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Autore: bloody_lily    06/11/2004    1 recensioni
Era Natale, questo lo so per certo. Ma come mi fossi ridotta a tornare a casa dopo quasi dieci anni non riesco proprio a ricordarlo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era Natale, questo lo so per certo

Il Vagabondo.

 

‘Sti cavolo di titoli… all’inizio mi sembrano perfetti, poi mi si scasina sempre tutto! Beh, buona lettura -.-‘’

 

 

Era Natale, questo lo so per certo. Ma come mi fossi ridotta a tornare a casa dopo quasi dieci anni non riesco proprio a ricordarlo.

Ripensando a quei quindici giorni che ho trascorso nel palazzone compatto ai limiti dell’oppressione in via Garibaldi, prendono forma nei fumi della memoria l’odore asettico di detersivo che sentivo scendendo le scale di marmo verdastro, ogni mattina alle sette e mezza, e la chiave, leggermente torta e attaccata a un orribile e malandato portachiavi della Mercedes, dell’appartamento che mi ha consegnato zia Luisa non appena sono arrivata.

Tutto sommato, può anche non essere così traumatico passare due settimane nella Milano natalizia. È che io a Milano ci sono nata e cresciuta fino a diciotto anni, e in tutto il tempo che ho trascorso là non riesco proprio a ricordare un buon sentimento che mi sia stato stimolato dall’ambiente circostante. Era tutto troppo rigido e triste e ossidato e angosciante, anche, e immagino che, se pure oggi trascorressi là una sola giornata in cui sole e cielo si tengono teneramente per mano e un lieve venticello muove appena l’aria satura di veleni e umidità rendendola almeno respirabile, riuscirei a trovare tutto ancora insopportabile e angoscioso.

Ho saputo che Gianluca sarebbe presto arrivato in città proprio mentre mi stavo sistemando, ed ho chiaramente sentito il sale sulla coda.

Lo slancio della fuga, dopo molto tempo, era di nuovo in me; stavo per mollare tutti i miei averi in quell’alloggio provvisorio e saltare sulla prima macchina che avrei visto giù per il viale e sequestrarla a chiunque la stesse guidando per mettere dodicimila miglia fra me e Milano.

In realtà non ho fatto niente del genere. Ho preso un vecchio maglione verde di lana d’angora dal mio baule e l’ho indossato.

Ho cercato di calibrare le pulsazioni come facevo ormai da anni, anche, e tutto ciò in un rigoroso e raccolto e seccato silenzio, ho sperato che nessuno fosse abbastanza sensibile da sentire il ritmo strano del mio respiro, mi sono mentalmente rimproverata per almeno cinque minuti la stupida reazione emotiva.

In ogni caso, quando ho ricominciato a parlare ero di nuovo io.

Ho cercato di dimostrare che la città era già stata ricostruita dopo l’uragano, ma per quanto avrei potuto mentire agli altri, mi sono resa conto che non ero ancora abbastanza calata nel ruolo del copione che mi ero costruita negli anni da riuscire a farlo anche con me.

In tono abbastanza noncurante ho chiesto “È pronta, la cena?”, mi sono vergognata di me stessa e non ho capito perché.

 

“Che vuoi fare da grande?”

“Voglio laurearmi e andarmene di qui, credo. Voglio andare a vivere a Parigi!”

“Farai l’avvocato, a Parigi?”

“Certo che no. Diventerò scrittrice, o pittrice, o entrambe le cose! E tu che vuoi fare?”

“Viaggiare per tutta la vita. Voglio vedere il mondo…”

 

Zia Luisa era meravigliosa come sempre, sorridente e serena e pacata e accomodante con il suo vassoio di polpette fritte e il suo fiasco di Lambrusco frizzante.

Mi ha riempito il piatto, ha detto “Sei cambiata molto, cara. Bella e intelligente la sei sempre stata, ma c’è un qualcosa di raffinato che ti racchiude, adesso”.

Sapevo cosa intendeva dire, lo sapevo benissimo. Io stessa ero consapevole di essere cambiata.

Avevo un lavoro impegnativo in cui mettevo gran parte delle mie risorse e uomo che mi amava, anche se momentaneamente non era con me, e progetti per lo meno fino all’anno dopo quello successivo. Camminavo in una strada ben delineata, nient’affatto impervia anche se leggermente stressante a volte. L’irrequietezza e l’impetuosità giovanile erano scemate come una bolla di sapone sottoposta a pressione troppo alta. Ero diventata adulta, un’adulta impegolata in una vita che mi ero costruita sopra le massime ambizioni sociali ed economiche che avevo covato nel tempo. Ero consapevole di tutto ciò, dentro di me, ma sentirmelo dire da zia Luisa mi ha dato fastidio. Altra cosa che sul momento non mi sono saputa spiegare; ho cominciato ad irritarmi con me stessa.

