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Autore: Darkry    19/11/2013    4 recensioni
"«Non ti dimenticherai di me, vero?» chiede, gli occhi scuri impauriti come quelli di un bambino.
«No».
«E ci crederai? Crederai in me?».
La voce è roca, ma è ancora dolce come il miele dorato delle api.
«Sempre» gli occhi azzurri luccicano di una promessa fatta dal cuore e un sorriso spunta dagli angoli delle labbra.
«Davvero? Me lo prometti?».
La testolina annuisce e il sorriso rimane lì, come un fiore che sboccia alle prime luci dell’alba.
«Lo giuro».
«Su cosa? Su cosa lo giuri?» lui è ansioso, la guarda e non smette di stringerle le dita.
«Lo giuro su di noi».
Si rilassa e un sorriso stanco gli compare sul volto, mentre prende una ciocca dei suoi capelli biondi tra le dita.
«Verrai a prendermi, vero? Un giorno? E saremo di nuovo insieme?» adesso lei è triste, gli occhi sono grigi come la tempesta e il fiore è stato spazzato via dal primo temporale estivo.
Anche lui è triste, ma sorride. «Certo. Verrò a prenderti e saremo sempre insieme».
«Quando?».
«Il tempo di una vita».
Terza classificata al contest indetto da Pinoolast’s Graphic - Video.
Buona lettura :)
Kry
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Run into the night. 

 
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«Non ti dimenticherai di me, vero?» chiede, gli occhi scuri impauriti come quelli di un bambino.
«No».
«E ci crederai? Crederai in me?».
La voce è roca, ma è ancora dolce come il miele dorato delle api.
«Sempre» gli occhi azzurri luccicano di una promessa fatta dal cuore e un sorriso spunta dagli angoli delle labbra.
«Davvero? Me lo prometti?».
La testolina annuisce e il sorriso rimane lì, come un fiore che sboccia alle prime luci dell’alba.
«Lo giuro».
«Su cosa? Su cosa lo giuri?» lui è ansioso, la guarda e non smette di stringerle le dita.
«Lo giuro su di noi».
Si rilassa e un sorriso stanco gli compare sul volto, mentre prende una ciocca dei suoi capelli biondi tra le dita.
«Verrai a prendermi, vero? Un giorno? E saremo di  nuovo insieme?» adesso lei è triste, gli occhi sono grigi come la tempesta e il fiore è stato spazzato via dal primo temporale estivo.
Anche lui è triste, ma sorride. «Certo. Verrò a prenderti e saremo sempre insieme».
«Quando?».
«Il tempo di una vita».
 
