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Autore: Emrys_____    19/11/2013    6 recensioni
Sei stato un dolore eterno ma nessuno, mai, mi ha fatto sentire tanto l’eco di me stesso.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessuna stagione
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Giusto per precisare, questa shot rientra nel contesto di Take Heart, l'ultima long merthur che ho scritto dopo il dannato finale della BBC. U__U

 

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“A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.”

                  Dostoevskij

   

 
Salvami
 
 
La pioggia acuiva i contorni delle cose, li evidenziava con estrema precisione, almeno per lui.
Si era reso conto di amare la tempesta.
E non lo aveva capito quando a Camelot restava intrappolato nello studio di Gaius, il profumo delle erbe a circondarlo e mille storie contenute in altrettante pagine di vecchi libri.
Aveva capito di amarla perché era il solo sconvolgimento naturale a scuotere Avalon e gli permetteva di avvicinarsi di più, ma solo un poco.
Da quando i secoli si erano accumulati in una sola linea senza fine, Merlino si era reso conto di non conoscere affatto se stesso, di aver capito molto poco i limiti verso i quali poteva spingerlo la disperazione. 
Aveva visto succedersi epoche, cose cambiare, giornate finire e ricominciare d’accapo e mai una sola volta aveva pensato che il suo proposito fosse insensato. Voleva sfondare quel confine, distruggere quella infida terra fino a prosciugarne le acque, affondare le mani fra le pietre e polverizzarle.
O morirci dentro.
La cosa che più lo rattristava quando si specchiava in quel tappeto di stelle riflesse, era che nonostante il suo corpo fosse quello di una persona anziana e il suo animo fosse altrettanto stanco, dentro percepiva la sua condanna più grande: il fato gli aveva donato la forza di sopportare, di continuare a chinare il capo all’ennesima giornata senza scopo, ad affogare le parole su carta, a guardare il sole consumarsi senza che lui avesse fatto ritorno.
Poteva fare tutto questo e ricominciare d’accapo ad una nuova alba, con Avalon a tenerlo lontano e solo la tempesta a costituire un ponte che sperava, avrebbe lenito il dolore con amorevole e infinita dolcezza.
Ma il rombo dei tuoni quella notte era potente e il cielo rovesciava acqua più fitta dell’oscurità.
E lui stava correndo, dritto verso le acque, consapevole che una forza immensa lo avrebbe respinto a pochi passi ma quella manciata di terra regrediva quando il luogo di riposo degli immortali veniva scosso dalla natura.
C’era magia nel vento, nei tuoni e se davvero lui era l’essenza della magia stessa allora avrebbe potuto convogliare una catastrofe fino a radere al suolo le pietre miliari oltre quelle sponde.
Eppure qualcosa glielo impediva. Temeva di ferirlo, di disturbare il suo riposo di fare un grosso sbaglio. E se qualcosa lo avesse ferito o le acque avessero rovesciato l’imbarcazione su cui giaceva? Se una scaglia di roccia avesse anche sfiorato quel corpo si sarebbe sentito morire dentro.
Tutti quei limiti si accumulavano lungo la sponda del lago costituendo una barriera ben più potente della natura. La paura era il suo confine e lui si sentiva circuito, preda degli accadimenti ma forse più di se stesso.
Perciò, anche quando pioveva a dirotto restava a fissare la nebbia ammorbidire le affilate punte rocciose.
Si accasciava a un passo dalla riva, l’acqua scura gli restituiva un poco del suo riflesso.
Solo che quella notte non vide bianchi capelli scintillanti d’acqua ma gli occhi di un tempo, senza le rughe a camuffarne l’espressione.
Per poco non cadde all’indietro, il pastrano che indossava era zuppo ed era pesante. Le unghie grattarono la terra quando ci si aggrappò.
Si allungò un altro poco: occhi giovani, questo vide. Occhi blu sferzati dai fulmini del cielo, animati da nervature brillanti e dall’incresparsi delle acque alla spinta del vento.
Si toccò subito la faccia: raggrinzita, stanca, i capelli ricadevano attorno alle tempie e alle guance magre come flosci serpenti bianco latte.
Esattamente com’era abituato a vedersi.
Le mani affondarono nella pelle quasi a volerla strappare. Gridò. Gridò con quanto fiato aveva e anche di più, non pensava di possederne tanto.
Qualcuno si sarebbe fermato. Qualche auto avrebbe spento il motore per soccorrerlo e prima che l’ennesimo viso gentile gli chiedesse come stava e come mai era da solo, di notte, lungo le sponde di un lago, abbassò lo sguardo.
Per poi sollevarlo dinanzi a sé, la fitta nebbia a proteggere il luogo che si stava prendendo gioco del suo cuore da secoli.
Se in quel momento avesse scrutato fra le acque, avrebbe visto un lampo illuminare la determinazione di un giovane al posto del pallido viso di un vecchio.
 
