualche modo la sua frustrazione. Piccole domande, piccole allusioni, tutto pur di rendere la fidanzata del dottore sempre più distante da quell’immagine di dolcezza e perfezione che il suo innamorato aveva di lei.
Per John, dire che un tale atteggiamento fosse infantile era dire troppo poco.
Però aveva sopportato, perché sapeva che lo sbaglio era stato suo, che era stato uno sciocco ad aspettarsi qualcosa di diverso. Forse non avrebbe dovuto raccontargli di Mary. Non adesso.
Non quando lui aveva così poco.
Da quel giorno aveva smesso di parlare della sua ragazza come se fosse l’unica stella in cielo e si era limitato ad aggiornarlo sul progredire della loro relazione dicendo che andava tutto bene e che non c’era nessun cambiamento.
Barty, dal canto suo, sembrava essersi calmato.
Ma John sapeva che quella partita era solo rimandata. E lui non vedeva l’ora di giocarla.
E poi c’era stata quella volta. La prima. Quella che aveva confermato (se ancora ce ne fosse stato bisogno) tutti i dubbi di John.
Quando, pochi mesi dopo la scomparsa di Sherlock, John aveva parlato con Barty dei suoi dubbi sull’opportunità di restare ad abitare a Baker Street, per la sorpresa il giovane autista era quasi saltato sul sedile e la sua voce aveva perso per un attimo quel tono nasale che divertiva tanto John, diventando più rotonda, più affascinante, e molto, molto più decisa.
- Secondo me sarebbe un grande errore sir. –
John era rimasto in silenzio, sorpreso da quella prima, sfacciata ingerenza in qualcosa che, in teoria, non avrebbe dovuto riguardare affatto un semplice autista di limousine.
Barty per un po’ era sembrato intenzionato a non aggiungere altro, poi aveva continuato, la voce di nuovo ovattata, il tono più calmo: - Mi sembra di capire che abbiate un vantaggioso contratto d’affitto e che la vostra padrona di casa sia una vera signora. Non sono cose da sottovalutare di questi tempi. –
A John quella giustificazione aveva fatto venir voglia di ridere e non aveva resistito al desiderio di provocarlo un po’.
- Beh, Mrs. Hudson è una vera lady e questo non si discute, inoltre prepara dei fantastici biscottini per il tè... in quanto però al vantaggioso contratto d’affitto non saprei... una volta potevo permettermi quell’appartamento perché dividevo le spese con un coinquilino, adesso che sono solo però il 221B di Baker Street comincia a pesare sul mio modesto salario... Forse dovrei davvero andarmene. –
Detto questo aveva emesso un piccolo, calcolato sospiro ed aveva guardato pensoso e scontento fuori dal finestrino, come se davvero stesse meditando un trasloco.
Barty si era irrigidito ancora di più se possibile e le sue mani avevano stretto il volante con una forza sorprendente.
- Come le ho detto, sir, secondo me non è una decisione da prendere alla leggera... Potreste sempre tornare a vivere con qualcuno sir, allora l’affitto non sarebbe più un problema... –
John allora si era intenerito, perché nelle sue burle non se la sentiva mai di sbatacchiarlo troppo a lungo.
- Non desidero un altro coinquilino. Non riuscirei più a trovare qualcuno che si adattasse come un guanto all’idea di convivenza che ho in mente. Quel capitolo della mia vita si è chiuso e non si ripeterà. –
Ed era rimasto col fiato fermo in gola, in attesa di sentire come l’autista avrebbe ribattuto.
Barty allora si era schiarito la gola e aveva risposto un semplice ma enigmatico:
- Non si sa mai sir. Non si sa mai. –
A John non era servito altro. La questione si era chiusa così.
Naturalmente non aveva abbandonato Baker Street e dopo poco aveva scoperto da Mrs. Hudson che il motivo per cui lei gli stava dimezzando l’affitto era che Mycroft Holmes in persona aveva pagato in anticipo metà dell’affitto di John per quasi due anni.