Ho sorriso sfuggente.

Ho mangiato e raccontato a zio Tommaso del mio lavoro di avvocato e di Stefano e della nostra prospettiva di matrimonio e dell’arte magnifica di Venezia.

Quando ho dato segni di volermi ritirare, lui ha rovistato almeno cinque minuti in un cassetto della credenza per estrarne una vecchia copia di On The Road. Non l’ho aperto perché sapevo che nella prima pagina avrei trovato la dedica di Gianluca, scritta con quella sua incomprensibile calligrafia da poeta, e infilata fra la seconda e la terza pagina una mia fotografia di quando ero sottile e fragile fisicamente ma salda e profonda in tutto il resto.

Zio Tommaso mi ha porto il libro e ha sorriso, ha detto “Così non ti annoi”.

L’ho ringraziato e mi sono avvicinata alla porta. Prima che potessi varcare la soglia, però, la voce della zia mi ha fermata. Ha detto “Domani arriva Gianluca. Vai tu a prenderlo alla stazione? Io non credo di essere ancora capace di destreggiarmi in quel luogo infernale”, si è messa a ridere.

Sperando di essere vestita del mio solito autocontrollo da donna in carriera ho annuito impenetrabile, me ne sono andata.

 

“Questo è il mio libro preferito. Dovresti leggerlo, sai, dovresti leggerlo e dirmi che ne pensi. Mi piacerebbe essere un Dean Moriarty, credo, e forse tu potresti essere la mia Marylou e la mia Camille, tutt’e due insieme. Voglio essere un Dean Moriarty, da grande, e voglio girare il mondo e imparare tutto quello che posso da esso. Voglio essere libero e al-di-là. Devi assolutamente leggere questo libro, Ali”

 

Zoppicava. Non so perché, ma quel piccolo particolare mi ha fatto supporre che qualcosa non andasse.

Camminava disinvolto e instabile e concitato e non si notava quasi, che un po’ della sua precarietà era data anche da un difetto fisico. Come sempre, in lui i difetti fisici non si notavano affatto. Corpo e movimenti e atteggiamenti erano una grande proiezione della sua essenza; si muoveva dinoccolato e febbrile e rock e si guardava intorno con tutta l’intensità possibile nei suoi occhi grigi. Ed era ancora più bello di quanto ricordassi.

È sceso dal treno e mi si è avvicinato in silenzio, senza fissarmi, ho creduto che volesse sorpassarmi e invece mi si è fermato davanti, mi ha lanciato un lungo sguardo in tralice. Ho reagito bruscamente, dentro di me, sentivo fastidio e collera e ancora fastidio e mi sembrava di essere un animale braccato, allo stesso tempo.

Sono rimasta lì in piedi, davanti a lui e a quella sua affascinante espressione da amabile lasciami-perdere, solida e caparbia fra la gente che arrivava e partiva e salutava, in attesa di un suo spunto. Alla fine ha detto “Alice” in un mormorio, mi ha abbracciata in un impulso quasi violento di comunicazione, come se le energie spese per tenerci in contatto si fossero accumulate a metà strada in tutti quegli anni e adesso fossero libere di arrivare a destinazione, tutte insieme.

Ho smesso di sentire fastidio.

 

“Allora domani parti”

“Già”

“Torni?”

“Certo…”

“Allora l’abbraccio strappalacrime conservalo per quando ci rivediamo”

 

Ci siamo sistemati di comune e silenzioso accordo al bar all’angolo di via Garibaldi.

Ero davvero irritata con me stessa.

Guardavo Gianluca con gli stessi occhi di dieci anni prima e lo stesso sorriso interiore e broncio esteriore e la stessa voglia di incontro-scontro con i suoi occhi accesi e le sue parole appassionate. E ciò che è peggio è che lo vedevo uomo, adesso. Finalmente era un mio simile, una creatura soggetta a vita e morte e miracoli, anche, una creatura stanca per le ore di treno nella sua giacca di velluto e con le guance bionde e gli occhi arrossati e la sigaretta fra le labbra.

Non era più il mio Apollo.

Era un semplice uomo, che sorrideva guardando la neve che iniziava a confondere le strade e le persone e le luci e le vetrine natalizie oltre la vetrata del bar e che rovesciava distrattamente due bustine di zucchero nel caffè. Un semplice uomo instabile e inaffidabile e inafferrabile come l’acqua che ti scivola fra le mani e soggetto all’azione del tempo e della provvidenza, se ce ne fosse mai stata una, e di tutto il resto.

