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Autore: Belarus    21/11/2013    1 recensioni
Doveva ammetterlo, almeno con se stesso, sedersi a studiare nel giardino del collegio con quei due non era stata una delle cose più sagge che avesse fatto nella sua breve vita.
{FrUk-Franada}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Canada/Matthew Williams, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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Titolo: L’horloge tourne
Personaggi: Francis Bonnefoy{France}POV; Arthur Kirkland{England}; Matthew Williams{Canada}; Antonio Fernandez Carriedo{Spain} citato; Gilbert Beilschmidt{Prussia} citato.
Rating: Giallo.
Genere: Romantico; Malinconico; Introspettivo.
Avvertimenti: AU; Shonen-ai; Triangolo.
Note: Avrebbe dovuto essere un triangolo, ma temo di non essere pienamente riuscita nell’impresa. In fondo però, credo sia meglio così. A volte è decisamente più conveniente lasciare che le lancette dell’orologio scorrano e la Francia Britannica faccia il resto…
NoteII: Storia partecipante al contest "One, two, three...[And I'm caught in between <3]" indetto da Æthelflæd sul forum di EFP.




L’horloge tourne






Abbassò lo sguardo sul proprio polso, osservando con ansia il moto perpetuo delle piccole lancette scure dell’orologio. Il cielo sopra i torrioni dei dormitori si era tinto di una tonalità cupa d’arancio quasi bluastro, l’aria era divenuta sempre più fredda, permettendo all’umidità di risalire dal boschetto che li circondava.
Doveva ammetterlo, almeno con se stesso, sedersi a studiare nel giardino del collegio con quei due non era stata una delle cose più sagge che avesse fatto nella sua breve vita. Ripensandoci sarebbe potuto sfuggire a quel pomeriggio fingendo una lezione supplementare di violino, di aver fatto confusione con l’agenda, magari di dover portare Gilbert dal dentista insieme ad Antonio giù in paese. Avrebbe potuto se ci fosse stato solo Matthew ad aspettarlo in corridoio, non sarebbero servite neanche troppe scuse, ma il vero problema lì non era il canadese, ma Arthur. Sbucato da chissà quale meandro dell’istituto, senza neanche un corvo come presagio nefasto ad annunciarlo, era stato talmente perentorio nel voler partecipare a quello che aveva da sé definito “pomeriggio di studio” da non lasciargli alcuna possibilità per ribattere.
In parte, dentro il proprio petto, Francis aveva sentito qualcosa dibattersi con sempre maggiore vigore scoprendo quella gelosia inattesa da parte dell’inglese, dall’altra aveva sentito uno strano campanello d’allarme tintinnare sino a rompersi quando si era, finalmente, reso conto della situazione in cui si era imbrigliato.
«Si è fatto tardi, tra un’ora serviranno la cena…» bisbigliò una voce fioca lì accanto.
Non poté che concordare, scoprendosi a dir poco sollevato dalla mancata catastrofe di quel pomeriggio ormai volto al termine. Richiuse il libro di storia arenato su chissà quale battaglia romana di cui non aveva letto neanche il nome, gettando uno sguardo al giovane che seduto accanto a lui aveva appena interrotto quell’interminabile silenzio.
Matthew era arrivato al collegio più di un anno prima, infagottato in una massa di maglioni che avrebbero dovuto proteggerlo dall’umidità delle montagne tedesche e che gli conferiva un aspetto quanto mai infantile. Nella trentina di ragazzi e ragazze che affollavano il castello era quello che più di tutti passava inosservato, ma Francis lo aveva preso in simpatia sin dal loro primo sguardo. Lo aveva coccolato e viziato in un impeto d’affetto incondizionato, forse spronato da quella lingua che condividevano con orgoglio e che non mancavano di utilizzare nei momenti di sconforto. Non c’era voluto molto perché Matthew lo baciasse nella sala del piano, dimostrando un coraggio di cui nessuno l’avrebbe detto capace, mormorando parole offuscate di cui Francis aveva percepito suo malgrado solo la patina.
Un lieve sorriso gli distese le labbra al ricordo e la mano scivolò lenta ad accarezzare i riccioli biondi che affollavano il capo del canadese. Sfiorò con due dita le guance chiare, mentre s’imporporavano sempre più sotto i suoi tocchi. Le lasciò scorrere via solo quando un rivolo gelido le ghiacciò tanto da costringerlo a portarle alle labbra rosse per scaldarle e gli occhi di Matthew s’illuminarono divertiti per i suoi versetti lamentosi. Soffiò per qualche secondo scaldandole nuovamente, prima di chinarsi sul tavolo.
«Arthur, tu non vieni?» chiese Matthew, dopo aver compiuto qualche passo verso la piccola scalinata carica di muschio che riportava all’interno.