Lui non aveva commentato la notizia, non si era sorpreso né aveva protestato come forse Mrs. Hudson si sarebbe aspettata, però quel pomeriggio era rimasto a lungo seduto in poltrona, intento a guardare il posto vuoto davanti al suo.
Due anni...
Molto più di quanto si sarebbe aspettato...
Da allora John aveva iniziato ad aspettare le visite alla tomba di Sherlock con maggior impazienza, consapevole che, forse ancora per molto tempo, non avrebbe avuto altro.

Che Barty non fosse chi diceva di essere, John se ne accorse al loro terzo incontro.
John non ne andava fiero.
Si rimproverava sempre che avrebbe dovuto capirlo molto prima, magari solo osservando quelle spalle magre strette nell’uniforme, quel collo incredibilmente lungo che svettava oltre il colletto della camicia o quelle dita eleganti che sembravano capaci di stringere una pistola con la stessa grazia di una tazza di tè. Così non avrebbe sprecato le prime due volte in sua compagnia parlando del tempo, del traffico e della maleducazione degli automobilisti.
Sherlock doveva essersi annoiato da morire.
Quel giorno pioveva forte, erano passati solo tre mesi dalla (a questo punto presunta) morte di Sherlock e John si sentiva più a pezzi che mai. Era una di quelle volte in cui Mycroft non s’era fatto vedere, quindi Barty non era arrivato sul posto in un secondo momento sulla limousine di scorta ma era andato a prenderlo direttamente a Baker Street e poi l’aveva atteso mentre John porgeva il suo saluto mensile alla tomba dell’amico, pronto a riportarlo indietro.
John, durante quella visita (lo ricordava bene perché era stata l’ultima volta in cui aveva compiuto quel gesto), si era avvicinato alla lapide per sfiorarla con una mano, come faceva sempre prima di tornare a casa, in cerca di un ultimo, disperato contatto col suo amico, qualcosa che attutisse il suo dolore.
Il freddo gelido di quel marmo però non aiutava mai.
Parlava solo di morte, di pioggia e di qualcosa di rotto, qualcosa che non si poteva aggiustare, a cui non si poteva porre rimedio.
Era tornato alla macchina col passo pesante, la mente oscurata da pensieri crudeli che gli turbinavano intorno come foglie secche innervosendolo e rallentandogli il passo, facendolo zoppicare di più.
-Tutto bene sir? – aveva chiesto Barty una volta che John era salito in macchina, e John si era detto che se persino l’autista si era accorto del suo stato, allora doveva essere messo molto peggio di quanto gli piacesse pensare.
- No Barty, non sto bene. Ma grazie per averlo chiesto. – Gli aveva risposto lui, educato.
Arrivati a quel punto, che senso aveva mentire?
Non c’era cura per ciò che provava, non c’era soluzione, il dolore, lo sapeva, gli aveva scavato solchi sul viso e nella voce, gli si era impresso addosso così che tutti potessero vederlo, rendendolo più vecchio e stanco, più solo.
- Un po’ di musica sir? –
John si era riscosso dai suoi pensieri ed aveva cercato la figura di Barty oltre il vetro.
Le parole dell’autista l’avevano sorpreso.
Non era un tipo loquace quel Barty, come Anthea, come tutti i dipendenti di Mycroft ora che ci pensava... ma forse, da un frequentatore del Diogenes Club, in cui il silenzio era condizione sublime, non avrebbe dovuto aspettarsi nulla di diverso.
Barty, dal canto suo, non aveva praticamente atteso la sua risposta e, di sua iniziativa, aveva messo su un cd preso dal cassetto del cruscotto. John aveva riconosciuto la melodia in neanche due secondi. Mendelssohn. Lieder Ohne Worte, Canzone senza parole. Arrangiamento per violino.