E nonostante tutto suscitava in me gli stessi atteggiamenti e le stesse espressioni e le stesse sensazioni e, cosa ancora peggiore di tutto il resto, mentre gli accendevo la sigaretta con la mia mi sono sono sentita certa di come sarebbero andate le cose.

Vedendomi accigliata, Gianluca ha sorriso appena, scatenando la mia risposta automatica e non facendo altro che farmi irritare ancora di più con me stessa.

Ancora sorridendo ha cominciato a raccontare e chiedere e rispondere e immaginare e descrivere e ascoltare.

Ci siamo alzati soltanto quando ha iniziato a fare buio, perchè non volevo che zia Luisa si preoccupasse non vedendoci arrivare.

 

“Perché ridi?”

“Non rido, sorrido”

“Allora, perché sorridi?”

“Così… mi fa sorridere la tua espressione concentrata…”

“Che uomo inutile, maledetto di un modello indisponente…”

“Molla lì la tua tavolozza e vieni qua”

“Neanche per sogno!”

“Vieni qua…”

“No!”

“Scommettiamo che entro un minuto sei seduta sulle mie gambe?”

“No-o!”

“Cinquantanove… Cinquant-”

“Stronzo!”

 

Non ci siamo più visti né parlati fino a due giorni dopo, Natale e il grande pranzo erano già passati.

È venuto a bussarmi alla porta di mattina, mentre stavo facendo il cappuccino: si è presentato completamente zuppo, con dei cornetti alla crema in un cartoccio e un sorriso cortese sulle labbra. L’ho invitato ad entrare.

Mi ha squadrata, mentre camminavo per la cucina, si è seduto al tavolo in silenzio.

Gli ho preso un asciugamano e una felpa che a me stava larga, gli ho messo davanti un cappuccino fumante.

Ha detto “Così alla fine fai davvero l’avvocata”, si è acceso una sigaretta. Ha continuato, prima che potessi interpretare la frase come una presa in giro, “Hai smesso, di dipingere?”. Avevo smesso da anni. Non avevo più tempo per farlo, ero sempre presa fra il fuoco del lavoro e quello di Stefano eccetera. All’inizio, da vera cultrice delle arti visive, avevo anche provato a buttarmi sulla fotografia, che per lo meno non è impegnativa come la pittura. Ma non era andata, così avevo abbandonato lo stupido sogno di vedere un mio quadro appeso vicino a Il Grido insieme a pennelli e tavolozza.

Ho fatto spallucce e bevuto un sorso di cappuccino.

Si è morso un labbro, mi ha chiesto “Ti andrebbe di farmi un ritratto?”.

Ho sentito la necessità di raccontargli di Stefano. Non ne avevamo ancora parlato, forse inconsciamente avevo voluto evitare l’argomento. Mi sono accesa anch’io una sigaretta e ho raccolto le gambe vicino al petto, acciambellandomi sulla sedia. Non mi andava affatto, di fargli un ritratto. Gliel’ho detto.

Lui si è guardato intorno con occhi brucianti, quasi. Ha detto “Neanche –”, e l’ho interrotto prima che potesse finire.

Ho detto “Neanche in memoria dei vecchi tempi, no. Nessun ricatto emotivo” e forse l’ho fatto un po’ troppo bruscamente. Ho sospirato, dato un tiro.

Gianluca ha sorriso triste. Ha detto “Non intendevo questo. Voglio che tu mi faccia un ritratto per regalartelo”.

Altro motivo per cui il mio brutto presentimento si rinforzava.

 

“Ma… non dovevi farmi… il ritratto?”

“Mmh…”

“Eh… Ali… non dovevi… farmi il ritratto?”

“Ma sì, ma sì, infatti sto studiando i tuoi lineamenti, se no come faccio a disegnarti? E adesso smettila con le proteste e dammi un bacio”

 

E così ho acconsenstito a fargli il ritratto.

Mentre fuori imperversava il mal tempo e la nebbia copriva i tetti e pioveva disperatamente e nevicava e grandinava, anche, Gianluca se ne stava seduto sul divano del mio salotto in dolcevita chiaro e jeans e mi sorrideva malinconico mentre io lo fissavo sulla tela.

Mi raccontava dei suoi viaggi e delle cose che aveva visto e delle cose che aveva sentito e io lo ascoltavo con l’attenzione che avrei offerto ad un oracolo. Aveva questo modo di raccontare tutto particolare, mi faceva vivere tutte le sue avventure e mi guardava con quei suoi occhi conturbanti e dannatamente sinceri e si muoveva calmo e febbrile e sorrideva tagliente e dolce e parlava ancora.