***
 
La campanella suona annunciando la fine delle lezioni e in un attimo ho già indossato la borsa a tracolla e sono fuori. Monto in sella alla bicicletta, mentre il sole tramonta di fronte a me e la strada solitaria si dirama fino a scomparire all’orizzonte in una scia rossastra.
Faccio qualche passo a cavallo della bici e mi fermo quando tre figure mi si parano davanti.
«Ciao, Wendy… Voli da qualche parte?» la voce è irrimediabilmente conosciuta, con quel tono di scaltra superiorità che dimostra la stupidità infinita del ragazzo che mi ritrovo davanti.
Gli altri due ridacchiano senza motivo.
«Togliti di mezzo, Grover».
Non ho tempo da perdere con lui e non voglio sembrare debole come tutti gli altri bambini che vengono pestati o infastiditi da questi tre.
La faccia di Grover adesso è seria, si vede che non è abituato a ricevere ordini e che nemmeno gli piace.
«Dov’è il tuo Peter, Wendy?» la voce è insolente e incalzante ed ha un’espressione crudele stampata sul viso.
Serro le mani sul manubrio. Sta superando il limite.
Tutti sanno cosa significhi per me, lo scrissi in un tema e la maestra lo lesse ad alta voce, qualche anno fa.
«Dacci un taglio».
Guardo fisso avanti, cercando di evitare di prestare attenzione al suo sguardo che mi brucia sulla pelle, che mi fa male e che mi da fastidio.
«E tua madre?» fa un passo avanti e gli imbecilli gli vanno dietro. Le nocche si sbiancano per la forza con cui sto stringendo il manubrio e non sento più la punta delle dita.
«Dov’è tua madre, Wendy?».
Serro la mascella, il mio viso è in fiamme, non rispondo.
«Probabilmente adesso è sbatterla in faccia a qualcuno, non è vero?».
Gli altri ridono e anche Grover ha sul viso un sorriso divertito e le loro risate mi rimbombano nelle orecchie mentre il cuore comincia a battere velocemente, assordandomi.
«Non devi neanche nominare mia madre».
«Come scusa?» chiede Grover divertito.
Cerco di rilassare i muscoli della braccia anche se mi sento un fascio di nervi e il sudore inizia a scendermi copioso lungo la schiena.
«Ho detto che non devi nemmeno nominare mia madre, verme!» ringhio.
Grover si fa serio, mi guarda negli occhi.
«Tua madre è una troia».
«E tu che ne sai?».
Sorride, continua a sorridere, come se far stare male la gente lo faccia sentire meglio.
Sto sbagliando tutto, mi sto arrabbiando e lui lo vede, ne gode, mentre non dovrei accontentarlo, fingendomi disinteressata e impassibile.
«Lo sanno tutti. Tutta la città sa che se la fa con tutti per pochi spiccioli».
Il suo sorriso è perfido.
«Ripeto la domanda: tu che ne sai?».
Grover rimane spiazzato per un momento.
«L’ho vista».
Getto il capo all’indietro, lasciandomi andare ad una lunga risata liberatoria che lo lascia ancora più confuso.
«Non credo che te l’abbia data, francamente. Anzi, penso che proprio nessuno possa dartela perché non credo che il tuo cazzo superi i due centimetri, come del resto il tuo cervello».
Grover diventa rosso e si ferma a due passi dalla bici.
«Tu cerchi rogne, Wendy. Un giorno di questi magari te lo faccio vedere il mio cazzo. Anzi, un giorno di questi ti ritroverai sulla strada a fare lo stesso lavoro di tua madre e mi implorerai per passare anche solo cinque minuti con te per due soldi in più. Un giorno di questi ti ritroverai a fare la puttana, proprio come la tua cara mamma».
Una scossa mi attraversa le braccia.
«Sta’ attento, Grover…».
«Attento a cosa? A te? Mio padre si è sbattuto tua madre e io l’ho visto, ho visto dove lavora e cosa indossa. Aspetta qualche anno, forse qualche mese, e vedrai che quei vestiti staranno benissimo anche a te» sibila, rosso in viso.
«Sai, Grover… hai passato il limite già da un bel pezzo!» urlo. «Se tuo padre si sbatte mia madre mi dispiace per te, e per la tua di madre che evidentemente non è più in grado di soddisfare certi bisogni fisiologici del cazzo esigente del tuo amato paparino, che è un porco patentato!».
«È una fottutissima troia ubriacona».
«E tu sei un fottutissimo dodicenne del cazzo».
«Attenta a come parli, Wendy…».
«Attento ai nemici che ti fai, coglione!» non gli do nemmeno il tempo di replicare, metto i piedi sui pedali e senza pensarci mi catapulto su di lui. Non è abbastanza veloce nello scansarsi di lato e gli prendo in pieno una gamba, mandandolo col culo all’aria. Gli altri due si sono buttati a terra per evitarmi, ma non mi interessa di loro.
L’importante è che Grover abbia avuto ciò che si meritava.
Pedalo a tutta birra lungo la strada inondata di luce, col sole che mi bacia la fronte e le dita e la mia ombra che mi insegue sull’asfalto. Le lacrime che mi si formano agli angoli degli occhi vengono spazzate via dal vento e dopo qualche chilometro ho ritrovato la tranquillità. 
 
 
 