Francis si scoprì impreparato nel sollevare lo sguardo dai propri libri e portarlo in quello dell’inglese, rimasto a osservare in religioso silenzio dalla panca opposta. Qualcosa si agitò nuovamente all’interno del suo petto e il sapore amaro della consapevolezza parve insudiciargli le labbra, insinuandosi lungo la trachea sino a bruciare i polmoni e fargli credere di soffocare, affondò i propri artigli scavando nella carne. Ispirò prontamente, fingendo una nonchalance tradita solo dall’ombra che perennemente si annidava nel suo sguardo quando incrociava le iridi verde acido di Arthur.
«No, arrivo dopo.» sibilò laconico, abbandonando i propri occhi in quelli blu del francese.
Matthew non parve troppo sicuro, ma si mosse ugualmente estinguendo qualsiasi commento sino a risalire alcuni gradini. Si volse solo quando il silenzio accompagnò i suoi passi e si rese conto di essere solo sotto le arcate umidicce della passerella.
«…Francis?» chiamò un po’ incerto, fissando tremulo la schiena curva del biondo.
«Va avanti Mathieu, ti raggiungo dopo…» biascicò sollevandosi dalla propria posizione, per rivolgergli un sorriso.
Matthew annuì muto serrando i libri al petto, prima di abbassare il capo sulle pietre corrose del lastricato e svanire tra i corridoi già bui dell’istituto.
Francis mantenne il proprio sorriso sino a che anche l’ombra del canadese non fu inghiottita dalla struttura e il silenzio tornò a gravare sul giardino, frusciando tra i rami scheletrici dei pini cupi che s’insinuavano tra torri e cortili. Quando tutto parve tacere, le labbra si torsero in un sorriso amaro che gli strinse il petto in una morsa.
Avrebbe voluto seguirlo, consolarlo e proteggerlo come si era ripromesso di fare vedendolo abbandonato in un angolo a stringere un vecchio orso dalla pelliccia consunta, ma sarebbe stato crudele e bugiardo illuderlo di un legame che mai sarebbe stato forte quanto quello con l’inglese.
Lui e Arthur erano arrivati al collegio lo stesso giorno di dieci anni prima, insieme, poco più che bambini, abbandonati dalle proprie famiglie in nome di un futuro che nessuno dei due avrebbe davvero voluto. Si erano parlati dopo un mese – nonostante Francis avesse tempestato di domande e frecciatine il più piccolo sin dalla prima sera –, avevano scelto due letti affiancati nel dormitorio, forse per difendere i ricordi da quelli apparentemente così diversi degli altri bambini. Erano cresciuti l’uno accanto all’altro, beccandosi, infastidendosi, soffocando gli improperi, picchiandosi nel cortile sino a farsi rinchiudere per punizione nel capanno lungo la strada del paese. C’erano ritornati in quel capanno, senza nessuna punizione a gravare sulle spalle e i sospiri a sfuggire dalle gole roche. Avevano fatto sesso così tante volte da farlo diventare un vincolo. Uno appannato, improbabile e incosciente che li teneva ancorati senza troppe domande e spiegazioni, impedendo al resto di scorrere sulla loro pelle.
«Era un invito quello, chenille?» soffiò fuori malizioso, prima di voltarsi a guardarlo di nuovo con rinnovato umore.
Arthur si sollevò infreddolito, le mani strette attorno al bavero della mantella sollevandolo per coprire le labbra screpolate. Diede una veloce occhiata alle finestre delle cucine del collegio, prima di raccogliere il proprio libro e allontanarsi dalla parte opposta, verso il camminamento che conduceva al paese.
«No, era un avvertimento frog.» borbottò irritato, allungando il passo.
Francis ispirò ancora l’aria gelida, lasciando che Arthur lo precedesse lungo la strada. Guardò un’ultima volta le lancette del vecchio orologio dono di suo padre scorrere sul polso con moto cadenzato.
Avrebbero potuto bloccarsi in qualsiasi momento, per un’incuria, per una dimenticanza o una rovinosa caduta, ma continuavano a ticchettare memori del tempo che correva lasciando al mondo il proprio ricordo. Memori di quel rapporto effimero, un po’ logoro e abusato, tradito, storpiato e svilito che lui e Arthur continuavano a mantenere in silenzio tra i boschi di quelle montagne. Un giorno forse si sarebbero fermate, qualcosa si sarebbe rotto e Francis le avrebbe guardate con nostalgia, custodendole come il più irrivelabile dei miracoli. Al momento però, continuava ad ascoltarle.
«Idiot!»
«Oui, oui… Dieu, Arthùr come sei frettoloso!»










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Note dell’autrice:
CavilliTime: La zona cui faccio riferimento è la regione del Baden-Württemberg, in Germania, ove si dirama la Foresta nera. Il paesino è in realtà una prosecuzione del centro di Friburgo in Brisgovia, che proprio a causa della vicinanza con la foresta – gli alberi spesso sono alle spalle delle abitazioni – risente degli inverni più gelidi che si registrino in gran parte dell’Europa. L’epoca dovrebbe essere circa intorno al 1600, ma non vi è alcuna data storica rappresentativa correlata.


  
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