Dopo un altro paio di giorni, quando il ritratto era già a buon punto, l’ho aspettato invano tutto il pomeriggio. Non mi serviva il modello davanti per finirlo, avevo nella mente tutti i toni soffusi e intensi e tutte le sfumature e le zone d’ombra che mi servivano per definire gli ultimi particolari. Il mio occhio uso ai più piccoli dettagli aveva catturato tutto il possibile da Gianluca che sedeva e parlava e la mia mente, ma con il senno di poi sono più propensa a dire la mia anima, conservava in sé il tesoro.

Guardavo il quadro e lo vedevo, il mio Apollo ormai umano, lo vedevo emozionarsi e muoversi dorato e vedevo anche me, insieme a lui, mi vedevo seduta sulle sue gambe sorridente ed emozionata come lui.

Guardavo il quadro e mi sembrava di vedere due fantasmi. Ho realizzato che non lo erano.

 

“Cara Ali,

non è finita. Per me non lo sarà mai, temo. Posso non pensarti, posso tentare di dimenticarti e cancellarti dalla mia vita, ma da qualche parte di me sopravviverai a tutto ciò. Io non lo saprò, e non lo saprai neanche tu, ma sopravviverai a tutto ciò…”

 

Ho saputo che Gianluca era all’ospedale da zia Luisa, poco dopo aver deciso di coprire il quadro con un canovaccio e uscire per fare due passi.

Sono andata a trovarlo preoccupata ma non molto sorpresa, tutto sommato, anche se non so perché –forse per via di quel maledetto presentimento. Non ero sicura che avrebbe gradito, e non ero sicura neanche di cosa dirgli, ma sono arrivata da lui molto prima di pormi il problema.

Era seduto su una brandina, pallido e malinconico e pensieroso anche se i suoi occhi carezzavano perniciosi e mobili tutto intorno. Mi sono seduta vicina a lui, gli ho acceso la sigaretta ben sapendo che presto ci avrebbero sgridato per questo.

Nel silenzio complice un turbinio di pensieri senza capo né coda mi ha travolta, mi sono bloccata a mezz’aria soltanto quando Gianluca ha attirato la mia attenzione appoggiandomi la testa sulle gambe. Ha detto “Sto male” e chiuso gli occhi.

Ho sentito che le tessere andavano a posto senza tuttavia vedere il disegno, gli ho affondato una mano fra i boccoli chiari, ho sorriso triste.

 

“Se ti prendo per mano cosa succede?”

“Non ci provare!”

“Ma perché?”

“Mi dà fastidio!”

“Come sei indelicata…”

“Parla Mister Squisitezza!”

“…”

“…allora? Non mi prendi per mano?”

 

Il giorno dopo era l’ultimo dell’anno, e mi sono svegliata di cattivo umore.

Ultimamente sembrava che niente potesse andare bene, Gianluca era all’ospedale, il quadro rimaneva nel mio salotto ancora da finire come monito e tortura al tempo stesso e io non mi sentivo più io. Non sentivo Stefano da giorni e non avevo preoccupazioni d’ufficio e mi sentivo perfettamente sradicata dalla mia vita. Mi sentivo un’estranea, e neanche pensare a ciò che mi aspettava a Venezia sembrava aiutarmi. Anzi, avevo sempre meno voglia di tornare a casa: speravo di rimanere sospesa nel mio nuovo limbo, nelle sensazioni ed emozioni tratte da quell’incontro inaspettato.

Mi sono trascinata in cucina per il consueto cappuccino ed ho notato una busta bianca sul pavimento vicino alla porta. L’ho aperta impaziente e ci ho trovato dentro un biglietto aereo solo andata per Parigi.

Con gli occhi sonnacchiosi ho letto qualcosa come “Devo andare. Conserva il quadro incompiuto, lo finirai quando ci rivedremo, a Parigi, e sarai quella famosa pittrice e scrittrice che volevi”, mi sono resa conto dopo che non c’erano affatto biglietti né parole scritte da nessuna parte.

Ho deciso che non mi sarei più fatta influenzare così tanto da niente e nessuno, avevo lasciato fin troppo abbandonate le redini della mia vita.

Non ero più io, decisamente. O forse ero più io di quanto non fossi mai stata in quei maledetti dieci anni.

 

“Ti amo…”

“Cosa?”

“Niente!”

“No, hai detto qualcosa!”

“Ma no…”

“Dimmi cos’hai detto!”

“Ti… ti amo. Ecco…”

“Anche io ti amo. Scemo!”

 

Qualche ora più tardi ero in aereo, e guardavo giù dal finestrino convinta che da qualche parte dell’aereoporto un pazzo scappato dall’ospedale mi stesse guardando partire compiaciuto.

  
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