«Laurel! Entra, muovi il culo!» l’urlo squarcia il silenzio, mentre dall’interno della casa proviene un rumore di stoviglie e piatti tintinnanti. Non mi muovo e continuo a guardare il cielo scuro, con gli occhi fissi sulle stelle. La luce è fioca e al di là del portico c’è solo buio.
Il rumore della porta che si apre e i passi sul portico mi annunciano il suo arrivo.
«Hai sentito che ti chiamavo?» chiede con voce nervosa.
Annuisco, senza distogliere lo sguardo dalle stelle luminose.
«Perché non sei venuta immediatamente?».
«Non mi piace quando urli» rispondo seccamente.
Sento uno sbuffo risentito alle mie spalle. «Senti signorina, qui io sono la mamma e tu la figlia. Perciò si fa quello che dico io e io dico che devi alzare quel tuo bel culetto e portarlo dentro casa immediatamente, che la cena è pronta e devo andare a lavorare».
Mi volto nella sua direzione e la guardo con disapprovazione.
«Non voglio che lavori in quel posto».
«Te l’ho spiegato altre volte, Laurel. È l’unico modo per continuare a mangiare e ad avere un tetto sulla testa. Adesso entra dentro e non fare i capricci» dice con voce spazientita, gli occhi fermi e risoluti che sanno quello che vogliono.
«Papà non l’avrebbe mai permesso!» mi impunto.
«Papà non è qui!» urla, i pugni stretti lungo i fianchi nudi, la gonna inguinale in pelle nera che le fascia parte dei glutei, le vistose calze a rete e il seno messo in bella mostra.
«Ci sono io qui!» grido. «E tutto questo non gli piace, io lo so!».
«Tu non sai proprio niente! Entra dentro!» mi afferra per un braccio e mi trascina oltre la porta, superando la vecchia cassetta postale dove sono ancora incisi i nomi di Peter Robinson e Theresa Smith.
«Non voglio affrontare mai più una questione del genere con te, Laurel. E non voglio ripetertelo» dice cercando di riacquistare la calma mentre chiude la porta alle nostre spalle.
Mi siedo al tavolo imbronciata e inizio a rimestare la minestra nel piatto mentre mamma apre e chiude vari pensili nella cucina, in preda ad un attacco di isterismo. «Dove sono? Laurel, rispondimi!» urla esasperata alla fine.
«Dove sono cosa?».
«Le bottiglie. Dov’è la vodka? E il rum?».
«Avevi detto che non avresti più bevuto» replico senza guardarla.
«Dove sono?».
«Me l’avevi promesso» continuo, senza rispondere alla domanda.
«Laurel…».
«E le promesse vanno mantenute!» scatto sbattendo i pugni sul tavolo e alzandomi in piedi.
Ci fronteggiamo l’una di fronte all’altra, guardandoci furiosamente.
«Non mi interessa ciò che ho detto, Laurel. Ne ho bisogno prima di andare a lavoro» sibila rossa in viso.
Ogni volta è così. Mi promette che si impegnerà e invece vuole sempre bere e diventa cattiva e non fa caso a quello che dice e a quello che fa.
«Sarebbe tutto più semplice se non andassi».
«Ti ho già detto che non è possibile. Dimmi dov’è».
«L’ho buttato nel cesso. Non c’è».
Mamma spalanca gli occhi e sul viso le passa  una smorfia di dolore.
«Hai buttato via tutto?» chiede in un sussurro flebile.
«Sino all’ultima goccia».
Mi guarda e quegli occhi che prima erano tanto sicuri adesso tremano, come le sue mani.
Per un momento temo che voglia colpirmi ma poi si accascia sulla sedia e si prende la testa tra le mani.
«Quando c’era papà non bevevi» sussurro, cercando di essere dolce.
So che per lei è difficile, so che mi vuole bene e che se fa tutto questo è solo per me. Ma anche io le voglio bene e voglio che smetta, voglio farcela senza che lei debba fare tutto questo.
«Era tanto tempo fa…» mormora, senza staccare gli occhi dal tavolo.
«Possiamo farcela mamma. Io e te. Troverai un altro lavoro, ricominceremo da capo e le nostre vite saranno perfette. Il mondo è meraviglioso, ci aiuterà».
Solleva lo sguardo e mi sorride tristemente.
«Parli proprio come lui. Sempre ottimista e fiduciosa negli altri».
Cerco di sorriderle anch’io, ma le sue parole sono amare e prive di calore.
Lei non crede che lui ci stia guardando. Non crede che verrà a prenderci prima o poi.
Pensa che sia tutto finito solo perché è morto, ma non è così. Lui ci guarda, ci sta vicino e ci protegge.
Ci indica la strada nel buio ma non sempre riusciamo a seguirla.
«Lui farebbe così» sussurro, tentando di convincerla.
Mi prende le mani tra le sue e mi guarda con dolcezza. «Tesoro, bambina mia… sei meravigliosa, hai una voglia di vivere in questo mondo che è fortissima e quasi mi devasta. Ma sei anche molto ingenua…» la presa si fa più forte e lo sguardo più cupo. «Il mondo non è come lo vedi tu. Inseguire le farfalle non ti fa fare soldi e se vuoi vivere hai bisogno di soldi. Guardare le stelle non ti fa andare avanti nella vita e se vuoi sopravvivere devi restare con i piedi per terra. Laurel, tuo padre era un sognatore, sperava in un mondo migliore e fantasticava ore su cose che non esistono e non ci sono. È stata una delle cose che mi ha fatto innamorare di lui. Ma allo stesso tempo era anche un uomo consapevole di ciò che faceva… si è spaccato la schiena per una vita con i lavori più umili per permettere a me e a te di vivere tra tutte le agiatezze. Adesso tocca a me, per permettere a te una vita come si deve. Per farti andare a scuola e regalarti un futuro. Se avessi imparato a scrivere o a fare i calcoli adesso non sarei a questo punto».
«Posso insegnarti io a scrivere! In matematica me la cavo abbastanza, possiamo farcela!».
Tutto, anche studiare di notte pur di aiutarla. «Troverai un altro lavoro e vivremo felicemente!».
Mi lascia le mani e sorride stancamente, alzandosi. «È troppo tardi, cuore mio».
«Allora non voglio più andare a scuola!» urlo, alzandomi a mia volta mentre lei indossa il cappotto.
«Non dire sciocchezze».
«Grover Davis va in giro a dire che tu e suo padre siete andati a letto insieme! Non riesco a fargli tenere la bocca chiusa ed è un tormento! Non voglio che ti chiamino troia!».
«Farò un bel discorsetto a suo padre allora» mi guarda dispiaciuta. Non mi ha mai nascosto niente, so ciò che fa e perché lo fa.
Scuoto la testa. «Non fa niente, mamma».
Abbasso lo sguardo, mi posa un bacio sul capo e poi esce, lasciandomi sola.
Guardo il tavolo e i piatti ancora fumanti di minestra. Non abbiamo nemmeno finito di mangiare. Verso la mia minestra nella pentola e copro il suo piatto con un coperchio, per evitare che si raffreddi la cena. Sicuramente quando tornerà avrà fame se non sarà troppo ubriaca.
Salgo le scale e vado in camera mia, verso la finestra.
«Torna presto, papà».
 