Quella musica John la conosceva bene.
Sherlock gliela suonava sempre quando John non ne poteva più di sentirlo insistere con i suoi astrusi virtuosismi e le sue esecuzioni impossibili che riuscivano solo a fargli venire il mal di testa.
Quella familiare melodia salì come nebbia nello spazio ovattato della limousine, facendogli sentire freddo e facendogli male al cuore, perché era troppo bella e troppo triste, perché parlava di loro due, delle loro poltrone una di fronte all’altra, degli alambicchi di Sherlock abbandonati in giro per casa e di ciò che aveva significato per John dividere quell’appartamento con l’uomo più ingestibile d’Inghilterra, quello che, nel giro di una notte, era diventato il suo migliore amico.
Della vita meravigliosa che lui gli aveva regalato.
John si chiese se si trattasse di una sciocca burla o di un goffo tentativo di Mycroft per tirargli su il morale. Se il fatto di istruire il suo autista perché gli facesse ascoltare quella musica che gli avrebbe ricordato Sherlock fosse un suo modo confuso e sadico per farlo sentire meglio.
Poi lo notò.
Notò quel capo seminascosto dal cappello muoversi leggero a tempo con la musica, in un gesto aggraziato che lui conosceva, perché l’aveva visto mille e mille volte quando Sherlock decideva di non suonare e si sedeva, stranamente pacifico, ad ascoltare i Lieder con lui. Vide le dita dell’autista tamburellare precise sul volante, come solo un musicista avrebbe potuto fare e sentì Barty canticchiare sottovoce, un suono sommesso, appena udibile, accompagnare quei passaggi che Sherlock aveva amato e che aveva canticchiato proprio in quel modo, mentre John leggeva tranquillo il giornale accanto a lui.
E allora l’aveva riconosciuto.
La figura magra, i capelli ricci, la pelle chiara, tutto.
Aveva riconosciuto Sherlock Holmes.
L’uomo che lui credeva essersene andato per sempre ed invece era proprio lì, ad un braccio da lui.
John per un momento, un momento lunghissimo, aveva smesso di respirare, troppo sconvolto e affascinato, troppo incredulo e spaventato, troppo felice, felice in un modo quasi doloroso, quasi imbarazzante. Bellissimo.
Gli era sembrato di cadere, il respiro che annaspava su per la gola in cerca di una spiegazione, una spiegazione qualunque, qualcosa che potesse saziargli il cuore, quel cuore che batteva così tanto da impedirgli di pensare, di farsi domande, di gridare.
Alla fine però l’indole del soldato aveva avuto la meglio su di lui, John era riuscito a restare padrone di sé, aveva stretto forte la mano sulla maniglia della portiera e si era morso un labbro per impedirsi di dire qualunque cosa.
Per una volta il suo cervello si era mosso più svelto del suo cuore e il suo istinto l’aveva fatto rimanere impassibile a guardare mentre la ragione gli suggeriva di non proferire verbo.
Sherlock era vivo.
Era vivo!
Ed era lì con lui, al di là del vetro. Come il mese precedente e quello ancora prima.
Come quello ancora prima...
Già...quella era la terza volta che si rivedevano... e lui non gli aveva detto una parola.
- Chiamatemi pure Barty, sir. –
Così si era presentato, senza guardarlo negli occhi, senza tendergli la mano.
Barty. Non Sherlock.
Non Sherlock.
Cosa significava?
La risposta poteva essere una sola.
Che Sherlock non poteva tornare, non veramente.
La sua morte era stata solo una montatura, un piano astuto e lungimirante che aveva messo in scacco l’intera nazione, la risposta della mente geniale di Sherlock alle accecanti bugie che Moriarty aveva gettato come coriandoli in faccia a tutti loro.
Moriarty però, lui sì, era morto.
Quindi perché non svelare tutta la verità? Perché non voltarsi e dirgli: “Sono io John. Sono tornato. Che bello rivederti” ?