***
 
Aprì la porta con un piccolo trucchetto, facendo scattare la serratura con un pugno invece che con la buona vecchia stregoneria. Gran parte della gente del condominio aveva smesso di considerarlo un tranquillo vecchietto poco incline alle conversazioni e lo aveva condannato direttamente allo status di squilibrato avanti con gli anni. Solo la sua vicina, una ragazza dal buon cuore che lavorava nell’erboristeria a pochi passi dal portone, era gentile con lui. Gli aveva regalato dei bicchieri con delle foglioline verdi, un cappello nuovo di pura lana e tanti sorrisi. Specie di mattina. Specie quando detestava aprire gli occhi al mondo. Era come se avesse intuito a modo suo che la prima cosa che Merlino faceva al mattino era litigare con l’universo.
Per questo non aveva mai avuto cuore di trattarla in modo sgarbato ma era certo che se in quel momento il suo viso fosse spuntato nel pianerottolo per salutarlo, avrebbe mandato al diavolo anche lei.
Per fortuna la sua porta era chiusa, anche se dall’interno del suo appartamento proveniva dolce musica classica. Evidentemente era sola, senza quel ragazzo biondo che andava con lei all’università. Quando c’era lui quel pianerottolo diventava una discoteca.
Merlino chiuse la porta e ci si appoggiò contro, un sospiro incastrato in gola. Non voleva farlo uscire, sarebbe stato come rendere reale ogni cosa.
Abbassò lo sguardo, gli occhi celati dai capelli e dal cappello che si afflosciava sul capo, zuppo d’acqua.
Le dita si serrarono a pugno.
Non bastava Samhain a tormentarlo, adesso anche Avalon si prendeva gioco di lui, mostrandogli un riflesso giovane quando in realtà dentro si sentiva marcio.
Era sufficiente il suo poco amor proprio, la sua poca dignità. Quella da sola bastava a distruggere le sue giornate pezzo dopo pezzo.
Qualcosa di fugace apparve ai margini della sua visione. Restò immobile, l’animo letteralmente bloccato. 
Fece per voltarsi ma serrò di scatto le palpebre.
Non voleva vederlo di nuovo. Non voleva che quei dettagli lo uccidessero.
Eppure sentì, distinto e chiaro come il calore del sole della pelle, un tocco leggero contro la spalla. 
Si allontanò subito, corse verso il bagno lasciando una scia di acqua e terra bagnata lungo il corridoio. Si strappò il cappello e si tolse il pastrano. Aprì la fontana e si gettò dell’acqua sul viso. Ghiacciata.
Non servì.
Il vetro gli restituì il riflesso di capelli di grano e un mezzo sorriso. Quello che tanto gli aveva insegnato, lo stesso gesto che aveva imparato a leggere, che gli parlava come niente era stato capace di fare nel corso di mille anni.
-Vattene via!- gridò.
Al centro dello specchio si creò una crepa che esplose in mille scaglie, frantumandolo come se un pugno lo avesse colpito.