 
«Buon compleanno, tesoro!».
Soffio sulla candela col numero tredici e afferro entusiasta il pacchettino che mamma mi porge.
Sono felicissima! Oggi è un giorno speciale e magari io e la mamma lo passeremo tutto il giorno accoccolate sul divano a mangiare questa fantastica torta al cioccolato che è riuscita a prepararmi. Forse le leggerò qualcosa, così passeremo un bel pomeriggio insieme.
«Su, aprilo!» mi incita e mi accorgo di essermi incantata con un sorriso sulle labbra.
Lo scarto pianino, attenta a non rompere la carta dove scriverò data e regalo e lo inserirò nel mio diario segreto. Fuori ne esce una piccola catenina argentata con un ciondolo blu brillante.
La guardo estasiata.
«Ma questa è…».
Mamma annuisce e mi sorride con gli occhi luccicanti. «Me la regalò tuo padre al nostro primo anniversario di nozze. Voglio che la tenga tu. Ormai sei una signorina e puoi indossare certe cose…».
«Ma sei sicura che…?» non riesco a finire la domanda, le mani mi tremano per l’emozione.
Era la cosa più preziosa che mamma possedesse e per giunta è un regalo di papà!
«Certo, tesoro. Sono sicurissima».
Me la faccio allacciare da lei e non faccio altro che guardare il suo meraviglioso scintillio.
Mamma si alza e va verso camera sua.
«Dove vai?».
«A lavoro».
Cosa? «Non resti? Nemmeno oggi?».
La mia voce dev’essere stata parecchio triste perché mamma si volta e mi sorride, con tutta la dolcezza di cui è capace. «Cerco di tornare presto».
Annuisco, senza riuscire a nascondere la mia amarezza. Sicuramente non tornerà prima dell’una.
Appena esce, taglio una piccola fetta di torta e salgo mogia su per le scale, adagiandomi sul davanzale della mia camera. Le stelle sono più luminose del solito tanto che se le guardo mi fanno quasi male gli occhi.
 