Perché continuare con quella mascherata?
John non riusciva a capire.
Di una cosa però era sicuro: Sherlock non faceva nulla senza una ragione. Quindi John aveva deciso di fidarsi, aveva ingoiato le sue domande e le sue deduzioni, aveva allentato la presa sulla maniglia e aveva scelto di continuare quella recita senza copione di cui Sherlock e Mycroft l’avevano reso protagonista ignaro.
Sherlock voleva giocare, forse per divertimento, forse per salvargli la vita, e John, come sempre, sarebbe stato al gioco, in nome della fiducia che riponeva in lui.
A quel punto “Barty”, interrompendo il corso dei suoi pensieri, gli aveva chiesto di nuovo:
- Tutto bene, sir? –
Aveva pronunciato quel “sir” con un’ inflessione ironica nella voce, quasi con scherno, segno che aveva capito benissimo ciò che John stava passando e avrebbe potuto dirgli il secondo esatto in cui l’aveva finalmente riconosciuto senza neanche dover sforzare troppo le sue incredibili capacità deduttive.
John allora aveva sorriso, un sorriso troppo ampio, luminoso, che gli aveva tirato la pelle e fatto dolere i muscoli del viso, perché era davvero troppo tempo che non sorrideva così...
- Sì Barty, va tutto bene. Va tutto a meraviglia. –

- Tutto bene, sir? –
La voce nasale di Barty/Sherlock riscosse John dai suoi ricordi.
Era passato ben più di un anno da quando John aveva iniziato a partecipare volontariamente a quel teatrino e se fino ad allora era riuscito a capire il fatto che Barty non scendesse mai dalla macchina, che non lo trattasse con troppa confidenza, che mantenesse una postura seria e si fingesse in tutto e per tutto un autista, in fondo, per quel che ne sapeva lui, in qualunque momento potevano venir seguiti, spiati, intercettati... però del perché sentisse il bisogno di continuare a camuffare la sua voce beh... quello John proprio non se lo spiegava.
Era una delle tante stranezze di Sherlock, forse lui si divertiva addirittura... la verità era però che a lui la voce di Sherlock mancava. Gli mancava molto.
Non gliel’avrebbe mai detto naturalmente.
Non era una di quelle cose che si potevano ammettere così, come nulla fosse.
Alzò gli occhi sullo specchietto retrovisore, cercando magicamente di superare l’enorme visiera del cappello troppo grande che gli precludeva la possibilità di guardare Sherlock dritto in volto, sperando di incrociare almeno i suoi occhi una volta tanto... John quasi non ne ricordava più il colore.
Fallendo miseramente il tentativo, lo sguardo gli cadde sul polso di Sherlock, che sbucava bianco da sotto l’uniforme, vistosamente ferito, anche se in via di guarigione.
Il cuore di John si contorse un po’.
Non era insolito che Sherlock si presentasse con quelle ferite.
Una volta un taglio su una mano, un’altra una bruciatura sul collo e una volta gli era sembrato di scorgere un livido su quel po’ di zigomo che era riuscito a sbirciare.
John a volte aveva la sensazione che Sherlock esistesse per lui e solo per lui, all’interno di quella macchina, e che svanisse come per incanto non appena lui saltava giù.
Quelle ferite però gli ricordavano che non era così.
Che Sherlock probabilmente stava combattendo una sua guerra di cui John non sapeva nulla, dalla quale si sentiva escluso, e non sapeva mai se sentirsi grato per questo o se fargliene una colpa.
Poi però lo sentiva una volta di più informarsi sulla sua vita con quel tono curioso, sinceramente interessato, e allora John dimenticava ogni rancore e non riusciva a negargli niente, finiva per raccontargli ogni cosa, senza eccezioni.
- Quindi sir? Va tutto bene? – Era come un cane da caccia. Una volta puntata una preda, non mollava facilmente.