Era stata la magia.
Così come era la magia a riportare a galla l’immagine di Artù, tentando di colmare l’incolmabile, di sublimare una sofferenza che non aveva voce, che stava trattenendo dentro come si tiene il respiro.
La odiava. Odiava la stregoneria per quello che aveva fatto, e odiava se stesso per esserne portatore e non serviva a niente ricordarsi che tanto un giorno, quello stesso dono lo avrebbe riportato indietro perché quel giorno non era successo.
E probabilmente non sarebbe successo neanche quello dopo e quello dopo ancora.
Arrancò fuori dal bagno solo per ritrovarsi immerso in un turbine di sensazioni che gli scalfirono il petto, maciullando il cuore o quel che ne restava: invece dello stipite della porta toccò ruvida pietra, invece di una carta da parati giallina lo sguardo si posò su un gioco di luminescenze dolcissime, create da un camino acceso, dal fuoco scoppiettante, dai riflessi di una casacca rossa, indosso a qualcuno che, di spalle, guardava fuori da una finestra.
Il vetro tinto dal buio di Camelot mostrava solo un mezzo profilo, senza occhi, senza labbra.
-No…- sussurrò, freneticamente, serrando gli occhi. -Tu non esisti… tu non sei reale…-
 Si accasciò al suolo e toccò terra, le ginocchia si schiantarono contro dura terra tinta di sangue e sudore.
L’arena degli allenamenti. Al tramonto, bruciata dai raggi di un sole stanco, stralci di nuvole a tracciare i contorni di una pioggia imminente.
-Merlino- 
Passi alle sue spalle. Degli stivali si fermarono accanto alle sue mani. Non le ritirò di scatto solo perché era terrorizzato ma le guardò con la coda dell’occhio.
-Sta per arrivare una tempesta, torniamo al castello-
E il mondo attorno si dissolse, divenne pietra porosa e morbida luce di fiaccole e rumore di pioggia attutita dal silenzio.
In quei corridoi deserti e addolciti dal buio di un tempo inclemente, la sua figura si fece strada nella mente, di schiena contro la parete, le braccia incrociate, la casacca rossa che ricadeva sulle spalle con la delicata irruenza di sempre.
Qualche ciocca di capelli sulla fronte, a schermare uno sguardo ma non il mezzo sorriso che gli stava riservando.
-Non vuoi venire?-
La sua voce era distinta, sebbene si trovasse a parecchi metri di distanza.
Merlino si guardò attorno, poi si guardò le mani, macchiate dall’età e rose dal tempo.
-Dove?- sussurrò, la voce rotta.
Le parole di Artù risuonarono chiarissime nella mente, così come tiepido fu il suo respiro quando gli sfiorò la guancia.
-Sotto la pioggia-
Si sentì afferrare e voltare di scatto ma in quel momento il mondo di venne buio, così penetrante che sembrava denso.
Gridò. 
 