 
Sono le due meno un quarto quando sento la mamma rincasare.
Ho finito di leggere due libri e ho mangiato altre due fette di torta, senza saper resistere.
Mi catapulto giù per le scale per salutarla e per vedere in che stato si trova. Ultimamente torna a casa lucida, senza aver bevuto. Puzza di fumo, alcol e sudore e l’aiuto a prepararsi il bagno perché è troppo stanca ma escluso il bar dove lavora  e il lavoro che fa, va tutto bene.
Appena metto piede sul primo gradino capisco che c’è qualcosa che non va.
Il sorriso mi muore sulle labbra e procedo a passi lenti e silenziosi per cercare di capire cosa succede.
Ciò che vedo non mi piace per niente. Mamma è vestita come al solito, con la gonna corta, il top, i tacchi a spillo e le calze a rete, ma non è sola.
C’è un uomo con lei e da come la guarda capisco che è qui per affari e non per altro.
Raramente mamma porta degli uomini a casa, nell’ultimo periodo non l’aveva mai fatto.
«Vai a dormire Laurel».
La mamma mi guarda fisso e l’uomo si gira verso di me.
È alto, muscoloso e quasi tutto pelato.
Mi sorride e intravedo dei denti gialli e consunti dal fumo.
«Ciao, piccola».
Si avvicina e mi possa una mano sulla testa, scompigliandomi i capelli.
Alla mamma non piace il gesto e fa un passo nella mia direzione.
«Ho tredici anni.» ribatto secca.
L’uomo ridacchia come se abbia fatto una battuta esilarante e la puzza acre dei sigari che fuma mi fa arricciare il naso.
«Vai su Laurel» mi sussurra la mamma. «Vogliamo accomodarci nell’altra stanza?».
L’uomo mi fa un occhiolino prima di voltarsi verso mia madre e di poggiarle una mano sul sedere.
Non nella nostra casa. Non qui. Non nella camera di papà.
«Esca fuori» dico.
L’uomo si volta verso di me, un po’ stupito. «Piccola, la mamma ti ha detto di filare a nanna».
«Esca fuori da casa mia» ribatto.
L’uomo guarda spazientito mia madre e me. Si vede che non è qui per perdere tempo e che probabilmente a casa ha una moglie e dei figli che lo aspettano e che dovrà rispondere a delle domande se farà troppo tardi.
«Laurel va’ a dormire».
Il viso della mamma è un ammonimento, me la vedrò brutta dopo, ma non m’importa.
Ho tredici anni, papà non è qui, ma se prima ero troppo piccola per dire qualcosa adesso anche io ho voce in capitolo. Stringo forte nel pugno la catenina che mi ha regalato la mamma oggi e mi sento più coraggiosa.
«No».
«Laurel!» la mamma avanza a grandi passi verso di me e mi afferra per le spalle. «Devi andare subito a dormire, capito?».
«Ho detto di no».
Mamma mi scuote per le spalle, ma non demordo.
L’uomo sbuffa spazientito e con due grandi falcate ci raggiunge. Sposta di lato mia madre con la sua manona e abbassa la fronte alla mia altezza.
«Va’ a letto, piccola».
«Lo farò quando lei sarà uscito fuori dalla mia casa!» ribatto.
Lui alza gli occhi al cielo e serra la mascella.
«Tua madre mi deve fare un servizietto. Quindi se non vuoi assistere allo spettacolo…».
«Non parlare così a mia figlia!» urla mia madre, strattonandogli il braccio.
L’omone si volta nella sua direzione e la spinge, facendola indietreggiare di qualche passo.
«Io parlo come cavolo voglio, puttana! Non sono venuto qui a giocare e a perdere tempo!».
«NON TOCCARE MIA MADRE!» gli salto addosso da dietro, cieca di rabbia. Gli tempesto la schiena di pugni e voglio fargli male, tanto male.
Lui mi scrolla di dosso e mi da uno schiaffo sulla guancia. L’orecchio mi fischia, la guancia è bollente e ho bisogno di riprendere fiato mentre l’occhio mi si appanna di lacrime.
«Puttanella…».
Mi volto appena in tempo per vedere mia madre che gli si scaglia contro, ma lui la spinge e la fa cadere a terra.
«Ora mi prenderò ciò che è mio di diritto. E me lo prenderò gratis» sibila, rosso in volto e con gli occhietti piccoli iniettati di sangue. Mamma indietreggia sul pavimento.
Corro verso di lui, mi butto a terra e gli afferro una gamba, tirandola con tutte le mie forze. Mi degna appena di un’occhiata e poi mi da un calcio e qualcosa di liquido e rosso mi esce dal naso mentre sento la faccia bruciare. Mamma urla. Cerco di rimettermi in piedi e la vedo spaccargli uno sgabello di legno sulla schiena. Lui la prende per le braccia e la colpisce sul viso una, due, tre volte.
Papà, ti prego aiutaci.
La scaglia sul tavolo e le si avvicina.
«NO!».
In un attimo sono accanto a lui e gli tiro un morso sulla mano, più forte che posso, sino a sentire il sapore del sangue nella bocca. Un urlo e mi sento leggera prima di cadere e sbattere la testa contro il gradino della scala.
Nero.
Vedo solo nero e non ci sono stelle.
 