- Sì Barty grazie, va tutto benissimo –
- Eppure non sembrate felice, sir. – Ecco, quello era un altro suo vizio. Gli piaceva accertarsi che John sentisse la sua mancanza. Non gli permetteva mai di cavarsela facilmente. Voleva sentirglielo dire.
Voleva che lo ammettesse.
E perché non avrebbe dovuto? A dir la verità, John si sarebbe stupito del contrario.
Quindi l’accontentava, rispondendogli ciò che voleva sentire, che poi non era altro che la verità.
- Hai ragione, Barty, non sono del tutto felice... è per via del mio amico... quello che vengo ogni mese a trovare... perché vedi... mi manca moltissimo. –
A quella frase Barty esitava sempre un po’ a rispondere, come se la voce gli si incastrasse in gola.
- Sono convinto che, ovunque sia, anche lui sente la vostra mancanza. –
Ecco, forse era quello il motivo per cui poi gli perdonava tutto.
Perché Sherlock era anche così.
John allora non riusciva a trattenere un sorriso, perché davvero non si addiceva a Sherlock diventare sentimentale. E questo valeva anche per lui naturalmente... ma quella in cui si trovavano era una condizione straordinaria e quindi servivano misure straordinarie. Nessun filtro. Nessun imbarazzo. Quindi continuava, la voce più dolce, intenerita, affezionata.
- Ciò in cui io spero sempre è che, ovunque lui sia, stia bene. –
Quella era l’unica velata domanda sulla sua vita che John si permetteva. L’unica a cui sapeva Sherlock avrebbe risposto.
- Sono convinto che sia così sir. –
Quindi stava bene. Senza nome, senza casa, sempre a correre di fianco al pericolo, certo. Ma stava bene.
E poi John gli chiedeva ciò per cui in realtà tornava ogni mese, in qualunque circostanza e con qualunque tempo, la domanda che più contava.
- Tu credi che possa esserci vita dopo una morte come la sua Barty? Pensi che un giorno lo rivedrò? –
Barty diventava sempre mortalmente serio mentre gli rispondeva, come se, non potendolo guardare in viso, volesse impedire a qualunque sfumatura della sua voce di trarre John in inganno, fargli credere che non stesse dicendo la verità.
- Ne sono certo sir. Un giorno lo rivedrete. –
Lo diceva come Sherlock avrebbe asserito di non sopportare la noia o di essere l’unico consulente investigativo al mondo.
Come un dato di fatto.
- Presto? – Non poteva fare a meno di aggiungere John, speranzoso.
Barty restava in silenzio un secondo di troppo, come se gli pesasse fare quell’ammissione, e in cuor suo desiderasse invece dargli una risposta diversa.
- Al momento giusto sir. Al momento giusto. –
Affrontavano quella conversazione sempre quando erano ormai arrivati davanti casa di John.
A quel punto il sempre composto dottor Watson si lasciava scappare un piccolo sospiro rassegnato ed apriva la portiera rivolgendogli un ultima domanda.
- Va bene Barty. Ho capito. Al mese prossimo? –
- Al mese prossimo sir. –
Era sempre dura decidersi a uscire da quella maledetta macchina. Il coraggio però, alla fine lo trovava sempre.
- Stammi bene amico. – Gli diceva scendendo, facendo cadere per un attimo la maschera del semplice passeggero, e gli dispiaceva sempre che ci fosse quel dannato vetro tra loro due, perché, almeno una volta, avrebbe voluto potergli mettere una mano sulla spalla e stringergliela appena, per salutarlo, per augurargli ogni bene, per assicurarsi che fosse veramente lì.
- Anche voi dottor Watson. Anche voi. – Rispondeva Barty, vagamente emozionato anche lui, o forse era solo John che vedeva ciò che voleva vedere.