Balzò a sedere improvvisamente e qualcosa accanto a lui andò in pezzi: esplose con un fragore enorme, tanto che le voci nella sua testa ammutolirono.
Portò la testa fra le mani ma qualcuno gli sfiorò la spalla.
Si allontanò così velocemente da retrocedere di almeno mezzo metro. Artù lo fissava, la paura negli occhi.
-Non toccarmi-
Fu la prima cosa che gli venne da dire, la prima sequela di parole che il suo cervello formò ma si pentì immediatamente di averle detto.
Nelle iridi di Artù e lunga la linea della bocca qualcosa si rattristò. Riabbassò la mano.
-Stavi sognando- disse.
Merlino scese dal letto, il fiato corto, lancinanti fitte alle tempie e il corpo coperto di sudore.
Senza una parola si diresse in cucina, aprì la fontana e si sciacquò il viso.
I passi di Artù lo raggiunsero piano.
-Perché non usi il bagno?- sembrava timoroso di chiederlo, eppure il tono era quello di chi conosce già la riposta a quello che sta per chiedere.
-Non voglio specchi- borbottò. Appoggiò le mani al lavello e serrò le palpebre. Gocce d’acqua scivolavano lungo le tempie e le guance, percorsero il contorno della bocca e del mento e piovvero sul pavimento.
-…Che cos’hai?-
Stavolta la voce di Artù era timorosa davvero.
-Scusa. La magia… è… è la magia-
-Lo avevo intuito. Temevi che mi avresti fatto del male?-
Non rispose.
-Merlino-
-Sei tu che scateni queste cose. Cioè, se mi tocchi- Non voleva girarsi. Non voleva, non voleva, non voleva…
Sospirò.
-Mi… mi sono spiegato male, voglio dire che…-
-Forse sarà meglio che dorma nell’altra stanza-
Per un momento si sentì troppo stanco per seguirlo, per trovare le parole da dire. Ma quell’istante sembrò amplificare il significato di ciò che sarebbe accaduto se non si fosse spiegato.
-E’ il tempo- esclamò, restando sulla soglia del corridoio. Artù si era fermato per ascoltarlo.
-Il tempo è intriso di magia. Certe volte… alcuni eventi si ripetono, come se un orologio ne scandisse gli attimi. Semplicemente ne soffro. Tu non c’entri-
-E’ come con gli incubi che avevi quando mi sono svegliato?-
-No. Sono solo ricordi. E’ diverso- rispose, la voce ridotta a un sussurro. Le parole inghiottite dal rombo di un tuono. Spostò lo sguardo, mentre la luce azzurrina di un fulmine fluiva in soggiorno creando un lampo di ghiaccio intorno a loro.
-C’era una tempesta quella volta e sono stato male. A volte gli sconvolgimenti naturali spingono la magia a manifestarsi, succede. E’ la natura… è…- sospirò, portò le mani agli occhi. -E’ complicato-
Artù strinse i pugni. Colse uno sprazzo del suo profilo, il buio sembrava inghiottirlo.
-Ti faccio stare male-
Non era una domanda.
Merlino fece un passo avanti.
-Farò finta di non aver sentito-
-E’ quello che ho fatto per dieci secoli- mormorò Artù. -Ho tormentato la tua magia e dopo tanto tempo qualcosa si è rotto- La sua voce si assottigliò, raccolse tutta l’incertezza che Merlino sentiva serpeggiare sottopelle. -Non dirmi che non è vero-
Avrebbe voluto rispondere ma la verità era che Artù aveva ragione, da un certo punto di vista. Era una cosa che detestava. Una minuscola, infinitesimale parte di lui odiava dipendere da Artù sotto ogni punto di vista. I secoli gli avevano insegnato che dipendeva da lui per vivere. E quei giorni gli stavano impartendo una lezione forse ancora più dura: che era sempre stato così.
Perfino i ricordi dipendevano da Artù, perfino la memoria si alimentava grazie al suo tocco. Quei piccoli episodi si ripetevano da un po’ di tempo ma non avevano mai avuto conseguenze così evidenti. Che la sua magia si piegasse al volere di Artù ormai era chiaro, bastava contare tutte le volte in cui lui aveva pensato una cosa e la stregoneria si era regolata di conseguenza. Qualche settimana prima avevano ricreato una radura in una stanza.