***
 
«Ciao, Laurel».
La ragazza alza lo sguardo e lui le sorride.
«Papà!» sorride e si getta tra le sue braccia. Il suo profumo l’accoglie come quand’era piccola, ma è strano, sembra più il ricordo del suo profumo portato da un soffio di vento che la avvolge e la fa sentire protetta.
«Sei venuto».
I suoi occhi scuri sorridono e sembrano volerle dare mille risposte. «Il tempo di una vita, Laurel. L’avevi dimenticato?».
«No, no» il sorriso è immutato, un raggio di sole che squarcia le nubi grigie gonfie di pioggia. «non ho dimenticato nulla, papà».
Le accarezza i capelli e la faccia non le fa più male e non ha più sangue sul viso. Si porta una mano al collo e anche la collana non c’è più. Si guarda intorno freneticamente, la preoccupazione che prende posto sul suo viso tranquillo. Non vuole averla persa, era un regalo importante, ma intorno a le non c’è altro che buio.
«Non hai la collana, Laurel. L’hai lasciata indietro» la voce del padre è calda di sicurezze e i suoi occhi sono grandi, più grandi di come li ricordava e la tranquillizzano.
«Dove siamo?».
«Davanti a casa» con un gesto le indica qualcosa davanti a loro e la casa compare improvvisamente dal nulla. Sono sospesi in alto, come se stessero volando. Si avvicinano ad una finestra e Laurel vede sua madre china su qualcosa ai piedi delle scale. L’uomo è sparito.
La mamma piange… su di lei.
Le si stringe qualcosa nel petto e vorrebbe piangere, ma non ci riesce. Allunga una mano verso la mamma e la chiama ma lei non si gira.
«Non può vederci. Né sentirci».
«Ma…».
«Lei starà bene» la rassicura il padre. «Noi le saremo sempre accanto e le indicheremo la via».
«Quindi era questo che significava…» mormora. «Sono morta».
Lui le sorride e le accarezza i capelli.
«Non è così bambina mia».
Gli occhi si spalancano incuriositi e Laurel lo guarda, in attesa di altre spiegazioni.
«Ti aspetta un’altra vita, Laurel. In un altro posto».
«Con te?» non vuole perderlo adesso che l’ha ritrovato. Aveva detto che sarebbero rimasti insieme per sempre e lei lo vuole, vuole vivere con lui in un posto più bello.
«Sì».
«E dove mi porterai?».
Il padre guarda il cielo e le indica le due stelle che fissava ogni notte e che sperava la portassero da lui.
«All’isola che non c’è, bambina mia».
Le labbra si stendono in un sorriso sereno.
«Sapevo che non mentivi. Ci ho sempre creduto».
Sorride anche lui e la prende per mano, spostandosi verso le stelle.
«E la mamma? Torneremo a prendere anche lei?» chiede Laurel senza muoversi.
Il padre annuisce.
«La aspetteremo».
Improvvisamente tutto è chiaro, la strada che deve ancora percorrere e ciò che è successo. Serra le dita attorno alla sua mano e corrono insieme nella notte, corrono nel vento, con la luce delle stelle riflessa nei loro occhi.

 


*WHAWAIEAH!
Questa OS è arrivata terza al contest indetto dalle ragazze di  Pinoolast's Graphic- Video... :) 
Bisognava ispirarsi ad una canzone ed io ho scelto Laura Palmer... :) spero che la storia sia di vostro gradimento, sebbene sia un po' triste... :) <3
Un bacio a tutti,
Kry <3
ORDER OF THE PHOENIX*
  
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