Poi John chiudeva la portiera e restava sul bordo del marciapiede, un sorriso triste dipinto sul viso, ad osservare l’elegante limousine che spariva tra le trafficate strade di Londra, portando il suo amico verso pericoli che John ignorava e dai quali poteva solo sperare di vederlo tornare.
Era grato a Sherlock per quelle loro chiacchierate, era grato che rischiasse tanto solo per presenziare una volta al mese a quel loro strano appuntamento, era grato che non l’avesse chiuso fuori, che non l’avesse condannato a vivere col dolore freddo e insensato di quella sua assurda morte cucito addosso.
Se Sherlock non avesse architettato quell’escamotage per dimostrargli di non essersene andato, John non era sicuro che sarebbe riuscito a rimanere se stesso. Non dopo quello che era successo. Non dopo tutto quell’orrore e quell’ingiustizia.
Sherlock l’aveva salvato dal suo stesso dolore. Come un vero amico.
Ripensò alle mani di Sherlock che tenevano il volante, al suo polso ferito, ai suoi riccioli scuri sotto il cappello. Non c’era da ingannarsi.
Sherlock Holmes era vivo e vegeto e lui l’avrebbe rivisto ancora, e poi ancora, e poi ancora, finché un giorno sarebbe tornato davvero, ed allora sarebbe stato tutto come una volta.
Lui aveva promesso.
Allora, con quel pensiero a tenergli caldo il cuore, John si incamminava verso Baker Street, mentre pian piano la nebbia umida di Londra iniziava a salire.

Fine.


 

Questa è la mia seconda fan fiction su Sherlock.
L’idea mi è venuta ripensando alla scena della puntata 2x03 in cui Mrs. Hudson e John vanno insieme al cimitero a visitare la tomba di Sherlock e per un attimo si vede la loro immagine attraverso lo specchietto retrovisore dell’auto.
Era da un po’ che mi frullava in testa l’idea di scrivere una storia in cui Sherlock non chiudeva fuori John, non lo lasciava all’oscuro ma lo metteva a parte del suo essere sopravvissuto, cercando poi un modo discreto per continuare a frequentarlo, sempre in linea con l’idea che lui non potesse semplicemente tornare a Baker Street perché c’erano ancora i complici di Moriarty da sgominare.
Diciamo che a quel punto ho unito le due cose e mi è venuta in mente questa storia dolceamara, in cui Sherlock e lì ad un passo ma John non può raggiungerlo davvero, separato da quel vetro che è sì una barriera fisica ma è anche molto, molto di più. È l’impossibilità di far tornare le cose com’erano addolcita dalla speranza in un futuro sempre più vicino, che potrebbe ripagarli entrambi di tutto ciò che hanno patito.
L’importante per loro, in fondo, è essere insieme.
Perché la macchina, l’uniforme, la voce contraffatta e quel vetro potranno essere anche semplici oggetti di scena, però l’affetto che lega Sherlock e John è reale, e il fatto che l’uno abbia ancora l’altro, è l’unica cosa che conti.
Ho scritto questa storia in tre giorni però senza neanche accorgermene mi è entrata nel cuore, quindi spero davvero che vi sia piaciuta e mi farebbe piacere conoscere la vostra opinione in merito. Lasciatemi pure qualunque pensiero, domanda o critica, risponderò a tutti con gioia!
Un abbraccio!

Sofy

P.S. Per chi volesse ascoltare la Lieder Ohne Worte che ho citato nel racconto, ecco il link su youtube: http://m.youtube.com/watch?v=nEealgOO3ik. Nella prima avventura di Sherlock Holmes scritta da sir Arthur Conan Doyle, “Uno studio in rosso”, Watson cita i Lieder di Mendelssohn. Ora io non so a quale si riferisse con esattezza, ho cercato di documentarmi ma ho trovato pareri molto discordanti, quindi ho deciso di fare di testa mia, ho trovato questo pezzo stupendo e me ne sono innamorata, spero piaccia anche a voi!

  
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