Eppure c’era una parte di lui che desiderava la solitudine, quella che si perdeva ancora in vecchi ricordi. La parte fragile, che la magia bistrattava quando il tempo, gli elementi e la nostalgia litigavano.
-Non dipende da te- sussurrò.
Artù si girò di scatto, dandogli le spalle.
-Lo so che mi ci devo abituare ma ognuno qui ha le sue colpe, va bene? Tu non ti perdoni di non avermi salvato a Camlann e io di non essere meno deleterio per la tua magia. Quindi non mentirmi, perché non ne sei capace-
Merlino lo costrinse a voltarsi prima di rendersi conto di aver camminato. Lo spinse contro il muro e piantò il palmo a pochi centimetri dalla sua guancia.
-Toccami. Toccami adesso-
Poteva specchiarsi nello stupore di Artù ma quella sensazione durò un attimo perché il suo volto divenne nuovamente teso, così come il suo corpo quando lo attirò a sé, mordendogli le labbra.
Un tuono scosse i vetri, li fece tremare.
Merlino fece di tutto per non impedire al proprio corpo di tremare ma era difficile, anche i battiti del cuore dipendevano dal tocco di Artù. Lui era una tempesta dentro.
Lasciò che affondasse le mani fra i suoi capelli e costrinse ogni muscolo del proprio corpo a non cedere, le dita che cercavano un appiglio alla parete, quella mano ancora ferma ma che, potendo, sarebbe affondata nel muro.
Quando le labbra di Artù si allontanarono, restò a fissarle, la realtà era pallida tutto intorno.
-Posso controllarmi quando ci sei. Posso farlo- 
Inghiottì a vuoto e stavolta accostò le labbra alla sua tempia.
-Solo che non voglio-
Artù sgranò gli occhi, avvertendo bisogno in quella voce, un disperato bisogno di essere distrutto. Ne ebbe timore.
Quel ragazzo tanto fragile e pure tanto potente insieme metteva a nudo la sua anima senza pudore. Era questo il lato di lui che certe volte lo sconvolgeva: la capacità di essere limpido.
-Non parlo di rompere una lampada ma di stare male fisicamente- sussurrò.
-Sto male da quando ti conosco, Artù-
Si era aggrappato con la mano al suo braccio. Eppure adesso le dita toccavano la parete.
-Mi fece male sapere che ero costretto a starti accanto, quando arrivai a Camelot. Ma non ti conoscevo. Mi faceva stare male non poterti dire che sapevo usare la magia. Stavo male anche se ti vedevo scherzare con gli altri cavalieri ma in qualche modo sapevo che tutte le mie bugie avevano uno scopo. Sono stato male quando ho saputo che saresti dovuto morire ma niente si può paragonare al momento in cui ti ho sentito spirare. Neppure i dieci secoli di solitudine- la sua voce si incrinò. -Però mi facevi sentire vivo. Quando mi capivi senza che neppure parlassi, quando eri l’unico ad accorgerti che non sorridevo da un po’. Quando mi raccontavi qualcosa di te o quando mi leggevi dentro se passavamo la notte intorno al fuoco, perché lo so che mi leggevi dentro. Me ne accorgevo- 
Artù lo sentì abbassare ancora di più lo sguardo, lo capì dalle ombre che si infittirono lungo la sua bocca tesa.
-E mi piaceva. Mi piaceva ma non osavo dirlo neanche a me stesso. Sei stato un dolore eterno ma nessuno, mai, mi ha fatto sentire tanto l’eco di me stesso. La realtà mi soffocava prima di te e se mi fai male non m’importa, ho davanti l’eternità per essere salvato di nuovo-
Artù fissava il soffitto, gli occhi lucidi, la voce spenta.
Merlino gli poggiò una mano sul cuore.
-Non smettere mai di ferirmi-
 
 
 
 
In me c’è qualcosa che non va, seriamente.
Quando penso di aver strapazzato questi due fino alla noia ecco spuntare queste cose.
Prima o poi Merlino e Artù salteranno fuori dal foglio di word e mi metteranno alla gogna, me lo sento. U_U
Ecco le soundtrack che hanno ispirato questo momento di scribacchiamento xD

 

 
 
 
*rotelle sotto i piedi modalità Rossana*
 
A prestooooooooo
 

 

   
 
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